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La

Repubblica di Genova nella prima metà del Seicento:


una complessa piattaforma negoziale all’ombra della protezione politico-
diplomatica spagnola

Diego Pizzorno

Working paper
Attraverso la storia - IV edizione, Bologna 2016

Nel quadro degli antichi Stati italiani, la Repubblica di Genova è un caso piuttosto
anomalo e contraddittorio. Pressoché imbelle, con apparati militari deboli, inferiori
persino a quelli di altre realtà territorialmente minori1, lo Stato genovese era
immobilizzato in un’alleanza con la Spagna che aveva i tratti del protettorato,
perché Madrid vietava lo stabilimento a Genova di legazioni diplomatiche al di fuori
della propria2. Per contro, però, la Repubblica rivestiva un ruolo importante negli
equilibri internazionali; e non soltanto per l’influenza dei suoi investitori e assentisti.
A questo rilievo privatistico, s’aggiungeva la centralità geo-politica di Genova, i cui
domini, inglobati nel sottosistema Italia3, erano un crocevia di uomini, merci e
informazioni. Gli approdi liguri costituivano una delle tappe della nota “via
spagnola”4, che, attraverso il Ducato di Milano e la Valtellina, giungeva nelle Fiandre.
Uno scacchiere viario terrestre che, proprio in Liguria, ne incrociava altri due


1
P. GIACOMONE PIANA, R. DELLEPIANE, Militarium: fonti archivistiche e bibliografia per la storia
militare della Repubblica di Genova (1528-1797), della Repubblica Ligure (1797-1805) e della Liguria
napoleonica (1805-1814), Genova, Brigati, 2003.
2
V.F. DE CADENAS Y VICENT, El protectorado de Carlos V en Génova. La “Condotta” de Andrea
Doria, Madrid, Hidalguia, 1977; M. HERRERO SANCHEZ, La Finanza genovese e il sistema imperiale
spagnolo, in La monarquia de las naciones: patria, nacion y naturaleza en la Monarquia de Espana, a cura di
B.J, García García, A. Álvarez-Ossorio Alvariño, Madrid, Fundacion Carlos de Amberes, 2004, p. 31, nota 12.
3
A. MUSI, L’impero dei viceré, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 91.
4
G. PARKER, The Army of Flanders and the Spanish Road 1567-1659, Cambridge University Press,
1972.
marittimi: l’uno proveniente dalla stessa Spagna; l’altro dal Mezzogiorno italiano5.
Su queste aree, Madrid aveva esteso il suo diretto dominio, con la sola eccezione dei
territori valtellinesi e liguri, il cui controllo aveva presentato problemi di diversa
natura. In Valtellina, la Riforma protestante aveva attecchito, e alle ragioni geo-
politiche s’era sovrapposta una diatriba religiosa destinata a infiammare sanguinosi
scontri6. A Genova, invece, le cose erano andate diversamente, e non soltanto
perché la Repubblica era rimasta nell’orbita del cattolicesimo. Fortemente presente
nei circuiti finanziari internazionali, l’aristocrazia genovese disponeva di un certo
potere contrattuale, che consentiva di sventare un diretto dominio spagnolo,
ponendo nel contempo le condizioni per la nascita di una classe di governo. Su
queste basi, nel 1528 era nata una Repubblica oligarchica indipendente, ma legata a
doppio filo alla Corona spagnola7: operazione non esente da ambiguità, che avevano
presto infiammato malumori interni, travagliando la vita del nuovo Stato genovese
anche oltre la sua definitiva stabilizzazione istituzionale nel 15768.

Il potere dei privati non bastava a bilanciare l’oggettiva disparità di forze, che
naturalmente pendeva in favore di Madrid; e i temi dell’autonomia e della libertà
s’erano prestati tanto al dibattito polemico interno alla Repubblica, quanto a una
politica neutralista volta a preservare Genova dagli scossoni internazionali. Scelta in
qualche modo obbligata e conveniente; ma difficile da attuare in quello che è stato
chiamato il secolo di ferro9, anche perché la ripresa dell’attivismo francese sulla

5
A. PACINI, «Desde Rosas a Gaeta». La costruzione della rotta spagnola nel Mediterraneo
occidentale nel secolo XVI, Milano, Franco Angeli, 2013
6
La Valtellina, crocevia dell'Europa: politica e religione nell'età della Guerra dei Trent'anni, a cura di
A. Borromeo, Milano, Mondadori, 1998.
7
A. PACINI, I presupposti politici del secolo dei genovesi: la riforma del 1528, ASLSP, 30 (1990); id., I
mercanti-banchieri genovesi tra la repubblica di San Giorgio e il sistema imperiale ispano-asburgico, in
L’Italia di Carlo V. Guerra, religione e politica nel primo Cinquecento, a cura di F. Cantù, M.A. Visceglia,
Roma, Viella, 2003.
8
A. PACINI, La Repubblica di Genova nel secolo XVI, in Storia di Genova. Mediterraneo, Europa,
Atlantico, a cura di D. Puncuh, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 2003; R. SAVELLI, La Repubblica
oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano, Giuffrè, 1981.
9
H. KAMEN, Il secolo di ferro: 1550-1660, Roma, Bari, Laterza, 1977.
scena internazionale dopo l’assoluzione di Enrico IV nel 1598, riaprì la contesa per il
controllo dei domini genovesi. Tuttavia, sebbene esitante e compromissoria,
l’oligarchia genovese portò avanti con fermezza la linea della neutralità, facendo di
Genova un “portofranco diplomatico-informativo”. Francesco I d’Este fu tra i principi
più attenti a sfruttarne le potenzialità. Deciso a svolgere un ruolo da protagonista
negli scenari europei, tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento, il duca di Modena
cercò di rafforzare i suoi legami con Madrid appoggiandosi ai genovesi Grimaldi de
Castro10. Relazioni di patronato, ma con una spiccata connotazione politico-
diplomatica, determinata dal fatto che quella famiglia era ben inserita nel sistema di
poteri spagnolo; il che ne faceva un’ottima pedina negoziale informale. Ma Genova
doveva brulicare di simili iniziative. Nel giugno 1621, il governo della Repubblica
ordinò un’inchiesta contro quelli che accedevano, o tentavano di avere accesso «ad
servitia principum exterorum», con l’intento di mettere sotto processo questi
mediatori11. Una severità rimasta sulla carta: appena un mese dopo, quelle
rappresentanze informali venivano legalizzate, sub condicione di un riconoscimento
ufficiale per mezzo di lettera credenziale. La vicenda era una delle tante
“pantomime politiche” tra Genova e Madrid. Ad accedere, o a tentare di avere
accesso a principi e governi stranieri, erano proprio alcuni uomini del patriziato
locale; ed era poco credibile che il ceto di potere genovese volesse punire se stesso.
E, dopo l’iniziale intransigenza, mirata a rispettare le apparenze, l’immediato
riconoscimento ope legis di quelle rappresentanze aveva istituito legazioni
diplomatiche vere e proprie. Su questi raggiri più o meno scoperti, s’era aperta la
stagione delle rappresentanze informali che avrà una seria battuta d’arresto nel
1643, quando la Repubblica tornerà sui suoi passi con un altro decreto che
cancellerà il precedente12.


10
D. PIZZORNO, Al servizio degli Este. I Grimaldi e la corte di Modena (1621-1643), in «Dimensioni e
problemi della ricerca storica», 1/2015.
11
Archivio di Stato di Genova (=ASG), ms. 600.
12
ASG, Archivio segreto, 1655.

La pignatta di vetro genovese13 finì così per essere un crocevia di movimenti e
transiti che non riguardavano soltanto il network spagnolo. Molto fitta era, ad
esempio, la circolazione postale che si muoveva attraverso corrieri ufficiali o agenti
locali informali. Un’intensa circolazione di notizie che fece di Genova il centro di una
copiosa produzione di Avvisi, che visse una vivace fioritura nella prima metà degli
anni Quaranta, con la nascita di una Gazzetta di Genova affidata alla tipografia dei
Calenzani e al compilatore Michele Castelli14. Sulla diffusione e sull’avvertita
affidabilità di questi fogli informativi, vi sono eloquenti riscontri archivistici:
esemplare la serie di Avvisi genovesi conservata in tre volumi presso la Biblioteca
Apostolica Vaticana, una collezione che copre gli anni tra il 1640 e il 164415. Lo
stesso Francesco I d’Este se ne mostrò assai interessato; e, su imbeccata dei fidi
Grimaldi, aveva arruolato proprio il gazzettiere genovese Castelli, che, tra il 1641 e il
1645, inoltrò a Modena numerosissimi fogli informativi: alcuni manoscritti, altri a
stampa; quest’ultimi realizzati in parte proprio dal tipografo Calenzani, e in parte da
un misterioso «stampatore fiorentino»16. Le coordinate cronologiche di questa
divulgazione genovese sono significative, perché richiamano un contesto
internazionale notoriamente travagliato da bruschi rivolgimenti. Tra il 1642 e il
1643, le morti di Richelieu e di Luigi XIII provocarono un cambio ai vertici del Regno
di Francia, a cui si accompagnava la vittoria francese sugli spagnoli a Rocroi. Evento
che provocò la rimozione del potente valido di Filippo IV, il conte-duca Olivares, la
cui disgrazia era stata preparata dalle sollevazioni in Catalogna e in Portogallo dei
primi anni Quaranta. Le rivolte di Napoli e Palermo, tra il 1647 e il 1648, avrebbero
sottolineato la vacillante tenuta degli assetti spagnoli; ma anche la Francia sarebbe

13
A. PACINI, “Pignatte di vetro”: being a Republic in Philip II’s Empire, in Spain in Italy: politics,
society, and religion (1500-1700), ed. by T.J. Dandelet, J.A. Marino, Leiden, Boston, Brill, 2007, pp. 197-225.
14
M.M. NIRI, La tipografia a Genova e in Liguria nel XVII secolo, Firenze, Olschki, 1998.
15
Avvisi pubblici di Genova stampati da Pier Giovanni Calenzani, Biblioteca Apostolica Vaticana
(=BAV), Stamp. Barb. FF. VIII., 66-68.
16
Archivio di Stato di Modena (=ASMO), Archivio segreto estense, Cancelleria sezione estero,
Corrispondenti Genova, 3.
stata presto investita da un movimento di rivolta, detto della Fronda. Di fronte a
questi rivolgimenti, gli Stati italiani stavano in cauta e interessata osservazione. E, a
Genova, come altrove, gli affanni spagnoli resero più intraprendenti fazioni e partiti
filo-francesi, alimentando una partita d’intrighi nella quale le autorità della
Repubblica potrebbero aver incoraggiato, o quanto meno non contrastato, quella
diffusione di notizie che riportava le crepe nel sistema di poteri spagnolo.

Genova era, del resto, un’ottima cartina tornasole dei contraccolpi di quelle
turbolenze. Già nel febbraio 1641, Castelli riferiva a Modena che Parigi aveva
intavolato trattative con la Repubblica per insediare a Genova un’ambasciata
francese. Un negoziato che l’oligarchia genovese stava vagliando senza preclusioni,
probabilmente incoraggiata da una fase di vacanza diplomatica spagnola: proprio
nel febbraio 1641, l’ambasciatore Juan de Velasco y la Cueva, conte di Siruela, che
reggeva la legazione spagnola a Genova dal 1636, era stato nominato Governatore
di Milano; e, soltanto nel maggio successivo, Madrid inviò un nuovo diplomatico
nella persona di Juan de Eraso17. Ciò non toglieva la pericolosità di quell’attività
informativa. In quella stessa missiva, Castelli manifestò l’intenzione di utilizzare un
cifrario e uno pseudonimo. Espedienti che, a quanto pare, non ebbero corso, perché
tutta la sua corrispondenza con gli Este è in chiaro e porta la sua firma; ma forse le
lettere sotto pseudonimo e in cifra furono opportunamente distrutte a Modena. Ai
ministri spagnoli non doveva essere sfuggita quella pubblicistica che prendeva le
mosse da Genova, dove un altro tipografo, Giovanni Maria Farroni, stava
pubblicando in quello stesso periodo un altro bollettino, a firma di un certo
Alessandro Botticelli. È probabile che vi siano state delle pressioni perché cessassero
quelle “fughe di notizie”. Ma l’oligarchia genovese si destreggiò inalberando la
propria libera sovranità, e mostrandosi perciò riluttante nell’imporre alle proprie


17
Archivo General de Simancas (=AGS), Consejo de Estado, Negociación de Génova, legg. 3594-
3595, 3636; F. BELLATI, Serie de’ governatori di Milano dall’anno 1535 al 1776, Milano, Malatesta, 1776.
tipografie una censura eccessivamente liberticida. Dinamiche, in verità, difficili da
sondare. Nel caso dell’oscuro stampatore fiorentino, ogni opzione rimane aperta,
compresa quella che esistesse davvero e fosse utilizzato da Castelli per comodità
logistica, dietro un opportuno anonimato politico. In questo senso, vi sarebbe il
conforto delle trattative che Castelli riferì d’aver avviato con questo stampatore, e
con il segretario di Stato del Granducato di Firenze, il balì Andrea Cioli. È noto, però,
come i gazzettieri ricorressero spesso a stratagemmi per depistare la sorveglianza
censoria. Sotterfugi che, non di rado, celavano proprio il tacito assenso delle
autorità preposte al controllo, interessate alla propalazione di notizie politicamente
scomode senza compromettersi. E, se è questo il nostro caso, allora è molto
probabile che lo stampatore fiorentino fosse un nom de plume dei Calenzani e di
Castelli non osteggiato dalla Repubblica.

In quella fase di generale scompaginamento degli equilibri internazionali, s’inserì un
episodio tutto italiano, il primo conflitto di Castro: una guerra scoppiata nel 1641 tra
lo Stato pontificio e il Ducato di Parma per il possesso di un piccolo possedimento
feudale nel Lazio, Castro per l’appunto, che apparteneva alla dinastia principesca
parmense dei Farnese. Genova s’arroccò nella sua consueta neutralità18; mentre una
Lega di Stati italiani, tra i quali anche il Ducato di Modena, s’affrettò a sostenere
Parma. L’andamento di quel conflitto finì tuttavia per risentire della fine del lungo
pontificato di Urbano VIII; tanto che la pace tra Roma e Parma seguì di poco la
morte di quel papa, rendendo ancora più convulso il quadro storico di quegli anni.
Per Francesco I d’Este, l’impegno bellico diede risultati deludenti. Madrid occupò
con forza lo scenario romano, e di possibili rivendicazioni modenesi – come la
reclamata restituzione di Ferrara, passata allo Stato pontificio a fine Cinquecento –
non voleva sentir parlare. E così, già nel 1642, mentre si svolgevano alcune trattative
di pace per una soluzione del conflitto di Castro, l’agente modenese Fulvio Testi

18
D. PIZZORNO, Genova e Roma nella crisi di Castro, in «Studi storici», 2/2015.
aveva avanzato la possibilità di un ribaltamento delle alleanze19. Un passaggio nel
campo francese già compiuto da Tommaso di Savoia, e riecheggiante quella Lega di
Rivoli del 1635 nella quale Torino, Parma e Mantova s’erano unite a sostegno di
Parigi contro Madrid20. Ma il duca di Modena si mostrava tiepido, e frenava le
velleità filo-francesi dei suoi ministri. A premere in direzione di un avvicinamento a
Parigi, era soprattutto il fratello cardinale Rinaldo. Un’importante personalità
politica dell’Italia del Seicento piuttosto trascurata, e sulla quale sono state spese
parole alquanto ingenerose. Simeoni, che ha studiato la politica estera estense in
questa fase, ne ha sottolineato l’azione poco incisiva nei primi mesi del pontificato
di Innocenzo X21. Avviato inizialmente alla carriera militare, Rinaldo d’Este non
doveva aver goduto inizialmente di una forte rete di potere personale a Roma. Ma,
più sensibile del fratello alle sirene francesi, dopo l’elezione di Innocenzo X non
aveva apposto le insegne spagnole alla sua residenza romana, facendo appello alla
sua libera condizione di porporato. Una manovra tutt’altro che agevole. Rinaldo
d’Este doveva la porpora agli Asburgo; e, se la gratitudine non è una dote politica,
l’ingratitudine fu un ottimo argomento per screditarlo. Ma, uomo di potere deciso a
cogliere le migliori occasioni pro domo sua, Rinaldo agì in maniera sottile. Separando
la sua condotta da quella del fratello duca, manovrò senza compromettere
direttamente il Ducato, incoraggiato da un quadro politico romano fluido e volubile,
nel quale porporati e uomini di potere cercavano faticosamente di tessere accordi e
alleanze. Un contesto in cui non sembra di poter scorgere un chiaro indirizzo
neppure in Innocenzo X, a cui è stata tradizionalmente attribuita un’inclinazione filo-
spagnola soltanto recentemente ridimensionata22. Il colore filo-spagnolo di quel
papato fu dettato dai timori per i disegni di Mazzarino, che preparava una campagna

19
F. TESTI, Lettere, a cura di M.L. Doglio, Bari, Laterza, 1967, vol. III, p. 321.
20
S. FOÀ, Il trattato di Rivoli (11 luglio 1635), Bene Vagienna, Vissio, 1931; A. SPAGNOLETTI,
Tommaso di Savoia: un principe cadetto nel gioco delle potenze europee della prima metà del Seicento,
Roma, École française de Rome, 2015, pp. 231-258.
21
L. SIMEONI, Francesco I d’Este e la politica italiana del Mazarino, Bologna, Zanichelli, 1921, p. 59.
22
M.A. VISCEGLIA, Roma papale e Spagna. Diplomatici, nobili e religiosi tra due corti, Roma,
Bulzoni, 2010, p. 42.
militare in grande stile nella Penisola. Dopo aver posto Tommaso di Savoia a capo di
alcuni contingenti francesi in Italia, nei primi mesi del ’45 il primo ministro francese
ottenne alcuni successi sugli spagnoli in Lombardia e in Valtellina. Per sostenere quei
piani, Mazzarino necessitava però di altri appoggi, e un primo importante segnale gli
venne proprio da Rinaldo d’Este, che, nel luglio di quello stesso 1645, assunse la
carica di cardinal protettore di Francia, portando così a compimento lo strappo con
Madrid. L’investitura gli fu consegnata in dicembre dall’abate Arnauld, che aveva
fatto sosta a Modena, Parma e Firenze, per spingere quegli Stati in una nuova Lega
anti-spagnola. Anche Genova avrebbe fatto comodo, e proprio per l’accennato
rilievo strategico-viario dei suoi domini; ma la Repubblica rimaneva immobile nella
sua linea neutrale, confortata anche dalle cautele di Odoardo Farnese. Superata la
crisi di Castro, il duca di Parma non aveva interesse ad arrischiare nuove avventure,
tanto più che il fratello Francesco Maria aveva ottenuto la porpora nella prima
tornata di promozioni cardinalizie di Innocenzo X, nel 1644. Un gesto volto ad
appianare i recenti dissidi, e probabilmente incoraggiato proprio dalla freddezza di
Odoardo verso i progetti di Parigi; il che torna a favore dell’abilità politica di un
principe che la storiografia ha generalmente trattato con poco riguardo, forse per
via dell’aspetto pingue e bolso tramandatoci dai dipinti che lo hanno ritratto23. Al
duca di Parma non mancava una protervia in molti casi persino grottesca; ma non gli
facevano difetto neppure un certo fiuto politico e il coraggio. Nel ’35, aveva preso
molto sul serio l’alleanza di Rivoli, rendendosi protagonista di una clamorosa
offensiva contro i domini di Milano: un primo concreto “attentato italiano” alla pax
hispanica, che precedette di diversi anni la ben più celebrata azione del cognato
Francesco I d’Este. E, manovrando adesso tra Madrid e Roma, il duca di Parma
confermava le sue non disprezzabili doti di uomo politico. Erano, però, le sue ultime


23
G. HANLON, The Hero of Italy: Odoardo Farnese, Duke of Parma, his Soldiers, and his Sujects in
the Thirty Years’ War, Oxford University Press, 2014.
mosse, perché Odoardo Farnese morì nel ’46, seguito un anno dopo proprio dal
fratello cardinale.

L’appoggio italiano ai piani francesi era stato insomma scarso. Il coraggio del
cardinale Rinaldo d’Este non aveva smosso il timoroso fratello, e gli altri Stati della
Penisola erano rimasti alla finestra. E così, guidate peraltro da un generale
genovese, Giovanni Francesco Serra, nel ’46 le truppe spagnole riequilibrarono la
situazione militare nel nord Italia. Deciso ad accendere il fuoco altrove, Mazzarino
organizzò una spedizione nello Stato dei Presidi in Toscana, la cui importanza
strategica era già espressa nel nome24. I Presidi comprendevano una miriade di
piccoli centri tra l’isola d’Elba e l’Argentario; ed erano uno degli snodi viari del
sistema di poteri spagnolo, perché garantivano i collegamenti con Napoli. L’attacco
ai Presidi fu sferrato nel maggio 1646, e si trascinò tra alterne vicende; ma l’apertura
di quel nuovo fronte italiano fu abilmente sfruttata da Innocenzo X25. Il pontefice
sapeva che, mentre infuriava lo scontro tra Madrid e Parigi nella Penisola, una nuova
Lega italiana contro Roma era un’ipotesi assai remota. E, dopo aver stretto un infido
accordo di reciproca protezione con il nuovo duca di Parma Ranuccio Farnese, fece
occupare e distruggere il feudo di Castro, che sparì per sempre dalla cartina politica
della Penisola.

Il primo conflitto di Castro aveva fatto irruzione nello scenario genovese con
elementi di particolare criticità che avevano indotto l’oligarchia locale alla accennata
stretta sulle legazioni private. Il decreto del ’43 non le aveva abolite, ma le aveva
svuotate di effettivi poteri negoziali; il che sembrava indirizzare la piattaforma
genovese su un terreno quasi esclusivamente informativo. Ciò fu vero soltanto in


24
S. MARTINELLI, I Presìdi spagnoli di Toscana: un'intuizione strategica di Filippo II per la difesa del
Mediterraneo, in «Le carte e la Storia», 1/2006.
25
G. DEMARIA, La guerra di Castro e la spedizione de’ Presidii (1639-1649), in «Miscellanea di Storia
italiana», 4/1898, pp. 193-256.
parte, ed è ancora il carteggio estense a restituire una visione di queste evoluzioni.
Nel ’43, in contemporanea con l’intervento legislativo genovese, Francesco I d’Este
aveva bruscamente rotto con i Grimaldi de Castro. Ormai guadagnato a un
rovesciamento in senso filo-francese della propria politica estera, il duca di Modena
non aveva più bisogno di quella famiglia. Ma anche queste manovre si trovarono a
passare per Genova, dove Francesco I d’Este poteva contare su Giannettino
Giustiniani: forse il più fidato agente italiano di Mazzarino, e dal 1640
rappresentante diplomatico ufficioso di Parigi presso la Repubblica26. Giustiniani
s’attivò per facilitare l’ingresso di Modena nel campo francese27, coordinandosi con
ministri ed emissari estensi. Con alcuni, si trattò di una felice collaborazione, ed è
soprattutto il caso dell’abate Ercole Manzieri, molto attivo a Genova negli ultimi
anni Quaranta del secolo. Ma con il marchese Mario Calcagnini non mancarono gli
screzi. Imparentato con gli Este e molto ascoltato dal duca di Modena, Calcagnini
aveva un carattere fiero e spigoloso. Non tollerava concorrenti nel ruolo di
confidente del duca di Modena e, divenuto anch’egli filo-francese, sarà più volte
inviato a Parigi, dove stringerà contatti con diverse personalità francesi, riservando
alcuni sgarbi a Giannettino Giustiniani.

Per la sua militanza filo-francese, Giustiniani era guardato con un certo sospetto a
Genova, dove il partito filo-spagnolo rimaneva preponderante; e l’uomo era perciò
meno organico agli ambienti di potere della Repubblica, e ai suoi circuiti politico-
informativi. Tuttavia, anche i rapporti con Giustiniani ebbero un’inevitabile impronta
cortigianesca, tra scambi di favori, funzioni di procura, mediazione e supporto
logistico. Sulle prime, vi fu maggiore ricorrenza epistolare con il cardinale Rinaldo,
già guadagnato al partito francese, e attivamente partecipe – con un contingente
allestito e mantenuto a proprie spese – della spedizione militare nei Presidi. Del

26
B. MARINELLI, Un corrispondente genovese di Mazzarino: Giannettino Giustiniani, in «Quaderni di
Storia e Letteratura», Università di Genova, 2000.
27
ASMO, Archivio segreto estense, Cancelleria sezione estero, Corrispondenti Genova, 5.
resto, la svolta degli Este non poteva che assumere caratteri anche esteriori. E,
proprio su questo terreno, Giustiniani incontrò l’aspra concorrenza di Calcagnini,
tradizionale promotore del mecenatismo e del collezionismo estensi28. Nel maggio
1647, Giustiniani si prese carico della cura di alcuni colli spediti dalla Francia proprio
da un servitore del marchese Calcagnini. Non ne conosciamo il contenuto; ma
doveva trattarsi di oggetti di lusso, magari insieme a qualche più compromettente
documento. Giustiniani s’era attivato per evitare problemi doganali a Genova, anche
se doveva ammettere che i controlli erano «tanto fastidiosi e rigorosi che si
rende[va] impossibile di poter ottenere che non s’[aprissero]». Questa sua febbrile
attività di uomo di fiducia finì per restituirne gli affanni. Dopo aver disposto di
vigilare gli arrivi di navi dalla Provenza, nelle settimane precedenti lo sbarco dei colli
– giugno 1647 – Giustiniani aveva inoltrato a Modena notizie precipitose e
avventate. In un primo momento, aveva saputo che i colli erano stati bloccati a
Marsiglia, salvo poi correggersi pochi giorni dopo – quando ormai i colli stavano per
arrivare a Genova – sostenendo che invece non erano mai giunti nello scalo
francese. Queste goffaggini denunciavano l’isolamento di Giustiniani a Genova, e la
conseguente fragilità della sua azione: debolezze che si manifestarono anche
nell’opera di mediazione con il patriziato locale. Ancor prima della vicenda dei colli
francesi, nel febbraio 1647 Giustiniani aveva offerto a Francesco Maria Balbi
l’acquisto del feudo modenese di Formigine. Esponente di una casata nobiliare in
grande ascesa in quegli anni29, Francesco Maria Balbi era a caccia di un feudo con
annesso titolo nobiliare. Nella sua opera di persuasione, Giustiniani doveva essersi
speso a fondo, perché già nell’aprile successivo aveva comunicato a Modena il
prossimo arrivo di Balbi, che tuttavia non dovette trarre una buona impressione del
feudo di Formigine; tanto che la transazione non andò a buon fine.


28
Cfr. C. VICENTINI, Francesco I e Mario Calcagnini d'Este: scambi epistolari e spostamenti d'opere
fra Ferrara e Modena, in «Annali online dell’Università degli Studi di Ferrara», VII (2012/1), pp. 199-211.
29
Cfr. E. GRENDI, I Balbi. Una famiglia genovese fra Spagna e Impero, Torino, Einaudi, 1997.
Assai più efficace e rilevante fu il contributo sul versante informativo. Giustiniani
poteva attingere tanto dal network francese quanto dalla pignatta di vetro
genovese, ricorrendo anche allo spionaggio. Questa funzione di collettore di notizie
aveva una duplice finalità: da un lato, recava preziosi ragguagli al cardinale Rinaldo,
in prima linea nell’offensiva politico-militare francese; dall’altro, portava robusti
argomenti per convincere Francesco I d’Este della convenienza di un’alleanza con
Parigi. E, con lo zelo che gli veniva dalla sua granitica partigianeria per la Corona di
Francia, Giustiniani inondò di dispacci e missive le corti di Modena e del cardinal
Rinaldo d’Este a Roma. La delicata importanza di questo incarico gli fu chiara sin
dall’inizio. Già nel maggio 1647, Giustiniani aveva comunicato al cardinal Rinaldo
d’Este che il governatore di Milano s’era messo in marcia su Pavia; ma una flotta
spagnola destinata a portare soccorsi nel nord Italia era bloccata a Cadice, in attesa
di fronteggiare un’offensiva francese in Catalogna. Giustiniani doveva barcamenarsi
al meglio, senza operare una censura filo-francese tout court, perché ciò lo avrebbe
screditato agli occhi dei due d’Este, che disponevano di altri informatori: su tutti, il
temibile marchese Calcagnini. E così, soltanto un mese più tardi, uno sconcertato
Giustiniani annunciò al cardinale Rinaldo che un’armata navale francese s’era ritirata
dalle acque di Savona, dove aveva stazionato a lungo tenendovi inchiodato uno
stuolo spagnolo. Un fatto che, sempre a detta di Giustiniani, aveva sorpreso gli stessi
spagnoli, e c’era da crederci, anche se forse quella ritirata aveva avuto ragioni
d’ordine strategico; o magari era stata dettata dalla scarsità di rifornimenti. Ed è
dunque probabile che Giustiniani abbia enfatizzato la sorpresa degli spagnoli per
giustificare una mossa che non incoraggiava i partigiani della Corona francese.

Nei lunghi mesi delle trattative tra Parigi e Modena, la piattaforma negoziale
genovese svolse un ruolo che andava oltre la sponda politico-informativa di
Giannettino Giustiniani. Nella pignatta di vetro, Calcagnini poteva manovrare con
una personalità di decisiva importanza per il buon esito delle trattative con Parigi: il
cardinale Girolamo Grimaldi30. Questo porporato genovese, che non apparteneva
alla linea dei Grimaldi de Castro che avevano servito in precedenza il duca di
Modena, ma a quella dei Grimaldi Cavalleroni, aveva fatto carriera nell’entourage
dei Barberini; ed era stato inviato nunzio a Parigi nel 164131. Al suo ritorno, nel ‘43,
Grimaldi era stato nominato cardinale; e, prontamente attivato da Mazzarino,
accolse nella sua dimora genovese ministri ed emissari franco-sabaudi ed estensi,
riuscendo a portare a termine quelle complicate trattative.

Ottenuto il sostegno del duca di Modena, Mazzarino poteva adesso aprire un nuovo
fronte italiano nella parte meridionale dei domini spagnoli in Lombardia. Quest’altro
focolaio bellico prevedeva un blitz su Cremona, città promessa proprio a Francesco I
d’Este; ma l’attacco – tutt’altro che fulmineo – si ridusse a una serie di timidi e
sconclusionati movimenti che si chiusero nell’ottobre del ’47, con una piuttosto
ingloriosa ritirata. Giustiniani, che seguiva da Genova quelle evoluzioni, aveva
trovato un solo uomo – il patrizio genovese Bartolomeo Raggi – disposto a servire
Francesco I d’Este come «capitano di una compagnia di fanti». E, poco dopo il
fallimento dell’offensiva nel cremonese, scrisse una lunga lettera al cardinale
Rinaldo, che, assente il fratello, aveva preso la reggenza del Ducato di Modena. La
missiva conteneva notizie di prim’ordine, e quasi tutte negative. Dalla Spagna erano
giunti 1.600.000 pezzi da otto reali per gl’investitori genovesi. Un drenaggio di
denaro controbilanciato da un contestuale decreto di Filippo IV, che aveva
convertito i crediti della Corona spagnola in giuri: titoli del debito pubblico spagnolo.
Il provvedimento avrebbe portato nelle casse di Madrid almeno «sedeci milioni»; e,
se Giustiniani vaticinava il fallimento di molti banchieri genovesi, doveva tuttavia
aggiungere che la conversione dei crediti aveva escluso alcune tra le famiglie più
presenti nel giro dei prestiti spagnoli: gli Invrea, gli Spinola, i Centurione e i

30
F. CRUCITTI, Grimaldi Girolamo, in DBI, LIX.
31
H. BIAUDET, Les nonciatures apostoliques permanentes jusqu’en 1648, Helsinki, Suomalainen
tiedeakatemia, 1910, pp. 239, 269, 286.
Pallavicini. Mettendo al riparo quei banchieri, Madrid se n’era assicurata il sostegno
politico, perché quelle famiglie avevano influenza e peso a Genova. Anche la nomina
del marchese di Caracena a nuovo governatore di Milano era un avvertimento
diretto all’oligarchia genovese, perché l’uomo era un abile comandante militare che
si era distinto nelle Fiandre32, e il suo arrivo in Italia dimostrava che la Spagna era
decisa a difendere il Milanesado. Inoltre, per blandire del tutto ogni possibile umore
anti-spagnolo, Madrid aveva gettato un’offa appetitosa alla Repubblica, vendendole
il feudo di Pontremoli. Una mossa abile, perché consentì a Filippo IV di ottenere ben
200.000 pezzi da otto reali; ma anche piuttosto pericolosa, perché Pontremoli era
uno dei cardini del sistema viario della Lunigiana, un’area su cui insistevano proprio
tutti gli Stati della dorsale tosco-ligure: attraversata da numerosi transiti viari che,
dagli scali marittimi liguri dell’estremo Levante, portavano in val Padana. Per queste
ragioni, il possesso di Pontremoli era stato al centro di lunghe dispute tra la
Repubblica e le autorità spagnole. Milano ne deteneva il possesso sin dagli anni
Venti del Cinquecento33; ma, posta al confine con i territori della Repubblica,
Pontremoli sottostava alla diocesi di Sarzana, che faceva parte dei domini genovesi,
ed era governata da vescovi genovesi o liguri. E, fomentati dalle stesse autorità
spagnole a Milano, i pontremolesi avevano avanzato a più riprese la richiesta di
elevare una diocesi indipendente: tentativo sventato grazie alle manovre dei
porporati genovesi a Roma34. Pontremoli era stato dunque uno dei sotterranei pomi
di discordia tra Genova e Madrid, e la sua importanza logistica era emersa proprio
durante il primo conflitto di Castro. Nel marzo 1643, il genovese Francesco Maria
Pallavicini – ambasciatore informale del duca di Parma Odoardo Farnese – aveva
presentato al suo governo un’istanza per ottenere lo sbarco in Liguria di alcuni


32
G. SIGNOROTTO, Il marchese di Caracena al governo di Milano (1648-1656), in «Cheiron», 17-
18/1992.
33
P. BOLOGNA, La storia di Pontremoli, La Spezia, Tipografia Francesco Zappa, 1904.
34
ASG, Archivio segreto, 2812 e 2818; ASG, Archivio segreto, 2344 e 2347.
vascelli carichi di truppe arruolate dal principe parmense35. La replica aveva palesato
le ambiguità della pignatta di vetro genovese. Dopo aver rimproverato a Pallavicini
di conoscere le leggi della Repubblica, e dopo avergli rinfacciato di avere lui,
Pallavicini, «altre volte disapprovato la dimora dell’altri» negli approdi liguri, il
governo genovese aveva infine dato il suo placet36.

Con l’acquisto di Pontremoli nel ’47, la Repubblica aveva rafforzato il suo controllo
su quei territori di confine, aumentando il rilievo geo-politico dei suoi domini, e la
conseguente capacità negoziale della pignatta di vetro genovese, che poteva
ulteriormente mercanteggiare altre richieste di transito. La Repubblica poteva così
condizionare maggiormente gli eventi militari in Italia, e questo era un pericolo per
la Spagna, che, già nel 1650, toglierà Pontremoli allo Stato genovese per cederla al
Granducato di Toscana, nonostante le proteste della Repubblica, e un’offerta di altri
100.000 pezzi d’oro a fronte degli appena 625 sborsati da Firenze37. Una vicenda
beffarda, che richiama la natura complessa e ricca di diffidenze delle relazioni tra
Genova e Madrid. Ad ogni modo, passata Pontremoli alla Repubblica nel ’47, Parigi
poteva sperare di migliorare l’afflusso di truppe negli scenari bellici padani.
Sollecitato dal cardinale Rinaldo d’Este, Giannettino Giustiniani s’adoperò
immediatamente per la bisogna, chiedendo le necessarie licenze di transito. Nel
dicembre 1647, ottenne il permesso per uno sbarco a Lerici – da dove s’avviava
proprio la via per Pontremoli – di alcuni contingenti francesi. Come si vede, il
decreto del ’43 non era stato applicato alla lettera, perché in quella circostanza
Giustiniani svolse un’effettiva azione diplomatica ufficiale. Ma la pignatta di vetro
attendeva di conoscere gli esiti dell’offensiva francese, e il fallimento della prima
campagna nel cremonese doveva aver raggelato anche gli animi più vicini a Parigi.
Così, mentre Mazzarino preparava un nuovo attacco contro Cremona, le speranze

35
Archivio di Stato di Parma, Carteggio farnesiano estero, Genova, 241.
36
ASG, Archivio segreto, 1987.
37
ASG, Archivio segreto, 2718.
riposte nella pignatta di vetro genovese venivano meno. La situazione generale
iniziava a volgere in favore di Madrid: cosa che non doveva essere sfuggita
all’oligarchia genovese, che continuava a essere blandita e messa sull’avviso da
Filippo IV. Nel febbraio 1648, mentre transitavano ingenti rinforzi militari spagnoli
diretti a Napoli, Madrid provvide a dare soddisfazione ai finanzieri genovesi, facendo
giungere «una nave […] con il carico di 300.000 pezzi da 8 reali». Le ricadute di
queste manovre non tardarono a farsi sentire. Già in marzo, Giustiniani presentava
al suo governo le proteste del cardinal Rinaldo d’Este per i «mali trattamenti […]
usati alle truppe che venivano ad imbarcarsi e passare in Francia». Proteste vane. La
Repubblica aveva capito quale fosse la parte che conveniva appoggiare, e l’attivismo
di Giustiniani iniziava a mostrare una certa impotenza. In aprile, Giustiniani inoltrò
altre proteste per gli ostacoli al transito di truppe francesi frapposti dal commissario
genovese di Sarzana; e il doge gli aveva risposto che il governo aveva richiamato il
suo commissario. Ma c’era poco da confidare in quei provvedimenti, perché – come
scrisse Giustiniani – «la nostra forma di governo è d’una tal natura, che li particolari
quando hanno le redini del comando possono operare non poco a favore delle loro
passioni, senza soggiacere ad alcun castigo». E, con una postilla rivelatrice,
aggiungeva che la «Repubblica [aveva invece] conceduto a spagnoli il passo per 600
fanti».

Nell’estate 1648, prendeva avvio la seconda offensiva contro il Milanesado.
Mazzarino assegnò il comando delle truppe a Francesco I d’Este, sperando di
accenderne l’uzzolo guerriero. Ma questi esitava ancora, e aveva le sue buone
ragioni per farlo: le spallate contro i domini spagnoli non avevano provocato il crollo
sperato; e lo scoppio della rivolta della Fronda in Francia faceva registrare le
ripercussioni di quei fallimenti. Con tutto il suo attendismo, il duca di Modena s’era
insomma schierato nel momento meno opportuno. E, nella nuova offensiva contro
Cremona, s’impegnò con la consapevolezza d’essere una pedina di un gioco che
volgeva al peggio. L’attacco questa volta fu portato fino in fondo, Cremona fu posta
sotto assedio, e Francesco I d’Este fu raggiunto da una lettera di Giustiniani che si
congratulava per quell’avanzata. Ma il patrizio genovese aveva perso molta della sua
baldanza. Nel maggio precedente, a Genova era stato sventato un golpe tentato da
Giovanni Paolo Balbi38: un episodio che aveva incendiato il sentimento anti-francese
a Genova, rendendo ancor più remote le possibilità che la pignatta di vetro si
mostrasse favorevole ai piani di Mazzarino. Giustiniani cercò comunque di dare il
suo contributo, coordinando il passaggio per la Liguria di truppe arruolate da
Tommaso di Savoia e dalla Corona francese. Ben presto, però, Giustiniani si trovò a
edulcorare le notizie, tramutando i suoi dispacci in veri e propri esempi di
propaganda militare. Mentre riferiva che a Voltri, vicino Genova, erano sbarcate 9
galee spagnole con «non […] più di 1.200 in 1.300 huomini», poneva l’accento su 20
galee francesi che si muovevano verso Lerici, evitando però di enumerare i soldati
che vi erano stati imbarcati. Il problema era che, in quel 1648, si era ormai prossimi
agli accordi di pace per la conclusione della Guerra dei Trent’anni; e l’allentamento
della pressione militare francese si faceva sentire inevitabilmente anche nello
scenario del nord Italia, dove in poco tempo anche il secondo assedio di Cremona si
risolse in un fallimento.

Gl’insuccessi militari, l’indebolimento del potere di Mazzarino, la stasi delle
operazioni belliche costrinsero Francesco I d’Este a riavvicinarsi a Madrid. Non
poteva essere una riproposizione della vecchia alleanza: la Spagna diffidava del duca
di Modena, e questi era deciso a mantenere i legami faticosamente stretti con la
Corona francese; tanto che, nel 1655, riuscirà a combinare il matrimonio del figlio
Alfonso con una nipote di Mazzarino, Laura Martinozzi. Anche la Repubblica
continuerà ad animare la sua politica estera “clandestina”. Proprio nel 1648,
l’oligarchia genovese strinse un accordo con l’abate Manzieri – uno degli agenti

38
E. GRENDI, L’ascesa dei Balbi genovesi e la congiura di Gio. Paolo, in «Quaderni storici», 28/1993.
estensi presenti a Genova – per il transito di 3.000 fanti «in nome della maestà del
re di Francia»39. Una negoziazione che indica come la Repubblica fosse disposta ad
accettare ancora ambascerie; ma meno vistose, e non organiche al proprio sistema
di poteri. Manzieri, del resto, con il suo status di ecclesiastico, chiamava in causa la
Chiesa e lo Stato pontificio; il che poneva l’oligarchia genovese in una posizione di
maggiore protezione di fronte all’alleato spagnolo.


39
ASMO, Archivio segreto estense, Carteggio principi esteri, Genova, 1168.

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