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C’è un enigma verso cui converge gran parte del domandare filosofico, una
convinzione che ci accompagna come un’inquietudine posta al cuore della nostra
esistenza: chi sono io? Che senso ha l’indicazione di me stesso come ‘io’ – espressione
che interviene per lo più inconsapevolmente in ogni nostro pensare, parlare e agire?
Secondo alcuni l’io è un altro (Baudelaire), oppure è una finzione; certi pensatori
ritengono che l’io sia da semplicemente da distruggere in favore di Dio (S. Weil), altri
riconoscono l’io come ostaggio (Levinas); secondo altri ancora infine, l’io è una
sostanza fissa a cui non possiamo rinunciare (Cartesio). In questa selva di opinioni
contrastanti la nostra personale identità (la domanda della Sfinge, dell’antica
tragedia) sembra restare una sorta di silenziosa invocazione che tutto attraversa, anche
i nostri più alti pensieri, senza mai lasciarli tranquilli.
Forse l’io è semplicemente un baratro di luce a cui noi stessi, per la maggior parte
della nostra esistenza, non osiamo affacciarci temendo di sprofondare dentro la bocca
magmatica di un vulcano. Affidati a noi stessi senza mai averlo domandato, ci
ritroviamo spaesati ed esposti nel mondo, un corpo che si riconosce tra i corpi che
incontra.
Questo studio, che si inscrive nella grande tematica del corpo, percorre un breve
sentiero in quello che può essere detto l’immenso cantiere dell’identità personale. Un
sentiero che vorrebbe tematizzare alcune potenzialità di senso che emergono dal
nostro corpo, del corpo che siamo e che non cessiamo mai di diventare (parlare della
nostra identità corporea, infatti, non significa confondere il corpo che siamo con un
semplice organismo fisico). Si vedrà in che senso possiamo dire che noi,
propriamente, non cessiamo mai di incarnarci, e di riconoscerci nel corpo che siamo.
considera il ruolo degli altri nel corpo che siamo. La conclusione (L’evento dell’io come
incarnazione) riassumerà il cammino compiuto.
Una precisazione ancora sul modo di procedere. Questo studio farà spesso ricorso ad
esempi fenomenologici, non solo perché la fenomenologia è l’ambito di ricerca in cui più
o meno mi colloco, ma anche perché essi mantengono un sostanziale ancoraggio alla
vita che dovrebbe sempre rimanere l’unica maestra nel pensare.
«Gli spiriti sono qui dove sono i corpi, nello spazio e nel tempo naturali, ogni volta e
1
fintanto che i corpi sono corpi viventi» .
Secondo Schopenhauer se gli uomini fossero «teste d’angelo alate senza corpo» la
filosofia non avrebbe un punto d’appoggio che le permetta di oltrepassare il mondo
empirico delle rappresentazioni; essa non potrebbe lacerare il velo di Maya e trovare
il varco attraverso cui giungere all’essenza più profonda del reale. Il fatto che l’uomo
non sia un essere intelligente disincarnato, senza realtà corporea, costituisce quindi
un elemento fondamentale di autentica portata metafisica.
Per molto tempo nella nostra ‘terra del tramonto’ ha dominato la separazione tra il
corpo e l’anima che sembrò essere stata definitivamente fissata da un certo
1
E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften, XXII Beilage. J.-P. SARTRE dal canto
ricorda: «Il corpo è l’oggetto psichico per eccellenza, il solo oggetto psichico», L’être et le néant,
Gallimard, Paris 1943, p. 429.
2
«Corporeità, diversamente da corpo, intende superare la discussione classica del rapporto corpo
anima, per mettere in evidenza il carattere del corpo nella sua integrità umana […]. Mentre ‘corpo’
indica anzitutto lo stato dell’uomo bell’e fatto (a posteriori), ‘corporeità’ indica uno stato originario
– su cui solo trascendentalmente si può riflettere – dell’uomo uno e completo», J.-B. METZ, in:
Dizionario teologico, I, Queriniana, Brescia 1966, p. 236.
3
Basterebbe ricordare che M. Heidegger stesso, uno dei pensatori più importanti del secolo,
riconosceva nella riflessione filosofica sul corpo una delle difficoltà maggiori dell’intero pensiero, a
cui lui stesso non si è avvicinato che per sporadici ed inconclusi accenni.
3
Una tale conoscenza unitaria dell’uomo tuttavia non è scontata: facciamo sempre i
conti, infatti, con un linguaggio ed un immaginario difficili da superare e che forse è
impossibile abbandonare del tutto. L’unità e l’integrità dell’uomo rimangono una
sorta di scienza sempre ricercata (come Aristotele definiva la ‘filosofia prima’),
raggiunta soltanto attraverso risultati sempre parziali. Il superamento del dualismo
non coincide con l’abbandono di una intrinseca polarità denunciata dallo stesso
linguaggio a cui abitualmente ricorriamo (‘corpo spirituale’, ‘anima incarnata’: anche
in queste nozioni complesse rimane sempre il riferimento alla polarità dei termini). Si
tratta di comprendere tale tensione come una ‘distinzione’ tra aspetti diversi di una
stessa realtà (e ‘distinzione’ non significa né separazione né confusione). Il problema
cioè, non è quello di negare la struttura bipolare anima-corpo, quanto di
reinterpretarne simbolicamente il senso purificandola progressivamente da tutti i residui
metafisico-sostanzialistici che minano l’unità dell’uomo vivente (la ‘metafisica della
ragione disgiuntiva’ che fa del corpo l’oggetto o il semplice strumento di un’’anima’ o
di una ‘coscienza’). Occorre interpretare i due aspetti dell’unico essere vivente
(uomo) non più nel senso dell’opposizione ma dell’intima tensione che costantemente
4
Senza dimenticare tuttavia che il grande idealismo tedesco con Hegel aveva tentato di superare
l’opposizione considerando la corporeità come un momento dialettico dello Spirito e dell’Assoluto
(una manifestazione ad extra dell’Idea). Per l’ampiezza e la profondità delle loro considerazioni
occorre non dimenticare, inoltre, i rilevanti contribuiti sul corpo di A. Schopenhauer, L. Feuerbach e
F. Nietzsche (cf. in proposito, L. CASINI, “La riscoperta del corpo come ‘filo conduttore’ della
conoscenza dell’uomo”, in: Studium 3-4/2000, 451-471).
5
Per U. GALIMBERTI (Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 125), la nozione di ‘anima’
costituisce «un espediente metodologico ideato da Platone per fondare un linguaggio universale
che non dipendesse dalle oscillazioni di senso tipiche del linguaggio corporeo incapace di garantire
significati stabili». Solo l’anima infatti (Fedone 66b-67a) sembra garantire sapere e verità, poiché il
corpo (la follia del corpo, tês toû sómatos asphrosynes) è espressione del particolare e
dell’instabile, luogo delle passioni e sede della follia. Si instaura così l’idea dell’autosufficienza
dell’anima (in quanto pura interiorità) come fonte dell’antropologia occidentale che consente di
fondare l’individualità del soggetto ma lo costringe ad un dualismo senza uscita.
4
rinvia l’uno all’altro nella loro stessa comprensione e nel loro scambio simbolico di
sensi (syn-ballein).
«Il corpo è enigmatico, esso è parte del mondo, senza dubbio, ma stranamente
offerta, come suo proprio habitat, ad un desiderio assoluto di avvicinare l’altro e di
raggiungerlo anche nel suo corpo, animato e animante, figura naturale dello
6
spirito» .
6
M. MERLEAU-PONTY (1951), cit. da F. Fergnani, ‘Introduzione’ a Il corpo vissuto, Il Saggiatore,
Milano 1979, p. 24.
5
2. Emerge in tal modo anche il paradosso della soggettività nel suo rapporto con il
mondo. Il soggetto è nel mondo pur non essendo soltanto del mondo: infatti, egli è
coscienza del mondo pur appartendovi e facendone parte. Un tale fenomeno si può
tradurre nel concetto merleau-pontiano di ‘esser-ne’ (en-être)7. Il soggetto incarnato
‘ne è’ (nel mondo): non è un semplice ‘di fronte’ (al mondo), e neppure una semplice
cosa tra le cose inserita in esso, perché è colui in cui ‘ne va’ del mondo stesso, del suo
senso. Il nostro essere-nel-mondo non indica semplicemente lo spazio (o il sito) che
occupiamo, ma ancor più la situazione (l’essere-situati) che è la nostra8.
«Tra tutte le cose, la mia carne è la più vicina (das Nächste) per la percezione, la più vicina
10
al mio sentimento e alla mia volontà» .
Una prima osservazione è fondamentale. Io non posso mai separarmi dal mio corpo.
Qualunque cosa accada, tutto mi appare attraverso il corpo proprio, la mia carne. Il
7
Questa nozione vuole indicare la struttura fondamentale della nostra situazione (del nostro
essere situati) che non coincide mai con la semplice fattualità empirica del soggetto implicato in
uno spazio o in tempo, ed esclude ogni forma di coscienza disincarnata priva di spazio e di tempo.
Entra cioè in gioco quella che si può definire una vera e propria ‘topologia dell’essere’: l’essere – il
problema filosofico per eccellenza - non è più nulla di un concetto astratto e disincarnato, ma è
essenzialmente ‘incarnazione’, ‘carne del mondo’.
8
Cf. Rémi BRAGUE, Aristote et la question du monde. Essai sur le contexte cosmologique et
anthropologique de l’ontologie, PUF, Paris, p. 39ss.
9
«Nascendo, il corpo fa nascere», J.-L. CHRÉTIEN, La voix nue, Minuit, Paris 1990, p. 23.
10
E. HUSSERL, Hua XV, p. 567.
6
corpo vivente, cioè, è la sola possibilità di ogni fenomenalizzazione 11. Non ho mai «…la
possibilità di allontanarmi (entfernen, mettere via, da parte, cancellare) dalla mia
carne o di allontanare la mia carne da me stesso» 12. Il corpo proprio, assegnandomi a
se stesso, mi assegna a me stesso fissandomi – annota ancora il padre della
fenomenologia - «…al più originariamente mio (das ursprünglichst Meine)»13. Il
carattere di inseparabilità rende il corpo proprio la più interiore e paradossale delle
alterità a cui l’io è confrontato: anzi, è la mia ‘carne’, il mio corpo vissuto l’alterità
prima (la più intima e ‘vicina’, ricorda P. Ricœur14) che dona accesso ad ogni altra.
Almeno tre esempi, tre fenomeni, possono attestare l’inseparabilità dal mio corpo: la sofferenza
(fisica), il piacere e, infine, l’invecchiamento 15.
- La sofferenza anzitutto: appena soffro, io mi soffro. Non soffro per le cose esterne che
provocano la sofferenza (il fuoco, il bastone, ecc.), di cui io sono il luogo della manifestazione,
ma soffro perché fanno male a me: appena soffro, è in, attraverso e di me che io soffro. La
sofferenza non mi fa soltanto male: essa mi assegna a me stesso, in quanto carne. Tutta
l’acutezza della sofferenza risiede nell’impossibilità di una presa di distanza16.
- Il piacere. Già Pascal notava come il dolore risparmia alla ragione ogni vergogna, perché essa
può affrontarlo volontariamente o almeno volontariamente non sottrarvisi 17. Il dolore può
lasciare ancora spazio ad una volontà, e quindi ad un’attività: non sembra dunque andare fino
in fondo nell’esperienza della passività. E’ nel piacere, invece, che la passività si fà più
radicale. Il ‘diletto invincibile’ (Malebranche) del piacere costringe non soltanto il mio corpo
fisico, ma anche la mia volontà. Ecco perché la ‘servitù’ del piacere fa ‘vergognare’ la ragione;
perché la spoglia di ogni indipendenza verso la carne, riconducendola ad essa in modo
inesorabile.
- L’invecchiamento, infine. Il suo punto di forza concerne il fatto che esso mette in
gioco il principio stesso della nostra finitudine, la temporalità. Il tempo si manifesta
soprattutto là dove la carne viene alla superficie (esterna): il volto. Sul volto le tracce
del tempo devastano la carne viva. Il passare del tempo si manifesta in ciò che questo
sottrae, distrugge e devasta. Il tempo che passa si rivela affermandosi nella mia carne
che esso affetta e segna, inesorabilmente. Il tempo, quindi, ‘prende carne’ in me.
Gli esempi citati mostrano il fatto dell’inseparabilità del corpo. Tuttavia, tale
inseparabilità non significa affatto semplice confusione. Se così fosse, infatti, tra me e il
11
Affermare questo tuttavia non significa per nulla appiattire l’uomo ad una pura immanenza
autosufficiente e chiusa in se stessa, come sarà chiarito più avanti.
12
E. HUSSERL, Idee direttrici, II, § 21, p. 94 e § 41 p. 159.
13
E. HUSSERL, Hua XIV, p. 58.
14
Soi-même comme un autre, Cerf, Paris 1990; tr.it., Sé come altro, Jaka Book, Milano 1996.
15
Riprendo brevemente queste analisi da J.-L. MARION, “La prise de chair comme donation du soi”,
in: Archivio di Filosofia, 1-3 (1999), pp. 43-56.
16
«Elle est faite de l’impossibilité de fuir et de reculer», E. LEVINAS, Le temps et l’autre, Paris 1979
2, p. 55s.
17
Pensées, Br. § 160/L. § 795.
7
mio corpo fisico che invecchia, che prova piacere o che soffre, non avrei alcuna
possibilità di interrogarmi sul senso stesso di tali esperienze (o, più in generale, del
mio essere corporale) ed io sarei interamente appiattito sulla materialità del corpo-
oggetto. Occorre dunque riproporsi la domanda fondamentale: che cos’è il mio corpo?
che cosa dico quando affermo che io sono il mio corpo? Cercherò di preparare una risposta
in tre momenti: in primo luogo, evidenziando la natura paradossale del corpo che sono
(1); poi, riprendendo la distinzione husserliana tra corpo-oggetto e corpo-soggetto (2); e
infine, descrivendo il carattere di non-convertibilità del corpo (3).
18
In altri termini, M. MERLEAU-PONTY parla della trascendenza della visione verso ciò che vede,
paradosso per il quale voir, ce n’est pas voir (Le visible et l'invisible, Gallimard, Paris 1964, p. 238).
La coscienza cioè si constituisce intorno ad un punctum caecum: «Ciò che essa non vede, non lo
vede per ragioni di principio, non lo vede perché è coscienza. Ciò che essa non vede è ciò che
prepara la visione del resto (come la retina è cieca nel punto in cui si diffondono in essa le fibre
che permetteranno la visione). Ciò che essa non vede è ciò che fa sì che essa veda…», ib.
8
- 2. La distinzione tra Körper e Leib. Che cosa intendiamo dire quando affermiamo che
io sono il mio corpo? Per comprenderne il senso riprendo la celebre distinzione
husserliana tra Körper e Leib.
* Quello che il tedesco definisce ‘Körper’ può essere tradotto con corpo-oggetto (o corpo
oggettivo). E’ il corpo come dato naturalistico che ammette soltanto relazioni esteriori
o meccaniche: il corpo inteso come organismo che può essere studiato come un
oggetto dai fisiologi, dai medici, ecc. E’ il corpo ‘anatomico’, parcellizzabile.
* ‘Leib’ invece può essere tradotto con corpo-soggetto (o corpo-proprio, o ancora corpo
vissuto o corpo animato o anche fenomenico; è l’ambito semantico della ‘chair’ francese,
la ‘carne’) e costituisce quella realtà psicofisica avente la particolarità di essere vissuta
come ‘mia’. La mia ‘carne’ si distingue da ogni altro oggetto del mondo perché è
corpo toccante e non soltanto toccato; prima ancora di essere percepita essa percepisce;
prima ancora di farsi sentire essa fa sentire e mi permette di ‘sentirmi’ 19 (da questa
osservazione emerge il carattere ambiguo o meglio sim-bolico del corpo vissuto). Io,
dunque, sono certamente il mio corpo (soggetto, corpo proprio), ma sono molto di
più del corpo-oggetto.
La carne è corpo proprio in quanto centro della mia esistenza, potenza di agire e di
percepire, mezzo di inserzione del soggetto nel mondo 20. Essa costituisce un modo di
appartenenza o di appropriazione talmente intimo da rendere impossibile dissociare
il ‘possedente’ dal ‘posseduto’, e supera ogni possibile comprensione del corpo nei
termini dell’’avere’. Mentre il corpo-oggetto può essere appreso dall’esterno dal
fisiologo, il corpo-proprio, la carne è il mio punto di vista immediato sul mondo, un ‘qui’
assoluto (Merleau-Ponty) a partire dal quale non posso più assumere altri punti di
vista. La carne è cioè quell’origine radicale che articola il mio essere-nel-mondo come
19
Cf. E. HUSSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, V, § 44, Hua I, p. 128; tr.it.,
Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1960, p. 143ss. Si veda anche Die
Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, par. 28; La crisi
delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr.it., a cura di E. Filippini, Il Saggiatore,
Milano 1961, p. 137.
20
La distinzione filosofica tra corpo e carne non può non richiamare il binomio teologico
corpo-carne a cui vale la pena di accennare per evitare confusioni. I significati teologico-
biblici della ‘carne’ possono essere riassunti come segue:
- il corpo (qui savrx è usato come sinonimo di sw`ma) in opposizione allo spirito
(pneu`ma): in questo senso anche l’intelletto può essere ‘carnale’. Nelle epistole ai Galati
e ai Romani la ‘carne’ – chiusa nel suo egoismo - è considerata come antitesi dello spirito
(Rm. 8, 12-13;7, 25;Gal. 3,3; 5,13,16;5, 19).
- La natura umana considerata nella sua realtà ontologica, come nell’incarnazione del
Figlio di Dio (‘il Verbo si è fatto carne’).
- Nella Bibbia la ‘carne’ (basar) può designare una concezione unitaria dell’uomo, un unico
organismo psico-fisiologico designato talvolta come nephesh, talvolta come basar, talvolta come
ruah. La carne definisce in tal modo l’uomo nella sua concreta realtà. La Bibbia non riduce la carne
al ‘corpo’ (soma), considerato, con l’anima, uno dei due elementi del composto umano. «Il Dio
degli spiriti è quello di ogni carne» (Num. 16, 22; e 27, 16). La carne connota tuttavia una certa
fragilità dell’essere umano, più che la debolezza morale propriamente detta.
9
- 3. Il senso della non-convertibilità del corpo. Benché io sia il mio corpo, ciò non significa
che esso sia totalmente convertibile con me. La non-convertibilità si manifesta, per
esempio, nell’esperienza del pudore che nasce dall’unità senza separazioni e senza
21
Questa definizione si trova in Ideen II e merita una precisazione. Nel 1910/11 Husserl parlava
infatti di relativ Mittelpunkt; dal 1924 parla di Orientierungsmittelpunkt; e dopo il 1924 utilizzerà
l’espressione Urkoordinatensystem – si veda V. MELCHIORRE, Corpo e persona, p. 160ss.
22
Cf. U. GALIMBERTI, Il corpo, p. 174.
23
Si tratta di quel fenomeno che, da un punto di vista ontologico fondamentale, M. Heidegger
aveva riconosciuto nel Mitsein (Mitdasein, Miteinandersein, cf. Essere e Tempo, §§ 25-27).
10
confusioni (inconfuse et indivise) che costituisco con il mio corpo 24. E’ il pudore a
manifestare sia l’impossibilità di separare (e non di distinguere) un’anima dal suo
corpo, sia l’incongruenza di una semplice confusione. E’ perché io sono il mio corpo che
uno sguardo rivolto su di esso può turbarmi o farmi provare vergogna: vergogna di
me stesso e non di esso (corpo) come se si trattasse di altra cosa rispetto a me stesso.
Il corpo cioè manifesta il mio essere più profondo. E tuttavia, è anche perché il mio corpo
(fisico) non si confonde con me che questo turbamento è vergogna, perché questo
sguardo coglie qualcosa di me e lo assume come il mio essere totale che tuttavia non
si confonde mai con la semplice fisicità del corpo.
In questo capitolo mi limito ad evidenziare alcuni aspetti del corpo che siamo grazie
agli altri, sottolineando il ruolo dell’alterità nella costituzione dell’identità del
soggetto.
24
Le riflessioni di questo paragrafo sono in parte riprese da J.-L. CHRÉTIEN, La voix nue, o.c., p.
20s.
25
Si deve qui comprendere il ‘limite’ in senso greco originario, come ‘apertura’ e possibilità, e non
soltanto in senso negativo come ‘limitazione’. E’ una cattiva concezione del corpo (un ‘cattivo
finito’ per parafrasare, invertendola, la formula hegeliana) quella che ci spinge a considerarlo
come limite negativo e imprigionante, anziché come la nostra unica possibilità di aprirci (ad) un
mondo. Siamo apertura di un mondo in quanto esseri corporei.
11
impara poco alla volta a ‘vedere’ la sua amata, custodendone con riguardo e
devozione l’intimo segreto. In certi momenti particolarmente intensi si compie in lui
una sorta di sradicamento e di spaesamento rispetto all’abituale: l’amante credeva di
conoscere l’amata, ma all’improvviso subisce la prova della sua estraneità – come se
quel volto tante volte visto e contemplato, improvvisamente ridiventasse inedito, sor-
prendente, intangibile. Egli vive allora l’esperienza di una novità che lo affascina e lo
disorienta dove il volto dell’amata sembra insegnare al suo sguardo come guardare,
come ri-nascere a se stesso a partire dallo scambio degli sguardi donati-ricevuti 26.
Soltanto l’oggetto può essere visto, non l’altro uomo. Se l’altro uomo merita questo
titolo rimane necessariamente invisibile, irriducibile al mio ‘voler vedere’: questa
invisibilità è il luogo, ermeneuticamente fecondo, del rispetto e del pudore28. Quando
guardo l’altro negli occhi, fissandolo nella pupilla, mi accorgo di come essa manifesti
il netto rifiuto ad ogni oggettivazione29. Nel cuore stesso del visibile, la pupilla rivela
26
Il francese ha il verbo ‘regarder’ che dice insieme guardare ma anche custodire: non c’è sguardo
umano senza la profonda e rispettosa custodia di ciò che è guardato. ‘Garder’ viene dal germanico
occidentale wardôn –warten- che significa anche ‘attendere’, ‘curare’ (cf. O. BLOCH, Dict.étym. de
la lange française, t. I, PUF, Paris 1932).
27
Cf. J.-L. MARION, Prolégomènes à la charité. Ed. La Différence, Vesoul 1986, p.100ss.
28
Non raggiungo mai un’immediata conoscenza della coscienza che l’altro io ha di se stesso.
L’evidenza originaria dell’alter ego mi è sempre inaccessibile: ciò significa che l’alter ego è
irriducibile a me. ‘Irriducibilità’ nel senso che il mio ‘io’ non potrà mai ridurre l’altro io a un
momento del mio conoscere o del mio rappresentare.
29
La stessa impossibilità si sperimenta nel rapporto sessuale dove «i corpi, benché uniti, dimorano
separati» (R. MUSIL, L’uomo senza qualità). Anche là dove apparentemente più intimo è il contatto
fisico con l’altro, paradossalemente più altra si impone la sua alterità e differenza. L’altro non lo si
possiede propriamente mai: nel cuore dell’esperienza del suo corpo egli risulta impenetrabile ad
ogni volontà di possesso. Il corpo, nella sua gestualità e nella sua parola, diviene qui semplice
‘simbolo’ di un’alterità che l’io può (pres)sentire o intuire, mai possedere. Ammirabili in proposito
sono le descrizioni proustiane sulla gelosia scatenata nel Narratore da certe misteriose espressioni
del volto di Albertine: «Negli occhi di Albertine, nell’infiammarsi repentino del suo volto, io sentivo
come un lampo di calore sconfinare furtivamente in regioni per me più inaccessibili che il cielo, in
cui prosperavano i ricordi – a me sconosciuti – di Albertine […] Allora, sotto quel volto tinto di
porpora, io sentivo riservarsi come in un baratro l’inesauribile spazio delle sere in cui non avevo
conosciuto Albertine. Potevo persino prendere Albertine sulle mie ginocchia, tenere la sua testa tra
12
la presenza dell’invisibile: nel cuore del visibile non c’è nulla da vedere, null’altro che
un vuoto invisibile e inguardabile (invisable). «Lo sguardo (dell’altro) che sto
guardando, senza sottrarsi al mio sguardo, gli sottrae l’orizzonte stesso del visibile».
L’altro mi invita in tal modo a percorrere un altro modo e un altro senso del
guardare: non più possessivo, non più rivolto a me stesso, ma un guardare che è un
donare l’altro a se stesso, salvaguardandone l’alterità 30. Lo sguardo rivolto all’altro è
anzitutto un lasciarsi guardare da colui che è guardato. Lo sguardo autentico rivolto
all’altro non si riceve che donandosi. Rifiutando il carattere invisibile dell’altro, lo perdo
irrimediabilmente come colui che mi offre la possibilità di riconoscermi. Anche di fronte al
volto dell’amico più caro debbo riconoscere che non sono io ad sceglierlo, ma sono io
a scegliermi in lui: «io non decido di lui, ma di ciò che io sono» 31. L’esperienza più
intima e profonda dell’altro non lo consegna a me, ma mi consegna a lui32.
2. Il ruolo dell’altro nella presa di coscienza del corpo che sono. Qualcosa di analogo a
quanto è stato appena descritto accade anche nell’atto dell’abbracciare l’essere
amato33. Anche quando le nostre braccia circondano l’essere amato, non si possono
mai rinchiudere su di lui. Stringendolo a sé, non solo non catturano l’essere amato ma
non cessano di avvicinarlo. Nel momento stesso dell’intimità non possiedono ciò che
abbracciano, ma «aprono nuovi spazi per andare verso colui che non avranno mai
finito di avvicinare. Abbracciare non è rinchiudere (enclore), ma dischiudere (éclore,
lasciare schiudere)»34.
Lo sguardo e l’abbraccio amante ci offrono due immagini concrete del rapporto tra il
corpo proprio e l’alterità. Nell’abbraccio che offriamo il corpo dell’altro ci rinvia
all’impossibilità di trattenerlo nelle nostre mani: è, cioè, il suo corpo ad insegnarci il
modo del nostro esser corpo. L’esperienza concreta e amante dell’altro sottopone la
nostra stessa intenzione (intenzionalità) ad un’essenziale ‘conversione’
le mie mani […] io sentivo che toccavo il rivestimento esteriore chiuso di un essere che nel suo
interno accedeva all’infinito», La prisonnière, Pléiade, Gallimard, Paris 1988, III, p. 386; cf. ib., p.
578.
30
Si pensi allo sguardo che Gesù rivolge a Pietro nel momento del suo rinnegamento: non si tratta
né di un rimprovero né di una consolazione, ma di uno sguardo che dona più di qualsiasi dono, il
perdono che chiama l’altro ad essere se stesso (J.-L. CHRÉTIEN, La voix nue, p. 216). Lo stesso
dono di sé non è un dono che nel caso in cui sia anzitutto dono dell’altro all’altro, «don où l’autre
se reçoit lui-même» (ib., p. 220). «Aimer, c’est d’abord offrir à l’autre cet espace où il peut devenir
ce que d’abord il n’est pas – lui-même» (ib., p. 222).
31
J.-L. CHRÉTIEN, o.c., p. 210.
32
In termini fenomenologici si parla in proposito di depotenziamento dell’intenzionalità costitutiva
dell’altro, processo per il quale «la coscienza perde il primo posto […]. Si tratta della messa in
questione della coscienza e non [soltanto] di una coscienza della messa in questione», E. LEVINAS,
En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, 3ed., Paris 1974, p. 195.
33
Già Feuerbach notava come circondando con le nostre braccia l’essere amato, sappiamo bene
come non sia «il suo strumento o il suo fenomeno ma l’essere stesso (das Wesen selbst) che noi
abbracciamo», L. FEUERBACH, Wider den Dualismus von Leib und Seele, Fleisch und Geist, in:
Werke, éd. Suhrkamp, Frankfurt-am-Main 1975, t. IV, p. 184.
34
J.-L. CHRÉTIEN, o.c., p. 13.
13
35
Se questo non accade il rapporto si autodistrugge o si perverte in una logica di reciproca
violenza e sopraffazione di cui sono testimoni tanti esempi della letteratura e dell’arte recente (si
pensi soltanto, tra i tanti, al celeberrimo Ultimo tango a Parigi di B.Bertolucci).
36
Il corpo che siamo dovrebbe anche insegnare a evitare facili salti in uno spiritualismo
disincarnato che è negazione dell’esperienza evangelica di Dio. Sottrarci al libero dovere della
nostra incarnazione significa rifiutare la stessa manifestazione di Dio in Gesù Cristo. Un esempio
può essere offerto dalla preghiera di Gesù. Si può notare come nel Vangelo, tutte le volte che Gesù
prega, non compie questo gesto per isolarsi in una dimensione alternativa o estranea al vivere
quotidiano, ma piuttosto per realizzare di più e meglio la sua incarnazione nella storia del suo
tempo. L’uomo in cui Dio ha manifestato la pienezza della sua Presenza prega per evitare la
tentazione ‘maggiore’: quella di sottrarsi al libero dovere della sua incarnazione (in Giovanni la
‘carne’ stessa di Gesù è segno luminoso della Gloria di Dio). Per Gesù la carne non è un luogo di
passaggio: essa non è un momento abbandonato poi nel suo eterno ritorno al Padre. In caso
contrario, non si comprenderebbe perché il Risorto mantenga le sue ferite e le mostri agli increduli
apostoli. Le cicatrici e le ferite del corpo glorificato del Cristo non costituiscono una imperfezione…
Per un credente il paradosso della carne si estende fino a raggiungere l’infinito e l’eternità di Dio.
E’ Dio stesso ad insegnarci ad incarnarci concretamente nella nostra storia, e non a spiritualizzarci
ambiguamente…
14
«Il nostro corpo non manifesta e non si manifesta che affidandoci il suo segreto –
segreto che non ci è dato da vedere, ma da essere»37.
1. In tutto ciò che si è detto è questione del fatto originario della carne (Urfaktum) in cui
da sempre siamo ‘presi’: autoaffezione pura che stabilisce una comunicazione «più
vecchia di ogni pensiero»38 e di ogni logos. Ed è in questo senso che la nostra
appartenenza alla carne è originaria perché viene prima di ogni riflessione: ci sor-
prende, perché ne siamo ‘presi’ ben prima di ogni intenzione. La carne risulta essere
in tal modo il fondamento ‘incarnato’ di ogni riflettere e di ogni agire – e dunque di
ogni spiritualizzazione.
2. Ogni ‘mio’, ogni ‘proprio’, in quanto incarnato, è già sempre attraversato (alterato)
dall’alterità ben prima di ogni coscienza riflessa che posso averne. In questo senso,
l’‘io’ arriva sempre troppo tardi: ‘io’ sono già da sempre ‘in debito’ della mia identità nei
confronti degli altri. Il corpo proprio testimonia ‘carnalmente’ che l’appartenenza a me
stesso è inscindibilmente legata alla riconoscenza della presenza dell’altro. L’identità
incarnata non è mai senza l’altro. E’ il corpo che siamo ad impedire a ogni pensiero
dell’altro di tradursi in una speculazione astratta o in una rappresentazione speculare
dell’io. Non si dà conoscenza autentica dell’altro che non passi attraverso l’esperienza
incarnata di me stesso, essenzialmente esposto agli altri in ciò che sono di più
proprio, la mia carne. Conosco l’altro nella prova inevitabile della carne, nella con-tingenza
della mia incarnazione.
*****
Non è forse sorprendente che sia proprio la ‘carne’ a inscrivere la nostra umanità nella
dimensione originaria che ci depotenzia da ogni potere sull’altro perché già da
sempre ci ha ek-posti, facendoci uscire da ogni ego cogito troppo sicuro di se stesso?
Non è forse singolare che sia proprio la carne a ricordarci che apparteniamo a noi
stessi nella misura della nostra appartenenza agli altri? Mi riconosco perché l’altro mi
ha riconosciuto, mi vedo perché l’altro mi ha guardato, imparo ad ascoltarmi perché
un altro mi ha ascoltato: la conoscenza di me stesso è inseparabile dalla riconoscenza
dell’altro. Tale reciprocità del dono incarnato di sè non cessa di produrre effetti e si
realizza in un circolo virtuoso di appartenenza corporea da cui soltanto prende inizio
e sempre riviene ogni umanizzazione e, dunque, ogni spiritualità dell’uomo. Non è
fuori luogo, allora, concludere lasciando la parola ad uno dei più grandi teologi
cristiani di tutti i tempi, che quasi due millenni fa affermava con forza una lezione
troppo presto e troppo a lungo dimenticata: caro salutis cardo41. «E’ nella carne, con la
carne, attraverso la carne che l’anima medita tutto ciò che medita il suo cuore» 42.
INDICE
41
TERTULLIANO (160?-225?), De resurr. mort. VIII, 2: «la carne è il cardine della salvezza».
42
Ib., XV, 3.
16
BIBLIOGRAFIA
CICCHESE Gennaro, I percorsi dell’altro. Antropologia e storia, Città Nuova, Roma 1999.
FRANCK Didier, Chair et corps. Sur la phénoménologie de Husserl, Éd. de Minuit, Paris
1981.
GALIMBERTI Umberto, Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano
1999.
GAMBAZZI Paolo, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
MARION Jean-Luc, “La prise de chair comme donation du soi”, in: Archivio di filosofia, 1-3
(1999), ‘Incarnazione’, 43-56.
REICHLER Claude (dir.), Le corps et ses fictions, Éd. de Minuit, Paris 1983.
RICHIR Marc, Le corps. Essai sul l’intériorité, Hatier ‘Optiques’, Paris 1993.
«Le corps est l’un des noms de l’âme, et non pas le plus indecent», M.
ARLAND, Où le cœur se partage.
«Mon corps n’est pas seulement un objet parmi tous les autres objets, un
complexe de qualités sensibles parmi d’autres, il est un objet sensible à
tous les autres, qui resonne pour tous les sons, vibre pour toutes les
couleurs, et qui fournit aux mots leur signification primordiale par la
manière dont il les accueille».
M.MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, II partie, ‘Le monde
perçu’, I.
«…ce n’est pas l’esprit qui est dans le corps, c’est l’esprit qui contient le
corps, et qui l’enveloppe tout entier».
P. CLAUDEL, Le souliers de satin, première journée, scène 6.
Anima-> razionalità
Spirito- senso, fine
19
Sul CORPO
43
G. MARCEL (Etre et savoir, Aubier, Paris 1933, p. 12), annota come «de ce corps je ne puis dire ni
qu’il est moi ni qu’il n’est pas moi». Esso costituisce «la zona di frontiera tra l’essere e l’avere»
(ib., 119).
44
U. GALIMBERTI, Il corpo, p. 67ss. Potremmo anche ricordare in proposito la celebre affermazione
dello Zarathustra nietzscheano (Also sprach Zarathustra, I, 4), per il quale: «C’è più ragione nel tuo
corpo che nella tua migliore sapienza».
45
ib., p. 68.
20
Sull’ALTER EGO
46
Una testimonianza letteraria di prim’ordine ci è offerta da F. KAFKA (lettera a Milena del
12.6.1920, Pléiade, t. IV, p. 926s.). «Ciò che mi accade è qualcosa di terribile (Ungeheuerliches,
immenso, gigantesco): il mio mondo sprofonda e il mio mondo si edifica… Della sua caduta non mi
lamento: io mi lamento della sua edificazione, mi lamento delle mie fragili forze. E’ di nascere: è
della luce del sole che mi lamento».
21
esemplare dello stesso tipo di cui anch’io sono un esemplare. Lo percepisco cioè come un soggetto
come me. Per il pensiero fenomenologico l’altro quindi non è mai dato come me stesso (token). Si
cf. in particolare E. STEIN, Il problema dell’empatia
53
Come già ho osservato, forse nessun’altra esperienza umana come quella sessuale, nello
scambio ludico e simbolico tra corpi, può manifestare l’intensa intimità della relazione che si
instaura tra la corporeità e l’alterità. Si può in proposito riprendere una riflessione di M. PROUST
(Sodoma e Gomorra, Gallimard 1980, p. 470). Nella Recherche il Narratore constata il carattere
irrimediabilmente ‘fuggitivo’, imprendibile e straniero dell’amatissima Albertine – malgrado tutti i
reiterati tentativi di ridurla allo stato di ‘prigioniera’ del suo amore e della sua volontà di
possederla. Disilluso e dolorosamente cosciente dell’assoluta inefficacia di ogni ‘gelosia’,
considerando come l’amata rimanga presente e assente allo stesso tempo, nel corso di una cena a
Rivebelle annota amaro: «Je sentis, qu’on peut être près de la personne qu’on aime et cependant
ne pas l’avoir avec soi». Perfino il compimento del desiderio sessuale appare al Narratore anche, in
un certo senso, come la sua sconfitta. Colei che si voleva possedere rivela tutta la sua
imprendibile fuggevolezza, segno forse di una fantasmatica esistenza che abitava soltanto il
morboso immaginario di un amante geloso. Non si esce che con difficoltà e non senza traumi dal
bisogno narcisista di costringere l’altro ad un’esistenza fissata dalla nostra delirante volontà di
possedere.
54
Scrive in proposito U. GALIMBERTI (Il corpo, p. 119): «…l’altro non lo incontro come un oggetto
nella mia prospettiva sul mondo, ma come colui che infrange questa prospettiva, come colui la
lacera, la spezza, fino a farle smarrire quella sicurezza che possedeva nella sua solitudine».
55
E’ a questo livello che si erge il comandamento supremo: ‘non ucciderai’, cioè non impedirai mai
all’altro di essere altro, diverso da te – perché questa e questa soltanto è la strada della tua
umanizzazione. Questa soltanto è il cammino autentico per pervenire alla tua vera identità.
23
Sull”ANIMA
56
Già s. Tommaso sembra avere sostenuto che nell’anima separata, nonostante la dichiarata
immortalità, viene meno il carattere di persona (cf. G. SIEWERTH, Der Mensch und sein Leib,
Einsiedeln 1953, p. 11ss.; J.-B. METZ, in: Dizionario teologico I, Queriniana, Brescia 1966, p. 331-
339).
24
Che cosa dunque resta della grande tematica dell’anima come centro e
cuore dell’identità personale? Il costante mio provenire, l’incessante
essere affidato a me stesso, evento che costituisce il principio incessante
di ogni desostantificazione dell’‘io’. ‘Anima’ diventa in tal modo sinonimo
della costante possibilità di ricevermi aprendomi ad un mondo (gli altri):
essa può essere dunque considerata come sinonimo di quel principio di
apertura, quella luce che ciascuno di noi è sul mondo, luogo originario
dell’essere come relazione, legame d’origine: principio dunque e non più
cosa o sostanza. Inizio sempre iniziante. Nel mio ‘più mio’, per essenza
non mi appartengo in quanto sono costantemente ricevuto. O meglio, mi
appartengo al modo del costante essere-donato. Che cosa può dire questo
sul senso stesso dell’essere?
Il più grande equi-voco dell’anima (da aequ-us, uguale, simile e vox, voce,
vocabolo, da cui anche voc-are, chiamare: ‘ciò che può intendersi e
interpretarsi in più modi’) è dunque questo: che da principio simbolico,
relazionale originario, sorgente inesauribile del mio essere affidato a me
stesso, paradosso della improprietà radicale del mio ricevermi, può essere
trasformato e fissato in una sostanza, oggettificato in una ‘cosa’ di cui
potrei disporre come di una proprietà (il fondamento stesso di ogni esser-
proprio chiuso nell’autoreferenzialità). L’anima, il cuore più intimo e
personale dell’io corporeo e incarnato, risiede tutta in questa originaria
indisponibile sor-presa attraverso la quale sono donato a me stesso. In
quanto sorgente non-sostanziale essa non precede affatto ciò essa stessa
genera, ma scompare nell’istante stesso di questo generare57.
57
Si confrontino in proposito le profonde osservazioni di P.-J. LABARRIERE sulla ‘sorgente’ (L’utopie
logique, p. 105-118).
25
Che cosa è il corpo? Che cosa significa e cosa implica il mio essere
corporeo?
Chi è l’altro? Come posso accedere ad una conoscenza autentica del suo
essere?
Sono domande che possono bene articolare il senso dell’unica domanda di
fondo della mia esistenza: chi sono io? Come arrivo a determinarmi e a
conoscermi come ‘io’ tra altri ‘io’? Che senso ha l’indicazione di me stesso
come ‘io’, espressione che faccio sempre intervenire, implicitamente o
esplicitamente in ogni discorso, pensiero e azione?
Forse l’’io’ è un baratro di luce a cui noi stessi, per la maggior parte della
nostra esistenza, non osiamo affacciarci per paura di cadere in esso come
dentro la bocca magmatica di un vulcano. Per alcuni l’io non esiste o è un
altro, per altri è un ostaggio, per altri ancora è una sostanza fissa a cui non
possiamo rinunciare.
La nostra personale identità rimane forse la sola, vera, enigmatica
domanda che attraversa ogni nostra riflessione. Vale per noi ciò che
Agostino diceva del tempo: quando non me lo domando ‘so’ che cos’è, ma
quando me lo domando esplicitamente tutte le certezze scompaiono nel
rincorrersi forsennato dei pensieri…58 Affidati a noi stessi senza mai averlo
domandato, ci ritroviamo spaesati e intensamente vulnerabili, corpo
perduto tra i corpi.
1.Introduzione generale.
La circolarità ermeneutica del rapporto corporeità-
alterità.
L’oblìo del corpo.
interrompe e spezza ciò che fino a poco prima era così intensamente
unificato, armonioso. Improvvisamente, il legame tra quella raggiante
bellezza e la sua intima identità si è fatto incerto e vago, indefinito: fino ad
ergersi come un muro di confine tra la bellezza che mi aveva conquistato
poco prima e la profonda estraneità, ora divenuta manifesta, di chi la
‘abita’. Il suo volto così sovrano mi rinvia ora ad un’altra presenza, che non
avevo scorto fino a quel momento e che non coincide più con l’apparenza
che mi è stata offerta (come se ciò che appare possa certo esprimere il più
profondo, ma questo rimane sempre intensamente fuggevole ed effimero,
quasi evanescente). Non c’è più identità tra lo spettacolo esteriore e ciò
che intimamente avverto della sua interiorità. La sua bellezza permane ma
come svuotata dall’interno: è ormai perduta l’armonia nascosta che la
rendeva raggiante.
Ho potuto constatare nella fuggevolezza di un istante che l’immagine del
corpo che mi era offerta di lei non coincideva con la sua verità profonda.
-1. Una prima serie di osservazioni verte sulla comprensione del ‘corpo’
che siamo. Il fatto che io sono il mio corpo non è convertibile con me. Io
sono il mio corpo (vivente) ma il mio corpo (fisico) non coincide con me
stesso (nell’esempio che ho appena proposto, il corpo fisico è coinciso per
un momento con l’integralità della persona, il corpo vivente). Come
possiamo intendere queste due nozioni?
Mentre la filosofia classica oppone il corpo all’anima (o allo spirito), la
fenomenologia distingue tra Körper e Leib. Quello che il tedesco definisce
‘Körper’ può essere tradotto con corpo-oggetto (o corpo oggettivo). E’ il
corpo che tra le sue parti, o tra se stesso e gli altri oggetti, ammette
soltanto relazioni esteriori o meccaniche. Si tratta del corpo studiato dai
fisiologi, dai medici, ecc. ‘Leib’ invece può essere tradotto con corpo-
soggetto (o corpo-proprio, o ancora corpo vissuto o corpo animato o anche
fenomenico; è l’ambito semantico della ‘chair’ francese, la ‘carne’67) e
67
La distinzione filosofica tra corpo e carne non può non richiamare il binomio teologico
corpo-carne a cui vale la pena di accennare per evitare confusioni. I significati teologico-
biblici della ‘carne’ possono essere riassunti come segue:
- il corpo (qui savrx è usato come sinonimo di sw`ma) in opposizione allo spirito
(pneu`ma): in questo senso anche l’intelletto può essere ‘carnale’. Nelle epistole ai Galati
e ai Romani la ‘carne’ – chiusa nel suo egoismo - è considerata come antitesi dello spirito
(Rm. 8, 12-13;7, 25;Gal. 3,3; 5,13,16;5, 19).
- La natura umana considerata nella sua realtà ontologica, come nell’incarnazione del
Figlio di Dio (‘il Verbo si è fatto carne’).
- Nella Bibbia la ‘carne’ (basar) può designare una concezione unitaria dell’uomo, un unico
organismo psico-fisiologico designato talvolta come nephesh, talvolta come basar, talvolta come
ruah. La carne definisce in tal modo l’uomo nella sua concreta realtà. La Bibbia non riduce la carne
al ‘corpo’ (soma), considerato, con l’anima, uno dei due elementi del composto umano. «Il Dio
degli spiriti è quello di ogni carne» (Num. 16, 22; e 27, 16). La carne connota tuttavia una certa
32
Il Leib può anche essere inteso come corpo proprio in quanto designa il
‘mio’ corpo, come centro della mia esistenza, potenza di agire e di
percepire, mezzo di inserzione del soggetto nel mondo. Si deve pensare ad
un modo di appartenenza o di appropriazione talmente intimo che rende
impossibile dissociare il ‘possedente’ dal ‘posseduto’, e supera ogni
possibile comprensione del corpo nei termini dell’’avere’. In opposizione al
corpo-oggetto, che può essere appreso dall’esterno dal fisiologo, il corpo-
proprio è il mio punto di vista immediato sul mondo, un ‘qui’ assoluto a
partire dal quale non posso più assumere altri punti di vista: il ‘qui’ (ici
absolu, Merleau-Ponty). Origine radicale la ‘carne’ (corpo animato)
definisce in un certo senso la mia finitezza e articola il mio essere-nel-
mondo in quanto costitutivamente incarnato: il Leib è il ‘punto zero’
(Nullpunkt70) di riferimento che è sempre qui dove sono io, e in rapporto al
quale ogni cosa è là. Si tratta della condizione in cui la totalità del visibile
converge e in cui riceve un senso; la carne tuttavia è anche il termine della
stessa visione, come il riferimento che non può riferirsi a se stesso o che
non può avere se stesso ad oggetto (o almeno, può diventare oggetto ma
solo e sempre in parte: una parte è vista, mentre un’altra vede, una parte
è toccata mentre un’altra tocca). La carne così intesa è ciò a partire da cui
un mondo si dispiega, quel centro o quell’ancoraggio (ancrage) della mia
soggettività che determina la mia situazione in un punto dello spazio e in
un momento del tempo: il corpo animato costituisce dunque ciò a partire
da cui io attualizzo i miei possibili progettandomi verso il mondo. Il Leib è
punto di ribaltamento e di incontro (Umschlagspunkt) di interno ed esterno
Ciò che è essenziale nel problema del corpo è l’esperienza vissuta di esso
che rende scorretta ogni comprensione del corpo nei termini dell’avere (io
ho il corpo o lo possiedo): il corpo infatti è la possibilità stessa che io sono
di camminare, di correre, di danzare, di afferrare oggetti, di aggrapparmi
ad un sostegno per non cadere, insomma di trascendermi verso i miei
‘possibili’ (obiettivi e scopi). Il corpo-soggetto è in tal modo insieme datità
(fatticità) e trascendimento.
‘Fatticità’, per la contingenza che esso per così dire documenta e denuncia
in carne ed ossa.
‘Trascendimento’, perché esso è il nostro modo di far presa sul mondo, di
agirvi in vista di fini, essendo il punto di vista assoluto (non nel senso del
sapere ma per il fatto che su di esso non posso prendere altri punti di vista
perché è ciò che io sono)71.
71
«Il corpo emerge in tutta la sua ambivalenza, in quanto rivelativo da un lato della ‘fatticità’
(Faktizität) dell’umana presenza, della contingenza della sua situazione, dall’altro, come
condizione imprescindibile per essere-nel-mondo, diventa espressione dell’umana ‘possibilità’
(Möglichkeit) esistenziale», U. GALIMBERTI, Il corpo, p. 174.
72
E’ in particolare con Cartesio che si impone il regime della ‘rappresentazione’ del corpo. Con il
filosofo francese, infatti, il corpo (e il mondo) non sono più visti (sottoposti alla visione delle Idee,
Platone), ma sono rappresentati, cioè inclusi e contenuti nell’anima che li rappresenta. «L’anima
diventa l’orizzonte al cui interno si costituiscono le rappresentazioni del corpo e del mondo che,
essendo noti in quanto rappresentati dall’anima, sono da essa inclusi». In tal modo, si passa da
una concezione dell’anima nel corpo e del corpo nel mondo, all’inclusione del corpo e del mondo
nell’anima secondo le modalità delle rappresentazioni che questa produce (U. GALIMBERTI, Psiche
e Techne, p. 127s.). Questo passaggio è decisivo perché attua la comprensione del corpo come
somma di parti senza interiorità, da cui nascerà la medicina moderna, pensabile soltanto tramite
la previa riduzione del corpo ad ‘organismo’, ‘corpo cosa’ (Körperding, Husserl): tutti gli aspetti
qualitativi si trasformano in quantitativi attraverso la loro misurabilità.
73
L’espressione ‘corpo animato’, oltre che profondamente biblica, può essere riferita ancora a M.
MERLEAU-PONTY (Fenomenologia della percezione, Parte II, incipit): «il proprio corpo è nel mondo
come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo
alimenta internamente, forma con esso un sisema».
34
Infatti, quand’è che nasce la vergogna? Nel caso in cui una manifestazione
particolare, imperfetta e provvisoria, venga assunta come l’evidenza
dell’essere stesso nel suo insieme (quando un particolare è per così dire
generalizzato all’insieme). La vergogna non potrebbe prodursi se io fossi
separato dal mio corpo, perché lo sguardo non raggiungerebbe nulla di
mio. E neppure potrebbe prodursi in me (vergogna) se io fossi confuso con
il mio corpo, perché in questo caso non potrei mai distinguermi da una mia
manifestazione. Il mio corpo mi espone sempre senza tuttavia mai
consegnarmi totalmente. «Non cessa mai di rendermi visibile»80 ma tale
visibilità non mi espone mai totalmente. Non c’è mai un’ultima parola, non
c’è mai un ultimo gesto a cui non si aggiunga ancora un altro gesto e
un’altra parola. La manifestazione del corpo e nel corpo ha cioè la sua
storicità. Da questa frattura nasce la storia. Il corpo in quanto storia e
nella storia. Il corpo che siamo dice ad un tempo l’impossibilità del mito di
una trasparenza totale di/a noi stessi e degli/agli altri. Ma tale impossibilità
è appunto quel limite positivo a cui già ho fatto cenno: esso è infatti il
luogo originario di ogni senso, la possibilità stessa di qualcosa come un
senso. Se tutto fosse immediatamente evidente infatti, che cosa
resterebbe ancora da vedere o da pensare?
rendendolo straniero nella sua stessa terra abituale, alieno alle sue
consolidate abitudini. E’ questo l’istante in cui egli ritrova l’amata non più
a partire da se stesso (dal suo io), ma a partire dall’altro stesso. E ritrova
se stesso altrimenti in questo incrociarsi di prospettive. L’amante vive in
questo caso l’esperienza di un vero e proprio sradicamento dal suo io
abituale: egli credeva di conoscere l’amata, ma all’improvviso subisce la
severa prova della sua estraneità – come se quel volto tante volte visto,
osservato ed amato, improvvisamente ridiventasse straniero, nuovo,
inedito. Come se quello sguardo così caro e conosciuto rivendicasse
pudicamente la sua alterità, la sua im-proprietà. Questa nuova visione
diviene per il cuore dell’amante un appello segreto e ardente a darsi
altrimenti all’amata. A rinascere a partire da quel volto intensamente
amato e fragilmente perduto. Egli riconosce allora che il suo guardare il
volto dell’amata non ha fine (e non ha alcun ‘fine’ in sé, poiché l’amore è
fine a se stesso, sovrano nella sua gratuità) perché non termina mai con
una ‘presa’ o con un possesso. E’ grazie ad esperienze come questa che si
comprende come la verità più profonda dei nostri sguardi è di essere
(ri)guardati, custoditi (gardés) attraverso lo sguardo donato. Più guarda,
più riceve lo sguardo donato: più scopre che non ha nulla da trattenere o
da difendere. Ciò che credeva di conoscere, rimane immensamente
segreto all’’abitudine’ dei nostri pretesi ‘saperi’. Il volto dell’amata insegna
allo sguardo amante come guardarlo, come ri-nascere a partire
dall’incrocio e dello scambio degli sguardi.
L’altro deve rimanere invisibile al mio sguardo perché se lo potessi vedere
interamente sarebbe di colpo squalificato come ‘altro’ 82. Quando Orfeo
vuole vedere Euridice, la trasforma in oggetto e dunque la squalifica come
‘amata’. Orfeo non ammette l’invisibile e in tal modo la fa scomparire.
Gesù, nel racconto di Emmaus, non scompare forse ai nostri occhi proprio
quando noi avendolo riconosciuto vorremmo ormai fissarlo al nostro
sguardo? Rifiutando il carattere ‘invisibile’ dell’altro, siamo destinati a non
vederlo più come colui che ci offre la possibilità di riconoscerci. Soltanto
l’oggetto deve essere visto, non l’altro uomo. Se l’altro uomo merita
questo titolo necessariamente rimane invisibile, irriducibile al mio ‘voler
vedere’. J.-M. Marion offre in proposito un esempio molto significativo.
Quando io guardo l’altro negli occhi, fissandolo nella pupilla, mi accorgo di
come questa si manifesti come un rifiuto netto ad ogni oggettivazione, la
negazione di ogni riduzione all’oggetto. La pupilla mostra in tal modo, nel
possedere i suoi gesti, ritagliati e separati dal mondo (del senso) a cui essenzialmente
appartengono e in cui soltanto significano l’umano e lo comunicano nella relazione. Nel guardare
del pornografo è assente ogni cura ed ogni custodire – in questo senso il suo sguardo non guarda
più ma (si) sfigura: il pornografo non guarda più, ma si sfigura nell’immagine che pretende
avidamente di carpire perché vi ha sottratto ogni traccia di alterità (l’immagine diviene pura
proiezione di se stesso). Egli crede di ridurre l’altro a cosa, mentre in realtà è la sua stessa umanità
che si cosifica e si autodistrugge impedendosi l’incontro con la realtà. Credendo di ridurre l’altro ad
oggetto del suo privato piacere, in realtà è lui stesso a ridurre l’immensa potenzialità del suo
‘desiderare’ alla fissazione di un istante o di un particolare. Di fatto, dunque, non è più lui a
desiderare, non più lui il soggetto dell’atto di desiderare, ma è lui stesso a divenire l’oggetto
inconsapevole di un impulso che desidera solo se stesso (coazione a ripetere).
82
Cf. J.-L. MARION, Prolégomènes à la charité. Ed. La Différence, Vesoul 1986, p.100ss.
38
cuore stesso del visibile, la presenza dell’invisibile: nel cuore del visibile
non c’è nulla da vedere, null’altro che un vuoto invisibile e inguardabile
(invisible et invisable). «Il centro degli occhi guardati non sfugge perché
incapace di sostenere il mio sguardo. Anche se questo volto non si volge
altrove, nella sua immobilità pietrificata, esso si libera, nelle sue stesse
pupille alla visibilità di qualunque obiettivo. Lo sguardo (dell’altro) che sto
guardando, senza sottrarsi al mio sguardo, gli sottrae l’orizzonte stesso del
visibile». L’altro in qualche modo mi convoca a percorrere un altro modo e
un altro senso del guardare: non più possessivo, non più rivolto a me
stesso, ai miei interessi o bisogni immediati, ma un guardare che è un
donare l’altro a se stesso, salvaguardandone l’alterità83. Lo sguardo rivolto
all’altro è anzitutto un lasciarsi guardare da colui che è guardato. Guardare
fino in fondo gli occhi dell’altro, esporsi al suo visibile, significa perdersi nel
suo invisibile.
Cosa possiamo dunque dire a partire dagli esempi che abbiamo proposto
alla nostra riflessione?
Anzitutto, si sa che nel caso degli oggetti si è soliti parlare di una distanza,
oggettiva o oggettivante, che è in realtà una presa di distanza, che
permette la loro conoscenza scientifica, in vista del loro possesso o della
loro manipolazione tecnica (quella che Heidegger chiamerebbe la loro
‘aggressione’). Tutt’altra è la modalità conoscitiva che si attua
nell’esperienza interpersonale dell’altro (uomo). Qui certamente la
distanza rimane insuperabile e necessaria ma, non soltanto non è più
confondibile con alcuna ‘presa di’ distanza, ma essa si configura come
luogo ermeneuticamente fecondo del rispetto e del pudore (Verhaltenheit).
Solo la distanza rispettosa e accolta può offrire una certa conoscenza
dell’altro. In questo caso, ‘distanza’ significa messa in atto del rispetto e
90
Un esempio può essere offerto dalla preghiera di Gesù. Si può notare come nel Vangelo, tutte le
volte che Gesù prega, non compie questo gesto per isolarsi in una dimensione alternativa ed
estranea al vivere quotidiano, ma piuttosto per realizzare di più e meglio la sua incarnazione nel
mondo e nella storia del suo tempo. L’uomo in cui Dio ha manifestato la pienezza della sua
Presenza prega per evitare la tentazione ‘maggiore’: quella di sottrarsi al libero dovere della sua
incarnazione. Senza dimenticare che in Giovanni la ‘carne’ stessa di Gesù è segno luminoso della
Gloria di Dio. Per Gesù la carne non è un luogo di passaggio: essa non è un momento abbandonato
poi nel suo eterno ritorno al Padre. In caso contrario, non si comprenderebbe perché il Risorto
mantenga e mostri le sue ferite agli increduli apostoli (e mangia con loro). Le cicatrici e le ferite
del corpo glorificato del Cristo non costituiscono affatto una imperfezione… Per un credente il
paradosso della carne si estende fino a raggiungere l’infinito e l’eternità di Dio. E’ Dio stesso ad
insegnarci ad incarnarci concretamente nella nostra storia, e non a spiritualizzarci
ambiguamente…
91
Cf. Entretiens sur la mort. II. Oeuvres complètes, t. XIII, Paris 1976, p. 410s.
41
del pudore che, affidando l’altro alla sua alterità, ne veicolano al contempo
la verità che gli appartiene. Guardare l’altro significa sempre esporsi alla
possibilità dell’essere guardati: è sempre possibile cioè quel
rovesciamento della prospettiva che non ci vede mai detentori del centro
dell’osservazione o della riflessione, ma costantemente esposti e
spodestati dai nostri egolatrici privilegi.
93
J.-L. CHRÉTIEN, o.c., p. 23.
43
Sul CORPO
94
G. MARCEL (Etre et savoir, Aubier, Paris 1933, p. 12), annota come «de ce corps je ne puis dire ni
qu’il est moi ni qu’il n’est pas moi». Esso costituisce «la zona di frontiera tra l’essere e l’avere»
(ib., 119).
95
In altri termini, M.MERLEAU-PONTY parla della trascendenza della visione verso ciò che vede,
paradosso per il quale voir, ce n’est pas voir (Il visibile e l’invisibile, o.c., p. 238). La coscienza cioè
si constituisce intorno ad un punctum caecum: «Ciò che essa non vede, non lo vede per ragioni di
principio, non lo vede perché è coscienza. Ciò che essa non vede è ciò che prepara la visione del
resto (come la retina è cieca nel punto in cui si diffondono in essa le fibre che permetteranno la
visione). Ciò che essa non vede è ciò che fa sì che essa veda…», ib.
44
-Io non posso mai separarmi dal corpo. Qualunque cosa mi accada, tutto
non potrà apparirmi che attraverso il corpo proprio, la mia carne. Il corpo
vivente cioè è la sola possibilità di ogni fenomenalizzazione. Husserl scrive
che non ho mai «…la possibilità di allontanarmi (entfernen, mettere via, da
parte, cancellare) dalla mia carne o di allontanare la mia carne da me
stesso»98. Il corpo proprio, assegnandomi a se stesso, mi assegna a me
stesso fissandomi – annota ancora il padre della fenomenologia - «…al più
originariamente mio (das ursprünglichst Meine)»99. «Tra tutte le cose, la
mia carne è la più vicina (das Nächste) per la percezione, la più vicina al
mio sentimento e alla mia volontà»100. J.-L. Marion, nello studio già citato,
elenca tre argomenti fondamentali che depongono a favore della
inseparabilità dal mio corp
96
U. GALIMBERTI, Il corpo, p. 67ss. Potremmo anche ricordare in proposito la celebre affermazione
dello Zarathustra nietzscheano (Also sprach Zarathustra, I, 4), per il quale: «C’è più ragione nel tuo
corpo che nella tua migliore sapienza».
97
ib., p. 68.
98
Idee direttrici, II, § 21, p. 94 e § 41 p. 159.
99
Hua XIV, p. 58.
100
Hua XV, p. 567.
45
101
Si cf. no le pp. 49ss. dello studio citato.
La sofferenza: appena soffro, io mi soffro. Non soffro per le cose esterne (la fiamma, la spada,
ecc.), di cui io sono il luogo della manifestazione, ma soffro perché fanno male a me: appena
soffro, è in, attraverso e di me che io soffro. La sofferenza non mi fa soltanto male: essa mi
assegna a me stesso, in quanto carne. Tutta l’acutezza della sofferenza fisica (già Levinas lo aveva
notato, Le temps et l’autre, Paris 1979 2, p. 55s.) risiede nell’impossibilità di ogni presa di
distanza: «Elle est faite de l’impossibilité de fuir et de reculer».
Il piacere. Il dolore, notava già Pascal (Pensée, Br. § 160/L. § 795), risparmia alla ragione ogni
vergogna, perché essa può affrontarlo volontariamente o almeno volontariamente non sottrarvisi.
Il dolore cioè lascia ancora spazio ad una volontà, e quindi ad un’attività: non va dunque fino in
fondo nell’esperienza della passività. Nel piacere invece questo accade. Il diletto invincibile
(Malebranche) del piacere costringe non soltanto il mio corpo fisico, ma anche la mia volontà. Ecco
perché la ‘servitù’ del piacere fa ‘vergognare’ la ragione; perché la spoglia di ogni indipendenza
verso la carne, riconducendovela senza resti. La carne e la passività estrema si manifestano
dunque nel piacere.
L’invecchiamento. La sua forza consiste nel fatto che esso mette in gioco il principio stesso della
nostra finitezza, la temporalità. Il tempo si manifesta soprattutto là dove la carne viene alla
superficie (esterna): il volto. Le tracce del tempo devastano la carne viva. Il passare del tempo si
manifesta in ciò che esso sottrae, distrugge e devasta. Il tempo che passa non si manifesta che
affermandosi nella mia carne che esso affetta e segna inesorabilmente. Il tempo ‘prende carne’ in
me.
46
Sull’ALTER EGO
L’alter ego è un ego come me: egli può quindi conoscersi come anch’io mi
conosco104. E tuttavia, poiché è altro, io non posso conoscerlo così come
egli stesso si conosce, nell’evidenza assoluta del suo cogito. Da questa
constatazione si può trarre la prima importante affermazione che può
essere posta: non raggiungo mai una perfetta coscienza della coscienza
che l’altro io ha di se stesso. L’evidenza originaria dell’alter ego mi è
103
Una testimonianza letteraria di prim’ordine ci è offerta da F. KAFKA (lettera a Milena del
12.6.1920, Pléiade, t. IV, p. 926s.). «Ciò che mi accade è qualcosa di terribile (Ungeheuerliches,
immenso, gigantesco): il mio mondo sprofonda e il mio mondo si edifica… Della sua caduta non mi
lamento: io mi lamento della sua edificazione, mi lamento delle mie fragili forze. E’ di nascere: è
della luce del sole che mi lamento».
104
Malgrado le critiche di E. Levinas per il quale fare dell’altro un alter ego significa rifiutarne
l’infinita alterità, nella linea delle ricerche husserliane preferiamo mantenere il termine di ‘alter
ego’ parlando dell’altro uomo, ritenendo in questo modo di non porre alcun atto totalitario
intenzionale di assimilazione dell’altro al Medesimo. Infatti, l’alterità dell’altro, in virtù del suo
stesso senso, esige una certa fenomenalità che permette la riconoscenza della sua alterità e fonda
la possibilità di un discorso che la tematizzi. L’alterità dell’altro riposa sul fatto che anch’egli è un
ego come me, ed è proprio su di esso che si fonda la sua alterità. L’aporia fondamentale del
discorso levinasiano (quello che è posto almeno in Totalità e Infinito) è stata messa in luce da J.
DERRIDA (“Violence et métaphysique”, in: L’écriture et la différence, Paris 1967) che sottolinea
come attraverso la determinazione di ‘altri’ come infinitamente altro Levinas si privi del suo stesso
discorso.
48
Cercando di ‘dare corpo’ a questi concetti astratti, si pensi soltanto per es.
al corpo dell’altro. Nel rapporto sessuale, là dove apparentemente più
intima è l’esperienza fisica dell’altro, paradossalemente più altra si impone
la sua alterità e differenza. L’altro non lo si possiede propriamente mai: nel
cuore dell’esperienza del suo corpo egli risulta impenetrabile ad ogni
volontà di possesso. Il corpo, nella sua gestualità e nella sua parola,
diviene qui semplice ‘simbolo’ di un’alterità che l’io può (pres)sentire o
intuire, ma mai penetrare o possedere. Sempre l’esperienza intima fisico-
sessuale dell’altro rimanda ad altro che se stessa.
105
«Ogni tentativo di proiettarci nell’altro non ci fa mia uscire da noi stessi: per quanto si
possa trasmigrare in un altro corpo, in un’altra anima, in un altro punto di vista, alla fine
proprio per rispetto della radicale alterità dell’altro anche lo sforzo più fantasioso e
generoso non potrà apparire che una stazione del nostro interno. Questo sentimento
dell’assoluta trascendenza dell’altro deve, alla fine di qualsiasi tentativo di
approssimazione, poter essere conservato insieme a qualche tremore e paura per la
differenza che ci separa. Esattamente di fronte al rischio di costruire un’immagine
demonizzata e mostruosa dell’altro, sta il rischio opposto, quello di un’approssimazione
così compiuta da cancellare nell’identità le differenze, da rendere il prossimo identico», F.
CASSANO, Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, Bologna 1989, p. 7s.
106
Ammirabili in proposito sono le descrizioni proustiane sulla gelosia scatenata nel Narratore da
certe misteriose espressioni del volto di Albertine: «Dans les yeux d’Albertine, dans la brusque
inflammation de son teint, je sentais comme un éclair de chaleur passer furtivement dans des
régions plus inaccessibles pour moi que le ciel, et où èvoluaient les souvenir, à moi inconnus,
d’Albertine […]. Alors, sous ce visage rosissant, je sentais se réserver comme un gouffre
l’inexhaustible espace des soirs où je n’avais pas connu Albertine. Je pouvais bien prendre
Albertine sur mes genoux, tenir sa tête dans mes mains […] je sentais que je touchais l’enveloppe
close d’un être qui par l’intérieur accédait à l’infini», La prisonnière, éd. Tadié, Pléiade, Gallimard,
Paris 1988, III tomo, p. 386; cf. anche ib., p. 578.
107
Meditazioni cartesiane § 50.
49
L’altro io, infatti, oppone alla volontà di afferramento del mio io uno
statuto del tutto particolare. ‘Analogicamente’ estremamente vicino a me
(essendo anch’egli come me corpo tra corpi – e si sa come nel rapporto
amoroso tale prossimità possa esperimentarsi come unione profonda,
anche fisica), l’altro io tuttavia non si lascia mai ri-assumere nella piatta
identità del mio io, apparendo nettamente distinto (inassimilabile a me e
di-verso-diversus= volto altrove, verso un’altra parte) e offrendosi solo in
una invalicabile distanza situata nel cuore della nostra più intima
prossimità114. Nessun ‘oggetto’, nessuna ‘cosa’ di questo mondo mi
potrebbe apparire più prossimo e insieme più lontano. L’altro uomo
afferma perentoriamente un altro ‘io’ che non si lascia inglobare in alcuna
interiorità. L’altro io non significa mai – in nessun momento, anche nelle
esperienze di comunione più intime e profonde - una parte del (mio)
mondo, ma esprime originariamente un altro mondo rispetto al mio. L’altro
io costituisce in tal modo il rifiuto radicale e originario opposto ad ogni
chiusura del (mio) cerchio di conoscenze, di volontà e di rappresentazioni.
Egli è l’irriducibile per eccellenza115. Ed è forse proprio tale costitutiva
irriducibilità a scatenare nell’’identico’ (cioè, nelle sempre insorgenti
volontà di potenza di un io ipertrofico) la volontà di sopprimere e di negare
definitivamente la sua esistenza, l’esistenza del diverso, del differente, di
colui che potenzialmente ed effettivamente mette in questione l’identità
autoreferenziale dell’io116.
II. Se tuttavia, l’io non avrà mai un’intuizione immediata dell’altro io,
abbiamo anche già riconosciuto con Heidegger che sarebbe senz’altro
astratto iniziare dalla solitudine teorica del soggetto117. ‘Astratto’ perché la
condizione ontologica fondamentale in cui sono originariamente situato
non è certamente la solitudine a partire dalla quale, eventualmente,
114
Come già ho osservato, forse nessun’altra esperienza umana come quella sessuale, nello
scambio ludico e simbolico tra corpi, può manifestare l’intensa intimità della relazione che si
instaura tra la corporeità e l’alterità. Si può in proposito riprendere una riflessione di M. PROUST
(Sodoma e Gomorra, Gallimard 1980, p. 470). Nella Recherche il Narratore constata il carattere
irrimediabilmente ‘fuggitivo’, imprendibile e straniero dell’amatissima Albertine – malgrado tutti i
reiterati tentativi di ridurla allo stato di ‘prigioniera’ del suo amore e della sua volontà di
possederla. Disilluso e dolorosamente cosciente dell’assoluta inefficacia di ogni ‘gelosia’,
considerando come l’amata rimanga presente e assente allo stesso tempo, nel corso di una cena a
Rivebelle annota amaro: «Je sentis, qu’on peut être près de la personne qu’on aime et cependant
ne pas l’avoir avec soi». Perfino il compimento del desiderio sessuale appare al Narratore anche, in
un certo senso, come la sua sconfitta. Colei che si voleva possedere rivela tutta la sua
imprendibile fuggevolezza, segno forse di una fantasmatica esistenza che abitava soltanto il
morboso immaginario di un amante geloso. Non si esce che con difficoltà e non senza traumi dal
bisogno narcisista di costringere l’altro ad un’esistenza fissata dalla nostra delirante volontà di
possedere.
115
Scrive in proposito U. GALIMBERTI (Il corpo, p. 119): «…l’altro non lo incontro come un oggetto
nella mia prospettiva sul mondo, ma come colui che infrange questa prospettiva, come colui la
lacera, la spezza, fino a farle smarrire quella sicurezza che possedeva nella sua solitudine».
116
E’ a questo livello che si erge il comandamento supremo: ‘non ucciderai’, cioè non impedirai
mai all’altro di essere altro, diverso da te – perché questa e questa soltanto è la strada della tua
umanizzazione. Questa soltanto è il cammino autentico per pervenire alla tua vera identità.
117
Cf. F. GROS, Autrui, p. 6ss.
51
partirei alla ricerca (o alla conquista) degli altri. L’’io sono’ non conduce
un’esistenza separata; non è un’isola ontologica perfetta, autonoma e
sufficiente. L’io è già sempre, ripeterà Sartre, un «io sono con l’altro, sotto
il suo sguardo». «Attraverso l’io penso, contrariamente alla filosofia di
Descartes, contrariamente alla filosofia di Kant, noi raggiungiamo noi
stessi davanti all’altro, e l’altro è altrettanto certo per noi che noi stessi».
L’uomo che si raggiunge attraverso il cogito scopre insieme anche tutti gli
altri: è essenziale però notare che li scopre come la condizione stessa
della sua esistenza. Egli si rende conto che non può essere nulla (nel senso
in cui si dice, per es., che si è spirituali, cattivi o gelosi) se gli altri non lo
riconoscono come tale. Io mi riconosco perché l’altro mi ha riconosciuto 118.
Per ottenere una qualunque verità su di me, è necessario che io passi –
implicitamente o esplicitamente - attraverso gli altri. L’altro è
indispensabile (non in quanto cosa, ma in quanto persona, nella sua
essenziale libertà) alla mia esistenza, così come alla conoscenza che ho di
me. E’ in questo modo che Sartre mostra come la situazione originaria
dell’io non è la posizione di un io solitario, ma una sua immediata
articolazione con l’alterità, con gli altri io. Cogliermi, comprendermi,
significa cioè sempre e da sempre al tempo stesso sapermi colto e
compreso dall’altro.
118
Si può pensare al racconto biblico della creazione di Adamo ed Eva in Gen. 2. L’uomo (il
maschio) assume una conoscenza di se stesso soltanto a partire dall’incontro con Eva (la donna).
Senza di essa, Adamo non sa ‘dirsi’, cioè non ha ancora alcun rapporto con se stesso. E’
interessante constatare in proposito che l’uomo parla per la prima volta nella Bibbia soltanto
quando Eva gli è posta davanti, come compagna, ‘aiuto che gli sia simile’. E’ allora che la sua
bocca si sciogli in un canto.
119
Scrive per esempio G. DELEUZE in “Michel Tournier et le monde sans autrui” (in Logique du
sens, Éditions de Minuit, 1969, p. 355): «La partie de l’objet que je ne vois pas, je la pose en même
temps come visible pour autrui; si bien que, lorsque j’aurai fait le tour pour atteindre à cette partie
cachée, j’aurai rejoint autrui derrière l’objet pour en faire une totalisation prévisible. Et les objets
derrière mon dos, je les sens qui bouclent et forment un monde, précisément parce que visibles et
vus par autrui. Et cette profondeur pour moi, d’après laquelle les objets empiètent ou mordent les
uns sur les autres, je la vis aussi comme étant une largeur possible pour autrui, largeur où ils
s’alignent et se pacifient (du point de vue d’une autre profondeur). Bref, autrui assure les marges
et les transitions dans le monde».
52
Sull”ANIMA
120
Già s. Tommaso sembra avere sostenuto che nell’anima separata, nonostante la dichiarata
immortalità, viene meno il carattere di persona (cf. G. SIEWERTH, Der Mensch und sein Leib,
Einsiedeln 1953, p. 11ss.; J.-B. METZ, in: Dizionario teologico I, Queriniana, Brescia 1966, p. 331-
339).
53
Che cosa dunque resta della grande tematica dell’anima come centro e
cuore dell’identità personale? Il costante mio provenire, l’incessante
essere affidato a me stesso, evento che costituisce il principio incessante
di ogni desostantificazione dell’‘io’. ‘Anima’ diventa in tal modo sinonimo
della costante possibilità di ricevermi aprendomi ad un mondo (gli altri):
essa può essere dunque considerata come sinonimo di quel principio di
apertura, quella luce che ciascuno di noi è sul mondo, luogo originario
dell’essere come relazione, legame d’origine: principio dunque e non più
cosa o sostanza. Inizio sempre iniziante. Nel mio ‘più mio’, per essenza
non mi appartengo in quanto sono costantemente ricevuto. O meglio, mi
appartengo al modo del costante essere-donato. Che cosa può dire questo
sul senso stesso dell’essere?
Il più grande equi-voco dell’anima (da aequ-us, uguale, simile e vox, voce,
vocabolo, da cui anche voc-are, chiamare: ‘ciò che può intendersi e
interpretarsi in più modi’) è dunque questo: che da principio simbolico,
relazionale originario, sorgente inesauribile del mio essere affidato a me
stesso, paradosso della improprietà radicale del mio ricevermi, può essere
trasformato e fissato in una sostanza, oggettificato in una ‘cosa’ di cui
potrei disporre come di una proprietà (il fondamento stesso di ogni esser-
proprio chiuso nell’autoreferenzialità). L’anima, il cuore più intimo e
personale dell’io corporeo e incarnato, risiede tutta in questa originaria
indisponibile sor-presa attraverso la quale sono donato a me stesso. In
quanto sorgente non-sostanziale essa non precede affatto ciò essa stessa
genera, ma scompare nell’istante stesso di questo generare121.
121
Si confrontino in proposito le profonde osservazioni di P.-J. LABARRIERE sulla ‘sorgente’
(L’utopie logique, p. 105-118).
122
U. GALIMBERTI, Il corpo, p. 88.
54
4. Si potrebbe allora pensare che la definizione più vicina alla verità dell’io
sia quella che pone maggiormente l’accento sul suo essere incarnato: ego
caro factum est, dunque, a patto di intendere in questo ‘farsi carne’ non
una libera decisione del soggetto ma quell’evento (Urfaktum), sempre
precedente ad ogni affermazione dell’io, che decide della sua stessa
possibilità di essere libero e di essere ciò che è. Ed è in questa prospettiva
soltanto, dell’uscita da sé dell’io (ek-posizione), che si dà la possibilità di
una conoscenza autentica dell’altro uomo.
127
Già per la nostra migliore tradizione aristotelico-tomista la sostanza «è un ‘principio’ di
sostanzialità e non si identifica con l’ente particolare e sussistente» (cf. D. SACCHI, “Sostanza,
essenza, soggetto”, in: Annuario di Filosofia 2000, ‘Corpo e anima’, p. 347)
128
Il senso stesso dei concetti astratti di trascendenza (e di immanenza) è profondamente
‘ancorato’ nella nostra carne e nelle esperienze primordiali dell’alto e del basso (cf. G. DURAND,
Les structures anthropologiques de l’imaginaire. Introduction à l’archétypologie générale, 1960).
129
In proposito, occorre ricordare che l’ego dell’ego percipio di Merleau-Ponty, a differenza dell’ego
cogito cartesiano, non può fingere di essere un puro spirito: egli è necessariamente un ‘soggetto
incarnato’. Il mio corpo è il mio punto di vista sul mondo caratterizzato da un movimento perpetuo
(a differenza di Sartre per il quale il corpo è la fatticità di una libertà assoluta).
56
131
Phénoménologie de la perception, p. 294.
57
*****
90
80
70
60
50 Est
40 Ovest
30 Nord
20
10
0
1° Trim. 2° Trim. 3° Trim. 4° Trim.
*****
Quanto detto fin qui ci aiuta a comprendere il senso della formulazione che
propongo come titolo (e come tematica) di questo secondo capitolo della
mia relazione. E’, infatti, in quanto inquietante e paradossale estraneità
interiore che il corpo ci costituisce nel più intimo del nostro essere.
Cercherò dunque di chiarire il senso che attribuisco a tale definizione.
-‘
134
Come Husserl è solito affermare nelle Ideen II, Bd IV, p. 159. Cf. D. FRANCK (Chair et corps, p.
99) che parla in proposito di ‘aporia fondamentale’.
61
divenire ciò che sono – nel senso, per dirla ancora con Merleau-Ponty, che
il corpo è ‘sia ciò che sente che ciò che si sente’135.
-Nel primo capitolo già abbiamo proposto alcune osservazioni sul carattere
di ‘origine’ del corpo vissuto. Data l’importanza del tema può essere utile
riprenderlo e approfondirlo in relazione a quello della trascendenza. E’ fin
troppo noto come, tradizionalmente, in filosofia (e non soltanto) il corpo
sia stato identificato come sede della più piatta (materialistica)
immanenza. Dal punto di vista dell’analisi fenomenologica tuttavia,
paradossalmente è proprio il corpo vissuto ad essere riconosciuto come
origine di tutte le trascendenze, un’origine che «esprime un logos più
profondo di tutti i rapporti logico-oggettivi che un cogito astratto può
dispiegare»137. Senza il corpo infatti io non posso apparire all’altro e l’altro
non può apparire a me. Il carattere originario del corpo deve essere
compreso a partire dal suo essere originariamente fuori di sé (ciò che
rende la mia identità una esposizione originaria all’alterità): il corpo è
allora apertura (originaria) a/di ogni ‘esteriorità’. Tale origine, tuttavia, è
situata nel cuore stesso della più radicale ‘immanenza’ (e già si vede come
la semplice opposizione immanenza-trascendenza non possa rendere
conto del fenomeno del corpo vissuto). Il paradosso della ‘estraneità
interiore’ del corpo rinvia ancora, inoltre, al fatto di essere al tempo stesso
anche apertura e accesso ad ogni forma di interiorità dell’ego stesso. Si
può riprendere in proposito l’espressione baudelairiana di ‘chair
spirituelle’138 (ricordando che nel grande poeta francese non c’era
certamente alcun rischio di intimizzare ideologicamente tale
‘spiritualizzazione’ della carne…). Soltanto il corpo vissuto ‘spiritualizza’,
«rende [cioè] visibili i corpi del mondo», che, senza di esso, resterebbero
nella notte del non-visto139; e il corpo soltanto, ancora, rende tangibili, con-
tingenti le interiori esperienze personali del percepire, del sentire, del
provare, ecc.140 E’ grazie al corpo che mi costituisco come ‘io’ che
135
La carne è «le sensible au double sens de ce qu'on sent et ce qui sent», M. MERLEAU-PONTY,
Le visible et l'invisible, Gallimard, Paris 1964, p. 313.
136
Il termine ‘estraneità interiore’ lo riprendo da A. RIGOBELLO (“L’interiorità nel pensiero filosofico
cristiano. Statuto ontologico ed analisi esistenziale”, in: Seminarium 3 (1991), 381-394) che lo
utilizza però in altro senso.
137
Cf. U. GALIMBERTI, Il corpo, p. 67.
138
Les Fleurs du mal, ‘Spleen et idéal’, XLII, éd. Y.-G. Le Dantec/C. Pichois, Pléiade, Paris 1966,p.
41.
139
Cf. J.-L. MARION, “La prise de chair…”, p. 46.
140
«Toute chair se constitue d’un contact à l’autre, autrement dit, la chair est essentiellement con-
tingente. Et cette contingence se répercute sur les constitutions supérieures de l’intersubjectivité,
de l’objectivité», D. FRANCK, Chair et corps, p. 168.
62
*****
L’insieme delle riflessioni fin qui proposte sul corpo consideravano, più o
meno esplicitamente e, per così dire, in modo prospettico, la relazione
corporeità-alterità. Anche se è impensabile esaurire o anche solo
descrivere adeguatamente tutte le implicazioni nello spazio che ci è
concesso, il nostro impegno – così come ho cercato di fare finora – è
propedeuticamente quello di proporre un certo numero di elementi
fondamentali per una riflessione ulteriore. E’ all’interno di questa strategia
argomentativa che si pone ora questa seconda parte dell’intervento nella
quale mi concentro particolarmente nell’analisi dell’alterità. Nella
conclusione di questa parte, vedremo in che modo questa analisi ci
ricondurrà inevitabilmente (e, per così dire, circolarmente) ad una ripresa
fondamentale del tema della corporeità, sia pure riconsiderato da un punto
di vista fenomenologico originario (con l’aiuto degli studi di Merleau-
Ponty). Il titolo che ho dato a questo capitolo (‘Dall’alterità alla corporeità’)
intende appunto render conto del cammino inevitabile che conduce una
corretta analisi fenomenologica sull’alterità verso una considerazione più
originaria della dimensione corporale in cui siamo costituiti.
nello stesso modo in cui una cosa o anche un animale sono altra cosa da
me. ‘Altri’ è allo stesso tempo come me, perché mi assomiglia ed io gli
assomiglio, è un uomo come me, ed è però anche un altro io (alter ego),
una sorta di altro mondo. Si può comprendere dunque come questa
nozione ponga un problema fondamentale in filosofia: essa appare come
contraddittoria poiché significa allo stesso tempo l’identità e la differenza.
Senza poter per ora entrare nei particolari di questa critica essa ci
permette tuttavia di notare come il semplice ‘dialogo’ buberiano sembri
mettere tra parentesi o comunque non considerare adeguatamente
l’alterità prima costituita dal corpo mio e altrui144. Soltanto sulla base
previa del darsi del mio corpo e, attraverso quella che Husserl, nella Va
delle Meditazioni Cartesiane, chiamerà ‘appercezione analogizzante’ della
irriducibile differenza corporale dell’altro uomo, può darsi infatti qualcosa
come un ‘dialogo’ tra soggetti. E’ il confronto tra corpi viventi a rendere il
dialogo vivente evitando di ridurlo a monologhi giustapposti (si pensi al
disagio che si prova allorché una comunicazione telefonica si trasforma in
uno scambio profondo a cui manca tuttavia la visione e l’ascolto
dell’alterità corporea e vivente dell’altro. Sentiamo profondamente, anche
se non sempre giungiamo ad esplicitarlo, come un tale confronto sia
monco, privo della pienezza dell’incontro con l’altro). Pur non avendo mai
una percezione diretta dell’altro soggetto, del suo corpo vivente poiché il
suo vissuto non potrà mai essere il mio, l’analogia corporea lo rende
presente nella sua specifica e insuperabile alterità. Soltanto quando sono
davanti all’altro, faccia a faccia (non al di sopra né al di sotto, ma
144
Possiamo qui accennare al tripode della passività tematizzato da P. RICŒUR in Soi-même
comme un autre. Il filosofo francese ritiene che siano essenzialmente tre le esperienze di passività
del soggetto: la prima si manifesta nell’alterità del corpo vivente (la chair, il Leib husserliano); la
seconda nell’alterità dell’altro essere umano (l’’estraneo’), e infine la terza nell’alterità radicale
che si manifesta nella voce della coscienza (il Gewissen). Queste esperienze di passività
costituiscono per Ricœur la base fenomenologica di quella che egli chiama la meta-categoria
dell’alterità. L’altro in noi si manifesta cioè attraverso la nostra stessa corporeità, nel rapporto
intersoggettivo e nella voce della coscienza.
67
- a. Anzitutto, viene affermato il primato assoluto del mio corpo proprio nel
processo di identificazione del corpo dell’altro. Nel campo della percezione,
io posso fare l’esperienza di altri corpi soltanto perché io stesso sono un
corpo vivente. L’esperienza di me stesso come corpo costituisce dunque
un principio primordiale a partire dal quale io posso affermare l’esistenza
di altri corpi.
- b. La seconda constatazione insiste sul carattere immediato di questo
riconoscimento che non mette in gioco processi intellettuali e non suppone
null’altro che la sola presenza fisica (l’uomo ‘in carne ed ossa’, leibhaftig,
contro l’uomo di parola, ‘l’homme de parole’ di Cartesio).
- c. Infine, Husserl indica ciò che costituisce la specificità della percezione
dell’altro uomo (e non soltanto di un altro corpo vivente). Ciò che mi è
150
Erste Philosophie (1923-1924) II, Husserliana, t. VIII (La Haye, 1959, pp. 61-64).
70
La consapevolezza per la quale, nel riferirmi alle cose del mondo e nel
volerle, non posso non ignorare che sono cose per tutti, e che la loro
oggettiva inseità nasce dal saperle non solo come mie ma di tutti, questa
consapevolezza appunto, è già per Husserl il fondamento della cosiddetta
coscienza intersoggettiva che permette l’oggettività della conoscenza.
Conoscere oggettivamente una cosa significa conoscerla nella sua identità
per tutti, perché ogni cosa del mondo partecipa di quella «forma
152
Si cf. o.c., p. 310ss. Anche Sartre tuttavia ha riconosciuto che nessuna prospettiva si lascia
oggettivare del tutto: nell’oggetto che è diventato il mio sguardo qualcosa si sottrae e resiste
comunque alla sua mera oggettivazione, esige pur sempre di essere riconosciuto come una
soggettività (si cf. in proposito le osservazioni di V. MELCHIORRE, Corpo e persona, p. 109ss.).
153
Die Krisis, Hua VI, p.492 e 498.
72
ontologica che è quella del mondo per tutti»154. Ecco allora che già ad
Husserl l’ego cogito cartesiano nel suo im-porsi unilaterale (come
spettatore imparziale che tutto riduce a semplice oggetto) appare una
formulazione astratta dell’incontro tra l’io e il tu. L’originario che
costituisce ogni soggettività non è dunque né l’io né il tu ma una
costitutiva intersoggettività. Il padre della fenomenologia contemporanea
può scrivere allora che «anche quando sono diretto del tutto
esclusivamente verso una cosa, io sono sempre anche, almeno
implicitamente, in relazione con altri consoggetti della
rappresentazione»155. E’ in questa linea che sarà possibile a Merleau-Ponty
concentrarsi sulle analisi del corpo considerato come strutturalmente
capace di trascendenza in quanto abita un mondo che non è anzitutto il
suo mondo ma un intermondo.
154
Ib., p. 493. «La cosa è propriamente ciò che nessuno ha mai visto realmente, perché è l’unità
della molteplicità aperta e infinita delle mutevoli esperienze proprie e altrui. Gli altri soggetti di
questa esperienza sono per me e per chiunque altro un orizzonte aperto con cui è possibile
incontrarsi e che possono entrare con me e con gli altri in una connessione attuale» (ib., p. 191s.).
155
ib., p. 493.
156
Cf. Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1987, pp. 404 e 406.
73
157
Si leggano in proposito i brani di p.457 e 458s. di Fenomenologia della percezione, ved.fotoc.
158
Il paragrafo successivo dello stesso brano che abbiamo letto (p. 458s.) riprende la
dimostrazione a partire dall’esempio più generale della percezione del comportamento dell’altro
(per es., vedo qualcuno portare dei pacchi, spazientarsi nel fare la coda in un ufficio, ecc.). Tale
percezione si compie attraverso un decentramento dell’io: io comprendo ciò che sta accadendo
perché mi progetto e non vi assisto come ad uno spettacolo oggettivo rispetto al quale resterei
estraneo accontentandomi di guardare da lontano e di giudicare. Io vi vedo sempre il
prolungamento di un’attività di cui risento immediatamente in me la possibilità (anche il mio corpo
sente la pesantezza dei pacchi da portare, il disagio di un’attesa troppo lunga, ecc.).
159
Phénoménologie de la perception, p. 294.
160
In tale universo della carne (chair du monde), il corpo proprio si distingue dagli oggetti per il
fatto che esso è ‘assenza’ per me, campo primordiale in cui ogni esperienza condiziona la sua
apparizione. Il corpo non è un oggetto: non è mai distanziato da ciò che sono, ma sempre distante
in quanto mai totalmente offerto a colui che lo ‘abita’. Questa spazialità di situazione esprime
l’avvolgimento (eveloppement) di cui il mio corpo si fa centro.
74
161
Cf. D. SPARTI, o.c., p. 152ss.
162
«Ciò che chiamiamo ‘carne’, questa massa interiormente travagliata, non ha nome in nessuna
filosofia. Medium formatore dell’oggetto e del soggetto, essa non è l’atomo d’essere, l’in sé duro
che risiede in un luogo e in un momento unici: del mio corpo si può certo dire che esso non è
altrove, ma non si può dire che sia qui o adesso, nel senso degli oggetti; e tuttavia la mia visione
non li sorvola, essa non è l’essere che è interamente sapere, giacché ha la sua inerzia, i suoi
vincoli. Si deve pensare la carne non già a partire dalle sostanze, corpo e spirito, altrimenti essa
sarebbe l’unione di contraddittori, ma, dicevamo, come elemento, emblema concreto di un modo
d’essere generale», Visibile e invisibile, o.c., p. 163.
163
Il termine ‘costituente’ significa in questo caso: la coscienza egologica (intenzionale) che
costituisce il senso del mondo e degli altri. In tal caso, la coscienza si ridurrebbe ad una funzione
‘imperialista’ (Levinas) decidendo unilateralmente il senso di ogni cosa. Tale caricatura della
coscienza intenzionale è tuttavia molto lontana dall’intenzione husserliana per il quale essa è già
sempre ‘intersoggettiva’.
164
Segni, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 218s. ‘Tetico’ è il giudizio nel quale è affermata soltanto
l’esistenza del soggetto e appare dunque priva di predicati.
165
P. GAMBAZZI, L’occhio e il suo inconscio, p. 27.
75
Sul treno che mi porta verso casa sale una donna molto bella. E’ la prima
volta che la vedo, e sono rapito dalla sua bellezza: il mio sguardo stanco
per il lavoro della giornata non riesce più a staccarsi da lei. La vedo
entrare alla fermata e sedersi davanti a me: non sento alcun bisogno di
parlare – in quel momento anche la parola più gentile potrebbe
interrompere quella grazia. Ne osservo i vari atteggiamenti, l’eleganza dei
modi e del portamento: sono attirato dall’estrema finezza dei tratti.
Rimango sedotto da quel modo di essere con se stessa e con gli altri che
emana un’armonia profonda, affascinante, segreta. Un mondo che mi
riposa intensamente e a cui mi piacerebbe appartenere intimamente. Tutto
fino allora era radioso e trasparente, ma ecco che una frenata inaspettata
costringe la donna ad un movimento brusco del volto, a delle contrazioni
del viso che interrompono il segreto accordo che viveva nell’immagine che
irradiava. Avverto allora in me, repentino, l’imporsi di una sensazione che
infrange e spezza ciò che fino a poco prima era unificato e armonioso.
Improvvisamente, il legame tra quella raggiante bellezza e la sua intima
identità si è fatto incerto e vago, indefinito: fino ad ergersi come un muro
di confine tra la bellezza che mi aveva conquistato poco prima e la
profonda estraneità, ora divenuta manifesta, di chi la ‘abita’. Il suo volto
così sovrano mi rinvia ora ad un’altra presenza, che non avevo scorto fino
a quel momento e che non coincide più con l’apparenza che mi è stata
offerta. Non c’è più identità tra lo spettacolo esteriore e ciò che
intimamente avverto della sua interiorità. La sua bellezza permane, ma
come svuotata dall’interno: è ormai perduta l’armonia nascosta che la
rendeva luminosa.
176
E’ in particolare con Cartesio che si impone il regime della ‘rappresentazione’ del corpo. Con il
filosofo francese, infatti, il corpo (e il mondo) non sono più visti (sottoposti alla visione delle Idee,
Platone), ma sono rappresentati, cioè inclusi e contenuti nell’anima che li rappresenta. «L’anima
diventa l’orizzonte al cui interno si costituiscono le rappresentazioni del corpo e del mondo che,
essendo noti in quanto rappresentati dall’anima, sono da essa inclusi». In tal modo, si passa da
una concezione dell’anima nel corpo e del corpo nel mondo, all’inclusione del corpo e del mondo
nell’anima secondo le modalità delle rappresentazioni che questa produce (U. GALIMBERTI, Psiche
e Techne, p. 127s.). Questo passaggio è decisivo perché attua la comprensione del corpo come
somma di parti senza interiorità, da cui nascerà la medicina moderna, pensabile soltanto tramite
la previa riduzione del corpo ad ‘organismo’, ‘corpo cosa’ (Körperding, Husserl): tutti gli aspetti
qualitativi si trasformano in quantitativi attraverso la loro misurabilità.
177
L’espressione ‘corpo animato’, oltre che profondamente biblica, può essere riferita ancora a M.
MERLEAU-PONTY (Fenomenologia della percezione, Parte II, incipit): «il proprio corpo è nel mondo
come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo
alimenta internamente, forma con esso un sisema».
178
Un breve chiarimento su questo termine così abusato sembra necessario. Il carattere sim-bolico
che attribuiamo al corpo animato risiede per es. nel fatto che il contatto di sé con sé è già sempre
contatto di sé con l’altro: in questo originario ‘tenere insieme’ dell’esperienza (il corpo tocca in
quanto toccato, touché-touchant) risiede il carattere simbolico del corpo vissuto. «L’appercezione
della carne propria e quella della carne straniera sono essenzialmente solidali» (E. HUSSERL, Hua
XIII, p. 344: ciò che costituirà la Paarung della Va delle Meditazioni cartesiane). A questo livello
ancora possiamo individuare quella vulnerabilità fondamentale del corpo in cui ogni esperienza
dell’altro da sé implica sempre un cambiamento nell’immagine di sé.
80
profondo e vero, come annota Wheeles Robinson 179 - «un corpo animato e
non un’anima incarnata».
intelligenza senziente183.
184
183
Xavier ZUBIRI, Inteligencia sentiente, 1980.
82
«Ogni tentativo di proiettarci nell’altro non ci fa mia uscire da noi stessi: per quanto si
possa trasmigrare in un altro corpo, in un’altra anima, in un altro punto di vista, alla fine
proprio per rispetto della radicale alterità dell’altro anche lo sforzo più fantasioso e
generoso non potrà apparire che una stazione del nostro interno. Questo sentimento
dell’assoluta trascendenza dell’altro deve, alla fine di qualsiasi tentativo di
approssimazione, poter essere conservato insieme a qualche tremore e paura per la
differenza che ci separa. Esattamente di fronte al rischio di costruire un’immagine
demonizzata e mostruosa dell’altro, sta il rischio opposto, quello di un’approssimazione
così compiuta da cancellare nell’identità le differenze, da rendere il prossimo identico», F.
CASSANO, Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, Bologna 1989, p. 7s.
Così gli amanti che scoprono i loro corpi nell’alterità del corpo altrui
toccano e percepiscono l’inedita profondità della loro attesa, l’impensata
verità dei loro sguardi, la silenziosa lucidità delle loro parole. La carezza
data all’altro riconosce in realtà la profondità insospettata del mio corpo:
non più come possesso o volontà di possedere, ma nella gioia senza
paragone dell’essere restituiti a me stessi, alla nostra sempre ignorata
possibilità di separarci da noi stessi, dalle nostre incrollabili certezze e
abitudini (che vorrebbero renderci impenetrabili e ci svendono
all’abitudine e alle nostre mortifere paure dell’altro.
L’alter ego è un ego come me: egli può quindi conoscersi come anch’io mi
conosco185. E tuttavia, poiché è altro, io non posso conoscerlo così come
184
Scrive per esempio G. DELEUZE in “Michel Tournier et le monde sans autrui” (in Logique du
sens, Éditions de Minuit, 1969, p. 355): «La partie de l’objet que je ne vois pas, je la pose en même
temps come visible pour autrui; si bien que, lorsque j’aurai fait le tour pour atteindre à cette partie
cachée, j’aurai rejoint autrui derrière l’objet pour en faire une totalisation prévisible. Et les objets
derrière mon dos, je les sens qui bouclent et forment un monde, précisément parce que visibles et
vus par autrui. Et cette profondeur pour moi, d’après laquelle les objets empiètent ou mordent les
uns sur les autres, je la vis aussi comme étant une largeur possible pour autrui, largeur où ils
s’alignent et se pacifient (du point de vue d’une autre profondeur). Bref, autrui assure les marges
et les transitions dans le monde».
185
Malgrado le violente critiche di E. Levinas per il quale fare dell’altro un alter ego significa
rifiutarne l’infinita alterità, nella linea delle ricerche husserliane preferiamo mantenere il termine di
‘alter ego’ parlando dell’altro uomo, ritenendo in questo modo di non porre alcun atto totalitario
intenzionale di assimilazione dell’altro al Medesimo. Infatti, l’alterità dell’altro, in virtù del suo
stesso senso, esige una certa fenomenalità che permette la riconoscenza della sua alterità e fonda
83
Si pensi per es. all’esperienza del corpo proprio e altrui nel rapporto
sessuale. Là dove apparentemente più intimo è il contatto fisico con l’altro,
paradossalemente più altra si impone la sua alterità e differenza. L’altro
non lo si possiede propriamente mai: nel cuore dell’esperienza del suo
corpo egli risulta impenetrabile ad ogni volontà di possesso187. Il corpo,
nella sua gestualità e nella sua parola, diviene qui semplice ‘simbolo’ di
un’alterità che l’io può (pres)sentire o intuire, mai possedere.
L’uomo che si raggiunge attraverso il cogito scopre insieme anche tutti gli
altri: li scopre come la condizione stessa della sua esistenza. Egli si rende
conto che non può essere nulla (nel senso in cui si dice, per es., che si è
spirituali, cattivi o gelosi) se gli altri non lo riconoscono come tale. Io mi
riconosco perché l’altro mi ha riconosciuto 189. Per ottenere una qualunque
verità su di me, è necessario che io passi – implicitamente o
esplicitamente - attraverso gli altri. L’altro è indispensabile (non in quanto
cosa, ma in quanto persona, nella sua essenziale libertà) alla mia
esistenza, e alla conoscenza che ho di me. E’ in questo modo che Sartre
mostra come la situazione originaria dell’io non sia la posizione di un io
solitario, ma una sua immediata articolazione con l’alterità, con gli altri io.
Cogliermi, comprendermi, significa cioè sempre e da sempre al tempo
stesso sapermi colto e compreso dall’altro.
CONCLUSIONE;
189
Si può pensare al racconto biblico della creazione di Adamo ed Eva in Gen. 2. L’uomo (il
maschio) assume una conoscenza di se stesso soltanto a partire dall’incontro con Eva (la donna).
Senza di essa, Adamo non sa ‘dirsi’, cioè non ha ancora alcun rapporto con se stesso. E’
interessante constatare in proposito che l’uomo parla per la prima volta nella Bibbia soltanto
quando Eva gli è posta davanti, come compagna, ‘aiuto che gli sia simile’. E’ allora che la sua
bocca si sciogli in un canto.
190
R. DESCARTES, Principia philosophiae, I, 51.
191
Già per la nostra migliore tradizione aristotelico-tomista la sostanza «è un ‘principio’ di
sostanzialità e non si identifica con l’ente particolare e sussistente» (cf. D. SACCHI, “Sostanza,
essenza, soggetto”, in: Annuario di Filosofia 2000, ‘Corpo e anima’, p. 347)
85
192
Malgrado le violente critiche di E. Levinas per il quale fare dell’altro un alter ego significa
rifiutarne l’infinita alterità, nella linea delle ricerche husserliane preferiamo mantenere il termine di
‘alter ego’ parlando dell’altro uomo, ritenendo in questo modo di non porre alcun atto totalitario
intenzionale di assimilazione dell’altro al Medesimo. Infatti, l’alterità dell’altro, in virtù del suo
stesso senso, esige una certa fenomenalità che permette la riconoscenza della sua alterità e fonda
la possibilità di un discorso che la tematizzi. L’alterità dell’altro riposa sul fatto che anch’egli è un
ego come me. L’aporia fondamentale del discorso levinasiano (quello che è posto almeno in
Totalità e Infinito) è stata messa in luce da J. DERRIDA (“Violence et métaphysique”, in: L’écriture
et la différence, Paris 1967) che sottolinea come attraverso la determinazione di ‘altri’ come
infinitamente altro Levinas si privi del suo stesso discorso.
86