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PLOTINO

Plotino, vissuto nel III sec. d.C., pur accogliendo l’eredità platonica nella propria dottrina del
Bello, perviene a una visione inedita, che segna il confine tra Antichità e Medioevo. I suoi scritti
sono stati raccolti e sistemati in sei Enneadi, ossia libri di nove parti ciascuno, da un suo allievo,
Porfirio.
All’interno dei diversi trattati che compongono le Enneadi, sono solo due i testi dedicati
espressamente alla tematica della bellezza e dell’arte: Sul Bello e Sul Bello intellegibile.
Plotino rifiuta la tradizionale concezione della bellezza come armonia e proporzione delle parti,
sostenendo che questi attributi non costituiscono la causa della bellezza, bensì solamente uno dei
suoi effetti. Considerati singolarmente infatti non riescono a coprire l’intero ambito del bello e
inoltre la loro presenza nelle cose non dà necessariamente luogo alla bellezza.
Secondo Plotino il principio del Bello risiede nella Forma, che non è un modello che trascende
l’ente sensibile e che appartiene all’intellegibile, come in Platone, ma immanente all’ente sensibile,
frutto di un’ipostasi, ovvero di una processione che, senza interruzioni, procede dall’Uno verso le
cose.
Per Uno il filosofo intende un’unità suprema e ineffabile, origine dell’essere, ma di cui l’Essere
non può essere predicato. L’Uno costituisce la fonte della molteplicità degli enti, cioè di tutto quello
che esiste. Radicalmente diverso da tutto ciò di cui è principio, appare come l’assolutamente Altro,
al di là dell’essere e della sostanza, infinito, privo di forma e di figura. L’Uno, per la sua
sovrabbondanza d’essere, non può fare a meno di traboccare spontaneamente fuori di sé e di
generare, secondo un processo discendente articolato in vari gradi, la realtà. Questo processo per cui
dall’Uno derivano in modo necessario i molti, attraverso una serie di gradi d’essere sempre meno
perfetti a mano a mano che ci si allontana dal Principio iniziale, è detto emanazione.
Plotino concepisce l’Uno come identico al Bene e simile ad un’infinita fonte di luce che si
irradia sulla realtà che da esso procede per emanazione. Come la luce va diminuendo via via che ci
si allontana dalla sua sorgente luminosa, così il mondo va perdendo perfezione quanto più ci si
allontana dalla sua fonte. E siccome la fonte è l’Uno, il segno della progressiva imperfezione della
realtà sta nel progressivo farsi molteplice dell’Uno.
Il processo di emanazione del mondo si concretizza nelle tre realtà sostanziali divine che
formano il mondo intellegibile, le ipostasi: l’Uno, l’Intelligenza e l’Anima.
L’Intelligenza, esplicazione di tutte le forme primordiali dell’essere, racchiude in sé gli archetipi,
i modelli eterni della realtà sensibile, e li effonde nell’Anima del mondo, da cui derivano tutte le
singole anime umane e tutte le singole forme della natura. All’estremo opposto dell’Uno si colloca
la materia, concepita come privazione di forma. La nostra anima, essendo divisa tra il sensibile e
l’intellegibile, se da un lato è attratta dalle seduzioni del mondo materiale, dall’altro avverte il
richiamo del divino. Secondo Plotino, uno degli impulsi che spinge l’uomo ad intraprendere il
cammino spirituale verso la verità, verso l’Uno, l’Assoluto, è l’esperienza del bello.
Riconoscere il bello e rimanerne colpiti significa scorgere nelle forme delle cose il principio
universale che le accomuna alla nostra anima, ovvero il Nous, l’Intelligenza divina, prima
emanazione dell’Uno.
La Bellezza infatti ha il suo archetipo ideale nell’Intelligenza, che a sua volta trae il Bello
direttamente dall’Uno, in cui si identifica con il Bene. Le forme delle cose che chiamiamo belle
sono quindi frutto di questa irradiazione, che dal modello intellegibile procede verso il mondo
sensibile.
Il male e il brutto coincidono invece con ciò che è estraneo alla ragione divina, ovvero con la
materia informe e opaca.
La forma, che si manifesta nella bellezza sensibile e che genera nell’uomo un’emozione di
turbamento misto a piacere, un trasporto istintivo e innato, è riflesso di quella Bellezza in sé, con la
quale l’anima si scopre affine e verso la quale desidera tornare. La bellezza sensibile quindi ricorda
all’uomo l’origine divina della sua anima, provocandogli nostalgia e desiderio di ritornare verso
l’intellegibile da cui discende.
Affinché la nostra anima possa ascendere verso la sua patria d’origine, la sede celeste del Bene e
del Bello, deve purificarsi dalle scorie della sensibilità ed elevarsi gradualmente alla
contemplazione dell’Idea.
Attraverso un impegno etico e intellettuale, deve abbandonare le percezioni fisiche dell’occhio,
in favore di una visione metafisica dell’occhio della mente, e distogliere il proprio sguardo da quei
corpi sensibili che sono solo immagini e ombre della vera realtà e della vera fonte della bellezza.
Poiché l’occhio interiore inizialmente non potrebbe sopportare l’accecante splendore del Bello
assoluto, bisogna abituarlo ad una visione graduale della bellezza, così, per mezzo di un’educazione
dello sguardo, si comincerà a riconoscere ed ammirare le occupazioni e le azioni moralmente belle,
poi si tenterà di scorgere la bellezza nelle anime degli uomini virtuosi che compiono quelle belle
azioni e infine, per poter contemplare la bellezza di un’anima bella, sarà necessario purificare se
stessi dagli elementi sensibili, sino a risplendere, fino a che vedente e veduto non saranno la stessa
cosa. È necessario che l’anima si faccia bella per potersi elevare alla contemplazione della Bellezza
in sé, cioè l’idea del Bello presente nella seconda ipostasi.
Secondo Plotino, l’esperienza gnoseologica e psicologica procede dai gradini più bassi della
percezione e dell’immaginazione, facoltà preposta a raccordare il mondo sensibile e l’anima, per
sollevarsi al piano dianoetico della ragione discorsiva, destinata a collegare l’anima al mondo
intellegibile.
Poiché l’Intellegibile, Forma delle forme, è una totalità compiuta in cui tutto è coesteso e coevo a
tutto, e in cui non può darsi separazione né successione di un antecedente e di un conseguente, non
vi si può giungere attraverso un procedimento razionale, ma è necessaria una conoscenza sintetica,
intuitiva, immediata. L’uomo per intuire l’Intelligenza divina deve attivare la sua più alta facoltà
cognitiva e, dal piano dianoetico, deve elevarsi a quello noetico. Solo così l’anima potrà
contemplare il Bello intellegibile, che coincide con l’Essere e che è il luogo delle Idee.
Al di sopra di questa Bellezza eidetica, oltre ciò che è intellegibile, risplende una Bellezza
aneidetica, una Bellezza priva di forma e misura, fonte e principio del Bello intellegibile, chiamata
da Plotino in diversi modi: Oltrebello, Bellezza in sé e per sé, Bellezza prima.
A questa Bellezza prima, che si trova nel cuore dell’Uno e che si identifica con il Bene, si può
giungere solo attraverso l’estasi, un’esperienza sovrarazionale ottenuta mediante un’uscita da sé e
dai limiti del finito, in cui l’anima si compenetra col Divino.
Per Plotino giudicare bello un oggetto naturale o artistico significa intravedere nella bellezza
particolare di quell’oggetto un segno della bellezza universale dell’Idea. Ma, mentre nella bellezza
di un oggetto naturale riconosciamo lo spontaneo processo emanativo derivante dal Nous, nella
bellezza degli oggetti artistici questo processo, pur risalendo al Nous, risulta mediato dall’inventiva
di un ingegno umano.
La natura quindi accoglie passivamente le proprie forme dall’Intelligenza divina, l’arte, invece,
trova le sue forme dalla mente dell’artista che, attraverso il processo della creazione artistica, le
riversa nella materia. Fonte della bellezza artistica è dunque l’immaginazione umana. Il bello
artistico risulta di conseguenza superiore a quello naturale, perché l’artista immettendovi una forma
lo rende bello secondo uno specifico principio razionale.
L’artista, non è più concepito come un mero imitatore dell’ingannevole mondo delle apparenze
sensibili, come in Platone, ma come colui che, recando nella propria anima un’idea di bellezza, è in
grado di trasferirla nella materia, esaltandone il potenziale estetico.
L’arte autentica tuttavia deve favorire la scoperta del Nous. L’artista perciò non deve imitare
l’aspetto fenomenico delle cose, perché così facendo non farebbe che creare immagini di immagini,
ma deve fare appello alla propria immaginazione, unica facoltà abilitata a riguardare nel
Intelligenza divina, per imprimere nella materia la forma interna alla sua mente, ovvero la bellezza
intellegibile.
Il valore di un’opera non risiede nell’abilità tecnica, ma nell’abilità dell’artista di riflettere in
essa la propria Idea creativa. Plotino, se da un lato riserva all’arte la sacralità di un atto rivelativo,
dall’altro considera i suoi prodotti insufficienti manifestazioni dell’Idea. Per lasciare apparire la sua
intuizione creativa infatti l’artista necessita di un medium materiale estratto dalla natura, che
resisterà sempre all’invasione della forma da lui pensata: il prodotto sarà sempre inferiore al
produttore. Nessun oggetto umano potrà restituire la perfezione dell’Essere e del Bello, che
risplende solo attraverso l’occhio interiore dell’anima protesa all’Uno.

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