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Di cosa parla De Anima Γ 5?

Una modestissima
proposta*
di Diego Zucca

1.  Le poche righe di cui consta De Anima Γ 5 sono probabil-


mente le più commentate dell’intero corpus aristotelico: vertono, no-
toriamente, sull’intelletto agente, e lo introducono ex abrupto entro
un discorso sui meccanismi del pensiero umano (Γ 4), discorso che
pare poi procedere senza soluzione di continuità nel capitolo succes-
sivo (Γ 6). Sarebbe risibile pretesa voler sciogliere il millenario enigma
custodito in questo pugno di righe, così come lo sarebbe il voler dare
conto, fosse anche sommariamente, del dibattito sterminato che esso
ha cagionato e continua ad alimentare fra gli studiosi. Il mio intento,
ben più modesto, è di valutare qualche pro e qualche contro di al-
cune delle interpretazioni possibili, in particolare di una recente, piut-
tosto originale – proposta da Berti1 – e di muovere da questa per pro-
porne una variazione che mi pare possa rafforzarne il potere esplica-
tivo e renderla immune da alcune obiezioni.

2.  In via preliminare è necessario richiamare per sommi capi il


modo in cui l’intelletto è introdotto e caratterizzato in Γ 4 e in alcuni
cenni precedenti del De Anima. Γ 4 introduce il ν come “quella
parte dell’anima con cui essa conosce e comprende” (ρνε, 429 a
10-11)2, di cui va indagato il carattere specifico –  sia tale parte separa-

* Come verrà presto in chiaro, il titolo di questo articolo riecheggia quello di un recente
intervento di E. Berti (L’intelletto attivo: una modesta proposta) il quale riprende quello di un
articolo di V. Caston (V. Caston, Aristotle’s Two Intellects: A Modest Proposal): cfr. infra.
1
 Cfr. E. Berti, L’intelletto attivo: una modesta proposta, lectio brevis presso l’Accademia dei
Lincei, http://www.accademiadeilincei.it/files/documenti/LectioBrevis_Berti.pdf, 2014. Attraverso
una comunicazione informale con Berti ho appreso che un suo articolo più corposo di questa
lectio brevis, che argomenta la medesima tesi della lectio che qui critico, uscirà a breve in lingua
inglese, entro un volume miscellaneo. Purtroppo non posso prendere in considerazione il contri-
buto venturo, nel quale, secondo quanto anticipatomi dallo stesso Berti, la sua interpretazione di
De An. iii 5 si paleserebbe non essere poi così distante da quella che qui mi accingo a proporre
in alternativa.
2
 Poco dopo si caratterizza l’intelletto come “ciò con cui l’anima ha pensiero discorsivo e
credenza” (διανεται κα πλαμνει, 429 a 23-24).

LA CULTURA / a. LIV, n. 1, aprile 2016 47


Diego Zucca

bile secondo grandezza o solo in senso concettuale-definitorio3  –  così


come va indagato come insorga il pensare. Istituita una analogia fra
pensare e percepire, si ventila l’ipotesi che il pensare sia un subire da
parte dell’intellegibile, come il percepire lo è dal percepibile, sicché
il ν dovrà essere impassibile ma ricettivo della forma, ed essere le
forme in potenza, come accade per la facoltà percettiva4. Tuttavia, l’a-
nalogia stessa suggerisce una differenza decisiva: giacché tutte le cose
sono pensabili5, l’intelletto ha da essere pura potenza di tutte le forme,
infatti per poterle ‘diventare’ tutte non potrà essere nulla, nessuna di
esse, in atto6. La percezione è potenza di un certo genere di forme,
ad esempio la visione è potenza di ricevere le forme cromatiche, cioè
è quelle forme in potenza ma non in atto: se l’occhio fosse già rosso,
non potrebbe ‘diventare’ rosso in quanto sarebbe già tale in atto, per-
ciò deve essere trasparente: per esser ricettivo di ogni colore7. Il senso
non è in grado di ricevere, e di percepire, la qualità che è già in atto:
se ciò valesse per l’intelletto, esso non potrebbe essere in grado di ri-
cevere tutte le forme, visto che sarebbe qualche forma in atto.
Dunque è ‘ragionevole’ ritenere che il ν non sia mescolato al
corpo, e che non abbia un organo dedicato come l’hanno le capacità
percettive (429 a 24-25): da una parte ogni organo ha certe qualità
già in atto, e non le è in potenza, dall’altra la sua natura è tale che i
suoi mutamenti sono interni a un certo genere di qualità, per esem-
pio i colori per l’occhio, i suoni per l’orecchio, e così via; se il genere
di una qualità [es. colore] è individuato da due contrari (es. bianco/
nero), ogni mutamento rispetto a siffatto genere sarà entro quei con-
trari, magari fra diversi intermedi all’interno dei due contrari8; ma il
ν non è ricettivo di qualità di un solo genere bensì di ogni genere
di enti, pertanto non potrà avere un organo, ché la sua recettività
risulterebbe vincolata, mentre invece esso è capacità, per così dire,
onni-ricettiva.

3
 Come tutti gli aggettivi in -τς, l’aggettivo verbale ωριστς  –  probabilmente coniato
dallo stesso Aristotele  –  può avere un significato statico o uno modale, e indicare l’essere ‘se-
parato’ o l’esser ‘separabile’. Separabile da cosa? Secondo grandezza: dal corpo in generale,
o dalle altre parti corporee che realizzano altre ‘parti’ dell’anima o poteri psichici; secondo
λγς: A è separabile da B se la definizione di A non solo è diversa da quella di B, ma non
implica o include riferimento a B o al λγς di B; l’intelletto è separabile in tal senso, dalle
altre parti dell’anima, se il suo λγς non contiene riferimenti al λγς di altre parti.
4
 429 a 11-18. Nemmeno la percezione è mero patire, ma realizzazione di una capacità
innata, che è impassibile in quanto esercitandosi non si corrompe anzi si invera: se percepisco
non vengo semplicemente alterato, ma esprimo, manifesto una capacità cognitiva naturale (cfr.
417 b 3-17). Poi si chiarisce che il ν è impassibile in modo diverso da come lo è la perce-
zione (429 a 29-b 6).
5
 Non vi è cosa, fra cielo e terra, che non possa essere colta sub specie universalitatis,
come esempio di un qualche universale. Il particolare in quanto è tale, invece, per Aristotele
non si può pensare, ma solo percepire.
6
  429 a 15-24.
7
 Cfr. De An. Γ 11, 424 a 1-6.
8
 Ogni divenire è fra contrari o loro intermedi, entro un certo genere individuato da due
contrari. Cfr. De Gen. et Corr. i 5.

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Un’altra, rilevantissima differenza con la percezione, è che l’in-


telletto resta potenza anche delle forme che ha già acquisito, e può
riattualizzarle da sé al modo in cui chi ha acquisito scienza, può
contemplare9: mentre la percezione non può essere attiva in absen-
tia, ma abbisogna del particolare presente, l’intellezione può essere
autoindotta, una volta che la forma universale sia stata acquisita gra-
zie all’esposizione percettiva a molti particolari che esibiscono e con-
dividono tale forma10. Siffatta ‘spontaneità’ del ν, di contro alla
passività del percepire, ha una conseguenza molto significativa: in
virtù del poter liberamente riattualizzare da sé le forme acquisite, il
ν è in grado di avere intellezione di sé stesso; poiché può comin-
ciare a pensare da sé, è in grado di pensare sé11: se esso è potenza
di tutte le forme, l’esercizio spontaneo di tale potenza, a proposito
di questa o quella forma acquisita, è anche un poter cogliere sé
come quella stessa capacità in esercizio12.
Dunque: il ν su cui occorre indagare è una parte dell’anima,
è separabile, è pura potenza ricettiva delle forme intellegibili, non è
commisto al corpo e dunque è privo di un organo, ed è impassi-
bile in modo più radicale di come lo è la percezione, resa comunque
possibile dal patire alterativo di organi corporei nonché dipendente
dalla presenza dell’oggetto13; inoltre è potenza di riattualizzare da sé
le forme già intellette, e così di pensare sé, di cogliersi come capa-
cità di riattualizzare forme14.

3.  Dopo un difficilissimo passo concernente la differenza fra il


principio cognitivo che coglie le cose (probabilmente la percezione)

9
  “[...] la percezione in atto è dei particolari, la scienza degli universali, e questi sono in
certo modo nell’anima stessa; perciò il pensare dipende dal soggetto, qualora lo voglia, mentre
il percepire non dipende da lui poiché è necessario che il sensibile sia presente” (De An. B 5,
417 b 23-26).
10
 Cfr. An. Post. ii 19, 99 b 15-100 b 5.
11
 Cfr. 429 b 9: κα ατς δ ατν ττε δναται νεν; Ross, accettando un’emendazione
di Bywater, cambia in ατς δι’ατ. Ma che il ν possa pensare ‘da sé’, è stato appena
affermato in 429 b 7, cosicché l’emendazione introduce una ridondanza implausibile, oltre a
perdere di vista la pregnanza teoretica consistente proprio nell’implicazione fra il poter pen-
sare da sé e il poter pensare sé stesso. Quel κα marca, a mio avviso, un importante guadagno
speculativo.
12
  La ‘spontaneità’ con cui il ν riattualizza da sé questo o quell’universale, gli rende ac-
cessibile la sua stessa natura, quella di poter diventare non solo questo o quell’universale, ma
qualunque universale: di esser potenza senza confini.
13
 La percezione è ricezione di qualità sensibili, la quale comporta che l’organo percettivo
venga alterato fisicamente dall’ambiente. Perciò uno stimolo sensibile troppo intenso desta-
bilizza l’organo e distrugge la capacità relativa, mentre uno ‘stimolo’ intellettuale non è mai
troppo intenso; al contrario, più intenso è, e più potenzia la capacità intellettiva (429 a 29-429
b 6).
14
  Si tenga a mente, sin d’ora, che l’unico intelletto di cui si parla in Γ 4 non è solo mera
passività, ma è anche spontanea attività nei confronti di sé medesimo, capacità di libera auto-
attualizzazione. Le forme colte dall’intelletto sono universali ed essenze, le forme colte dalla
percezione sono qualità sensibili, e particolari.

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Diego Zucca

e quello che coglie le essenze delle cose (probabilmente il ν)15, il


testo séguita proponendo due interessanti aporie concernenti il ν,
intimamente correlate.
La prima (429 b 23-27) esplicita la problematicità sottesa al pa-
rallelo fra pensare e percepire: se il ν è radicalmente impassibile
e non ha nulla in comune con alcunché, come e cosa potrà mai pen-
sare, se il pensare è un subire? In ogni mutamento, un paziente su-
bisce da un agente in quanto entrambi hanno un genere di qualità
in comune, anche se dapprima l’agente ha un certo grado di quella
qualità in atto e il paziente ha quel certo grado solo in potenza: un
corpo caldo in atto ne riscalda uno freddo, che dapprima era caldo
solo in potenza, ma entrambi possono essere relati come motore/
mosso entro un mutamento perché hanno una certa temperatura,
e la temperatura è un genere rispetto a cui la sostanza muta entro
i contrari caldo/freddo che individuano il genere stesso: cambiare
temperatura, cioè cambiare secondo il genere [temperatura], non è
che diventare più caldo o più freddo.
Ora, ex hypothesi il ν è puro e non ha alcuna determinazione
positiva in atto: per concepirlo come atto a diventare ogni cosa, si
rischia di rendere inconcepibile la sua capacità di subire da alcun-
ché, giacché è posto come non avente nulla in comune con alcun-
ché! Da cosa potrà subire?
La seconda aporia (429 b 27-29) verte sull’auto-intellegibilità
dell’intelletto anticipata in precedenza (429 b 6-9): se l’intellezione è
un subire da entità con cui si ha qualcosa in comune, allora: a) o gli
intellegibili sono dotati di intelletto, visto che l’intelletto li ‘riceve’,
o b) l’intelletto ha mescolato in sé qualcosa che è comune a sé e
agli enti che riceve, e che può ricevere perché ha tale qualità posi-
tiva in comune. Come nella prima aporia, la purezza dell’intelletto
stride con la sua ricettività intesa come capacità di subire, dato che
per subire occorre condividere qualche proprietà con l’agente. Ma
ora l’aporeticità si estende all’autointellezione: se il ν pensa sé e
gli altri intellegibili, o pensa entrambi in virtù di qualcosa che essi
hanno in comune e con cui anch’esso è ‘mescolato’, oppure esso è
puro, e allora saranno gli altri intellegibili a dover avere intelletto,
per poter essere pensati-intelletti dal ν. Lo status aporetico di
questa duplice possibilità, consiste nel fatto che le due vie sono pa-
lesemente impercorribili, eppure non è dato scorgerne una terza. a)
comporta una strana e assurda forma di panpsichismo: l’intelletto è
puro e non è altro che sé, e conosce sia sé che i suoi oggetti perché
i suoi oggetti hanno intelletto, cioè ogni intellegibile ha intelletto!16

  De An. Γ 4, 429 b 10-22.


15

  Un’alternativa aporetica vagamente analoga a questa è prospettata da Platone nel Parme-


16

nide (132 C) in un contesto teoretico simile: siccome il pensiero degli universali è ‘oggettivo’,

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b) nega la tesi che l’intelletto sia pura potenza senza forme positive,
dunque nega la stessa condizione della sua onni-ricettività, cioè col-
lide col fatto che tutto sia intellegibile.
Tale nucleo aporetico può essere espresso come incompatibilità
fra proposizioni che pure si mostrano necessarie entro la teoria; po-
sto che il ν é auto-intellegibile17:

1)  Tutto è intellegibile (compreso il ν).


2)  Se X è intellegibile, X ha una forma F in atto.
3) Il ν non ha alcuna forma in atto.

Se 1) e 2) sono vere, non può esserlo 3); se 1) e 3) sono vere,


non può esserlo 2); se 2) e 3) sono vere, non può esserlo 1)18.
Seguono delle ‘soluzioni’ alle rispettive aporie: quanto alla prima,
si rimanda ai diversi sensi di ‘subire’ articolati in precedenza19 a
proposito della percezione: l’attualizzazione di una capacità non è
mera alterazione, è alteratio perfectiva, è un esprimersi, un manife-
starsi della capacità esercitata, in modo analogo a come l’esercitare la
scienza che si è acquisita, è diverso dall’acquisirla. Ciò che per la ca-
pacità percettiva era solo un’analogia o un ‘come se’ – la percezione
è disposizione naturale, non acquisita20 – per l’intelletto diventa un
esempio concreto21: acquisire o ‘ricevere’ un universale è diverso
dall’esercitarlo, riattualizzarlo in sé quando lo si sia già acquisito; il
ν è in potenza al modo in cui una tabula rasa è in potenza ciò
che vi verrà scritto22, ma resta potenza di ciò che ha già acquisito,
pertanto non vi è contraddizione nell’esser sia potenza di tutto, che
qualcosa in atto.
Anche la seconda aporia si affronta su questa base: è vero che se
il ν non ha alcuna forma in atto, non è intellegibile, ma è anche

pensa qualcosa di reale, di cui i particolari partecipano: “E allora?  –  disse Parmenide  –  Se


dici che le altre cose partecipano delle Forme, non è necessario che tu ammetta che ogni cosa
è formata da pensieri e che tutto pensa, oppure che tutto è pensato ed è privo di pensiero?”.
17
 La stessa teoria del ν mostra che in ν è intellegibile a sé, visto che è sia il sog-
getto che l’oggetto della teoria.
18
  Qui seguo la chiara presentazione dell’aporia da parte di M.J. Loux, Nature, Norm, and
Psyche. Explorations in Aristotle’s Philosophical Psychology, Edizioni della Scuola Normale Su-
periore di Pisa, Pisa 2004, pp. 129 ss.
19
 Cfr. De An. B 5, 417 b 2-17.
20
 È una δναμις innata e non una ις acquisita (cfr. An. Post. ii 19, 99 b 32-35) che si
possiede da quando si è generati (De An. B 5, 417 b 16-18). Dunque è analoga alla scienza
ma non quanto all’essere una ις.
21
  La scienza è un prodotto del ν come eccellenza cognitiva: esso coglie i princìpi primi
di ogni genere di enti, e ne deriva sillogisticamente le verità scientifiche, cioè gli attributi ne-
cessari di ciascun genere.
22
 Cfr. De An. Γ 4, 429 b 30-430 a 2. Alessandro di Afrodisia osserva acutamente che l’es-
sere in potenza dell’intelletto è simile piuttosto al “non essere scritta della tavoletta, ma non
alla tavoletta stessa. Perché la tavoletta è già, di per sé, una cosa esistente” (De An., 84.24-26
Bruns), mentre l’intelletto, prima di pensare, è pura potenza senza qualità positive.

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Diego Zucca

vero che il ν, la cui natura è quella di essere pura potenza, di-
venta auto-intellegibile solo in quanto attualizza in sé un’altra forma
intellegibile: come si era anticipato poco sopra23, il ν può pensare
sé stesso solo quando ha acquisito qualche intellegibile e ne è po-
tenza non come lo è prima di acquisirlo, ma come quando, acquisi-
tolo, lo possa esercitare ad libitum.
Dunque la onni-ricettività del ν è salva, grazie al fatto che
esso, per natura, resta sé stesso (pura potenza di tutto) pur diven-
tando ‘altro’ (ricezione di forme ri-attualizzabili in sé e da sé), e tale
natura peculiare rende parimenti concepibile anche la sua auto-intel-
legibilità. 1), 2) e 3) sono vere24.
La seconda aporia si scioglie anche considerando che, per gli
enti senza materia, il soggetto che pensa e l’oggetto pensato si
identificano25: gli intellegibili sono oggetti ‘senza materia’, anche se
sono immanenti nei particolari che hanno materia e il cui modo
d’accesso cognitivo è il percepire; ma nei particolari gli universali
sono ‘in potenza’, non in atto: solo il ν li attualizza cogliendo
i particolari sub specie universalitatis, dunque essi non debbono
avere intelletto, per poter essere ‘intelletti’; l’intelletto non è auto-
intellegibile perché abbia una forma positiva mescolata in sé, che
sia comune a sé e agli altri intellegibili, bensì perché è pura po-
tenza di tutti gli intellegibili e anche di sé; e gli intellegibili non
sono coglibili dal ν perché abbiano o siano ν, ché anzi solo
il ν attualizza in sé quegli universali che nei particolari con
materia sono solo in potenza. Se un albero fosse un universale in
atto, allora sì, che dovrebbe avere intelletto26, ma esso lo è solo
in potenza: solo nel ν, gli universali intellegibili sono in atto, e
attualizzandoli il ν attualizza e coglie anche sé stesso. Tale ‘so-
luzione’ è davvero complicata e speculativamente abissale: bastino
qui questi cenni.
Forti di queste acquisizioni, prepariamoci finalmente ad affron-
tare l’enigmatico testo di Γ 5.

 Cfr. De An. Γ 4, 429 b 6-9.


23

 3) è in un senso vera, in un altro falsa: l’intelletto è come una assoluta tabula rasa solo
24

quando nessun universale sia stato acquisito, poi rimane in potenza ogni intellegibile com-
preso quello che ha già acquisito, sebbene sia potenza di quest’ultimo in un senso diverso.
3) può essere falsa perché l’intelletto può essere una o l’altra forma in atto, quando sia in
esercizio, ma questo essere in atto non è come l’avere una determinazione positiva che renda
impossibile, all’intelletto, di essere comunque potenza-capacità di quella forma: anzi, nell’at-
tualizzazione, tale potenza si esprime.
25
 Cfr. De An. Γ 4, 430 a 2-9.
26
  Qui si può leggere una polemica contro le Forme platoniche. Se sono universali in atto,
dovranno essere ‘pensieri’!

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Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

4. Ecco il testo di Γ 527 (che divido in punti contrassegnati da


lettere per comodità in sede di analisi):
Poiché a) come nell’intera natura, per ciascun genere di cose c’è qualcosa che
fa da materia (e questo è tutte quelle cose in potenza), e qualcos’altro invece ne è
causa e principio produttivo col produrle tutte, essendo [questi due princìpi] relati
al modo in cui la tecnica sta alla materia, b) è necessario che anche nell’anima sus-
sistano queste differenze. c) E c’è un intelletto che è tale col diventare tutte le cose,
e l’altro che è tale col produrle tutte, d) come una certa disposizione simile alla
luce; infatti [la luce] in un certo modo fa diventare i colori, da entità in potenza,
entità in atto. e) E questo intelletto è separato, impassibile e non commisto, essendo
in atto per essenza28. f) Sempre infatti ciò che produce è superiore a ciò che su-
bisce e il principio è superiore alla materia. g) Ora, la scienza in atto è identica
all’oggetto, invece la scienza in potenza è temporalmente precedente nell’individuo,
mentre in generale non lo è nemmeno temporalmente, h) ma non è che [questo
intelletto] talvolta pensi e talvolta non pensi. i) In quanto è separato è proprio ciò
che è, l) e solo questo è immortale ed eterno, m) ma non ricordiamo, perché que-
sto intelletto è impassibile, quello passivo invece è corruttibile). n) E senza questo,
nulla pensa (De An. Γ 5, 430 a 10-26).

Proviamo a mettere in fila le proprietà con cui si caratterizza


questo intelletto, apparentemente ulteriore rispetto all’intelletto te-
matizzato in Γ 4:

1)  Sta all’intelletto ‘passivo’ come la tecnica sta alla materia (a).
2)  Produce tutte le cose che l’altro intelletto diventa (c).
3)  È separato, impassibile, non commisto, atto per essenza (e).
4)  È superiore all’altro intelletto (f).
5)  Non è il caso che esso pensi in modo intermittente (h).
6)  È proprio ciò che è in quanto sia separato (i).
7) Solo esso, è immortale ed eterno, di contro alla corruttibilità
dell’altro (l).
8) Il suo essere immortale ed eterno spiega il nostro ‘non ricor-
dare’ (m).
9)  Senza di esso, nulla pensa (n).

Tralasciando, per ora, l’icastica immagine della luce (d) e il passo


relativo alla priorità della scienza in atto su quella in potenza (g),
utilizziamo i punti 1-9 come banco di prova per le diverse inter-
pretazioni, che esamineremo, su cosa mai sia l’intelletto agente, in
modo da cogliere quale candidato potrebbe meglio giustificare 1-9,

27
 La traduzione è mia. Seguo l’edizione di Ross (Aristotele, De Anima, edited, with In-
troduction and Commentary, by sir David Ross, Clarendon Press, Oxford 1961) ove non sia
segnalato un discostamento da essa in nota.
28
 Molti manoscritti, compreso E (Parisinus graecus 1853), il più antico e attendibile di
tutti, hanno νεργεα, che Torstrik 1862, seguendo Simplicio, ha corretto in νργεια, preferito
anche da Ross. Mantengo il dativo che, come emergerà successivamente, è sensatissimo e non
problematico.

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Diego Zucca

ovverosia, cosa potrebbe più plausibilmente avere quelle proprietà


che Aristotele attribuisce all’intelletto che egli introduce in Γ 5. Inol-
tre, l’una o l’altra interpretazione hanno l’onere di dar conto del
fatto che Aristotele introduce tale intelletto qui  –  nel bel mezzo di
una discussione sulle capacità intellettive dell’anima umana  –  e dun-
que della funzione esplicativa che esso ricopre entro l’incedere argo-
mentativo di tali capitoli del De Anima.

5.  Secondo una delle interpretazioni ‘classiche’, risalente almeno


ad Alessandro di Afrodisia29 e ripresa da vari studiosi (es. Frede,
Caston, Burnyeat)30, l’intelletto attivo sarebbe un’entità divina, cioè
il motore immobile dell’universo cui si rivolge Metafisica xii. La
plausibilità di tale candidato è immediatamente evidente: il primo
motore immobile, in quanto pensiero di pensiero, è separabile, non
commisto in quanto semplice, separato, atto per essenza (3 = e nel
testo), è superiore all’intelletto come capacità umana (4 = f nel te-
sto), pensa sempre dunque in modo non intermittente (5 = h), è
‘proprio ciò che è’ nell’esser separato (6 = i), è immortale ed eterno
(7 = f) e si può comprendere che senza di esso, nulla pensi (8 = n),
se si considera che l’universo tutto, comprese le nostre anime intel-
lettive, è mosso dal primo motore in quanto esso è ‘amato’, sicché
senza il motore non sarebbe così mosso. L’universo tutto, da ultimo,
si muove per una sorta di emulazione cosmica31.
Ma le debolezze esplicative di questa lettura non mancano: il
candidato sembra non poter soddisfare 1 (a), 2 (b) e 8 (m). Conside-
riamo questi tre requisiti uno per volta:
1) e 2): forse che il primo motore immobile sta al nostro intel-
letto come la tecnica sta alla sua materia, forse che esso produce
quelle cose che il nostro intelletto diventa? Decisamente no.
Ogni cosa naturale ha materia e forma: la materia è potenza
della forma, principio passivo di ricettività della forma; negli arte-
fatti, la cui struttura ilemorfica ‘imita’ quella degli enti da natura32,
la forma è imposta sulla materia adatta dall’artefice, il quale ha la

29
 Alessandro di Afrodisia, Alexandri Aphrodisiensis praeter commentaria scripta minora, i.
Bruns. ed., Commentaria in Aristotelem Graeca, suppl. 2.1, Reimer, Berlin 1887. In de anima
(pp. 1-100); De anima libri mantissa (pp. 101-186); La traduzione italiana del De Anima di
Alessandro è: Alessandro di Afrodisia, L’anima, trad. a cura di P. Accattino e P. Donini, La-
terza, Roma-Bari 1996, 88, 16-89-22; Alessandro si occupa dell’intelletto agente anche nel De
Intellectu, secondo dei venticinque trattati della Mantissa, o De Anima ii (cfr. pp. 106.19-109-
10 Bruns).
30
 Cfr. M. Frede, La théorie aristotélicienne de l’intellect agent, G. Romeyer-Dherbey, C.
Viano (a cura di), Corps et Âme. Sur le De Anima d’Aristote, Vrin, Paris 1996, pp. 377-390;
V. Caston, Aristotle’s Two Intellects: A Modest Proposal, «Phronesis», 44, 1999, pp. 199-227;
M. Burnyeat, Aristotle’s Divine Intellect, The Acquinas Lecture, Marquette University Press,
Milwakee 2008.
31
 Cfr. Met. xii 7, 1072 b 3-4.
32
 Cfr. Phys. ii 8, 199 a 8-19.

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Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

forma nell’anima e la ‘trasferisce’ alla materia adatta attraverso la


tecnica appropriata: quest’ultima è causa motrice dell’artefatto, prin-
cipio attivo che cagiona e spiega l’esistenza di quel particolare in
quanto ha la forma che ha33; l’arte scultorea è causa motrice della
statua, latrice di forma in una materia, per esempio il bronzo, che è
principio passivo capace di ospitare quella forma grazie alla tecnica
che dall’anima dell’artefice la rende trasferibile al pezzo di bronzo.
Se la tecnica produce ciò che la materia ‘subisce’, non pare affatto il
caso che il motore immobile produca ciò che l’intelletto umano su-
bisce: esso è attività rivolta a sé, neppure pensa gli universali che il
nostro intelletto ‘subisce’, e tantomeno li ‘produce’34. Pertanto è non
poco problematico porre il motore immobile come referente delle
caratterizzazioni di De Anima Γ 5. Il motore immobile non produce
alcunché, e non sta ai nostri intelletti come la tecnica sta alla mate-
ria. Poteva Aristotele proporre un’analogia così claudicante?
8) Il punto 8 (= m nel testo) è non poco enigmatico come tale,
non solo entro la lettura che stiamo considerando; si tratterà di valu-
tare se altre interpretazioni siano in grado di dare conto di 8 meglio
di quanto non possa fare questa: se il motore immobile è separato
e pensa solo sé stesso, in che senso potrebbe mai essere causa e ra-
gione del nostro non ricordare? Non pare che esso possa avere una
rilevanza causale nel nostro non ricordare, qualunque cosa sia ciò che
non ricorderemmo. Il testo direbbe che non ricordiamo perché il mo-
tore immobile è impassibile, mentre il nostro intelletto è corruttibile:
si possono certo fare ipotesi plausibili sul nesso causale fra il nostro
‘oblio’ e la corruttibilità della nostra anima intellettiva35, ma l’eternità
e immortalità del motore immobile parrebbe, in questo contesto argo-
mentativo, esplicativamente ridondante, se non fuori luogo.
Inoltre, si dice che la differenza fra principio produttivo e pas-
sivo-materiale che si trova nella natura, ha da trovarsi anche nell’a-
nima: ma è fuori di dubbio che la differenza fra il motore immobile
e il nostro intelletto non si trova nell’anima, ove caso mai si trova
solo uno dei due relati36.

33
  Naturalmente, per ‘forma’ qui si intende l’essenza della cosa, che negli artefatti si inden-
tifica con la loro funzione.
34
 Secondo Frede (art. cit., p. 387) e un modo di interpretare il De Anima di Alessandro
(cfr. P. Accattino, Alessandro di Afrodisia interprete del De Anima di Aristotele, «Studia greco-
arabica», n. 4, 2014, pp. 275-288), Dio sarebbe causa produttiva della nostra intellezione in
senso remoto o indiretto, come causa prima del movimento del mondo sublunare e della ri-
produzione delle specie che il nostro intelletto conosce, giacché la riproduzione è una sorta di
imitazione dell’eternità divina (cfr. De An. B 4, 414 b 1). Ma non è tale nesso causale remoto,
quello fra la tecnica e la sua materia.
35
 Su ciò, cfr. F. Fronterotta, Ou mnhmoneuomen de... Aristot. De Anima Γ 4-5 a 23-5,
«Elenchos», xxviii, 2007, pp. 79-104.
36
  Non è un caso che la differenza fra principio passivo e principio produttivo, che per Ari-
stotele è ν τ ψυ (430 a 13), con Alessandro diventi π τ ν (De An. 88.22 Bruns), cioè:

55
Diego Zucca

In linea più generale, che ruolo esplicativo riveste il riferimento


al motore immobile nell’ambito di un discorso sulle capacità intellet-
tive umane? Cosa aggiunge all’indagine sulla nostra intellezione?
Un’altra interpretazione ‘classica’, propria di Temistio37 poi di
Tommaso38 e, attraverso Brentano39, sostenuta da qualche studioso
contemporaneo (es. Gerson40), fa dell’intelletto agente una parte
dell’anima umana individuale41. Se così fosse, i due intelletti sarebbero
due parti sinergiche dell’anima individuale, e si pone il problema di
cosa li differenzia, cosa li connette, che necessità vi sia di introdurre
un ulteriore intelletto individuale dopo aver analizzato la capacità che
il primo è.
L’affascinante idea di Tommaso, per cui l’intelletto agente estrae
attivamente le specie intellegibili dalle immagini (αντσματα) con-
sentendo all’intelletto passivo di riceverle42, è una pesante integrazione
teoretica, di cui non si trova riscontro testuale nel corpus. Ma ad ogni
modo ci suggerisce la possibilità di considerare la compresenza di un
potere intellettuale attivo col potere passivo di ricevere gli intellegibili:
questi sono immanenti nei particolari  –  e, cognitivamente, nelle im-
magini ritenute dei particolari percepiti  –  solo in potenza, dunque un
qualche potere, agente, motore, deve causare il loro passaggio all’atto,
ché altrimenti questo sarebbe un misterioso processo incausato. In-
vece ogni attualizzazione di una potenza deve implicare un agente che
è già in atto.
Se l’intelletto agente fosse una parte immortale dell’anima
umana, potrebbe spiegare in modo soddisfacente ciò che se ne dice
in Γ 5? Proviamo a sottoporre il candidato al nostro ‘test’:
1) Sarebbe spiegabile in quanto questo potere attivo cagione-
rebbe la ricezione, da parte della capacità passiva, degli universali
intellegibili, dunque il primo agisce sulla seconda capacità, che ‘su-

riguardo alla specie ‘intelletto’. Alessandro, per interpretare Aristotele alla sua maniera, è co-
stretto a correggerlo.
37
 Temistio la attribuisce già a Teofrasto (cfr. Temistio, Parafrasi dei libri di Aristotele
sull’anima, trad. it. a cura di V. De Falco, CEDAM, Padova 1965, pp. 152-158, 163). Per Te-
mistio, l’intelletto agente è ciò che noi siamo essenzialmente: mentre io sono composto di in-
telletto attivo e passivo, la mia essenza è l’intelletto attivo, al modo in cui l’individuo è sinolo
di materia e forma, ma la sua essenza è la sua forma. Una rivisitazione di questa tesi è quella
di L. Gerson, The Unity of Intellect in Aristotle’s De Anima, «Phronesis», 49, 4, 2004, pp.
348-373.
38
 S. Thomae Aquinatis, In Aristotelis Librum De Anima Commentarium, ed. M. Pirotta,
Marietti, Roma 1948, lib. iii, lectio 10.
39
 Cfr. F. Brentano, La psicologia di Aristotele. Con particolare riguardo alla dottrina del
nous poietikos, Quodlibet, Macerata 2008 (ed. or. 1867), parte iv; Id., Aristotele e la sua vi-
sione del mondo, Le Lettere, Firenze 2014 (ed. or. 1911).
40
  L. Gerson, op. cit.
41
  Così anche Trendelenburg, Brandis e moltissimi altri. Qui sorvolo sulle importanti diffe-
renze fra i vari fautori, medievali, moderni e contemporanei, dell’intelletto come parte dell’a-
nima umana, e mi concentro esclusivamente sull’aspetto che condividono.
42
  Cfr. S. Thomae Aquinatis, op. cit., lib. iii, Lectio 10.

56
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

bisce’ al modo in cui la materia adatta viene attualizzata dalla tec-


nica quanto alle forme che essa è in potenza. La capacità ricettiva
non basta a spiegare l’intellezione come il bronzo non basta a spie-
gare la statua, occorre un principio attivo che cagioni e spieghi l’at-
tualizzazione delle potenze.
Di 2) si potrebbe dare conto, sebbene con una qualche integra-
zione à la Tommaso: l’operare attivo o ‘spontaneo’ di questo intel-
letto in qualche modo ‘prepara’ gli oggetti (gli universali intellegi-
bili) che l’altro intelletto ‘diventa’, ricevendoli. 3) In realtà elenca
delle proprietà che già sono state attribuite all’intelletto passivo in Γ
443; l’unico novum è l’esser caratterizzato come in atto per essenza,
il quale sembrerebbe non poco problematico: se tale intelletto è una
parte dell’anima umana, sarà una capacità, e tutte le capacità pos-
sono essere in atto o meno, cosicché tale proprietà è ermeneutica-
mente sfavorevole al nostro candidato. 4) Non arreca problemi di
sorta, poiché il potere attivo di attualizzare l’intellegibile è superiore
a quello passivo di riceverlo, come la tecnica è superiore alla sua
materia. 5) è almeno altrettanto problematico dell’essere in atto per
essenza: se questo intelletto pensa sempre, ed è una parte della no-
stra anima, come è che non ce ne accorgiamo (per esempio, durante
il sonno)? 6) Si spiega al modo in cui si spiega la separatezza dell’in-
telletto passivo, se si intende ‘separato’ come non avente un organo
proprio, dunque come capacità non realizzata in una parte corpo-
rea; l’essere ‘proprio ciò che è’ in quanto sia separato, parimenti, in-
dicherebbe che la capacità di attualizzare gli intellegibili (facendoli
ricevere all’intelletto passivo) è come è, cioè universale e illimitata,
proprio in quanto tale attività non è espressione di un organo.
7) Si profila come un potente falsificatore per il nostro candi-
dato: sorvolando pure sul fatto che l’immortalità individuale è al-
cunché di estraneo all’ontologia aristotelica del vivente, visto che l’a-
nima è definita come “prima attualità di un corpo naturale che ha la
vita in potenza”44 e la stessa psicologia è considerata una parte della
fisica45, e pur accettando dunque la ‘cristianizzazione’ di Aristotele
che la lettura tomistica comporta, resta il fatto che l’intelletto attivo
non solo è detto immortale, ma anche eterno; se l’anima è generata
insieme al vivente di cui è anima, fosse anche immortale, comunque
non potrà essere eterna, ché precederebbe la sua stessa nascita. Ari-
stotele afferma apertis verbis che l’idea di una reincarnazione è as-
surda46, ma l’identificazione di un intelletto eterno con una parte

43
 Cfr. De An. Γ 4, 429 a 15 (impassibile), a 19 (non mescolato), b 6 (separato).
44
 [...] ντελεια  πρτη σματς υσικ δυνμει ων ντς (De An. B 1, 412 a
34-35).
45
 Cfr. De An. A 1, 403 a 27-29.
46
 Chi intende specificare la natura dell’anima indipendentemente dal corpo, non è in
grado di spiegare l’unità di anima e corpo, e parla come se qualunque anima potesse entrare e

57
Diego Zucca

della nostra anima implica nientemeno che l’impegno a questa assur-


dità. Veniamo a 8): perché l’esser eterna di una parte della nostra
anima importerebbe il nostro ‘non ricordare’? Qui un modo plau-
sibile per intendere il passo, sarebbe considerare che la memoria è
prestazione cognitiva dipendente dalla sensibilità e dalle impressioni
corporee ritenute dal soggetto percipiente: niente memoria, senza gli
organi sensibili; mentre la parte eterna dell’anima (l’intelletto attivo)
si rivolge a contenuti che attualizza ma non ricorda, perché non li
può ricordare; gli intellegibili, infatti, si ricordano solo per accidens,
per se si ricordano solo i particolari che ne sono esempi47.
Dunque, una parte di 3) (‘in atto per essenza’), 5) e 7) paiono
incompatibili con la lettura ‘individualista’ e ‘immanentista’ dell’in-
telletto attivo, che pure potrebbe dar conto di 1), 2), 4), 6), 8) e 9),
così come renderebbe in generale sensata l’introduzione di questo
intelletto entro un discorso sulla cognizione umana: infatti Γ 5 intro-
durrebbe una capacità cognitiva con un ruolo attivo nell’intellezione,
che integrerebbe, spiegandolo, il ruolo ricettivo dell’intelletto già di-
scusso in Γ 4.
Altri tentativi sono stati fatti, sul solco di questa tradizione erme-
neutica, per aggirarne le criticità: alcuni studiosi, per esempio, accet-
tano l’idea che l’intelletto attivo sia una parte dell’anima intellettiva
umana, che spiega i nostri meccanismi cognitivi, ma a costo di in-
tendere in modo non letterale i predicati dell’immortalità e dell’eter-
nità, o addirittura di trascurarli, lasciandoli inspiegati.
Barnes48 distingue la ricezione-acquisizione di concetti dal loro
esercizio o uso entro un giudizio. I giudizi sono sintesi di concetti,
e tale sintesi è attività del pensiero, che congiunge, appunto, con-
cetti o universali previamente acquisiti: mentre l’acquisizione di un
universale è passiva in quanto dipende dall’esposizione percettiva
a particolari sensibili, l’uso degli universali acquisiti entro giudizi e
inferenze, sarebbe una ulteriore, attiva prestazione intellettuale. Ma
2) (= c) afferma che l’intelletto attivo produce tutte quelle cose che
l’intelletto passivo diventa: ciò è falso, se ciò che l’uno produce sono
proposizioni e sintesi dianoematiche, mentre ciò che l’altro diventa
sono universali semplici, dunque tale variazione sulla lettura indi-
vidualista-immanentista non soddisfa 2)49. Inoltre, ponendo l’intel-

uscire da qualunque corpo; invece ogni anima ha un corpo proprio e appropriato (De An. A
3, 407 b 20-24). “Questi filosofi si esprimono come chi dicesse che l’arte del carpentiere entra
nei flauti” (24-26): ciascuna anima o capacità psichica ha un corpo adatto e proprio di cui è
attualità, da cui è indissociabile e senza cui, di conseguenza, non può esistere.
47
 Cfr. De Mem. et Rem. i, 450 a 22-26.
48
  Cfr. J. Barnes, Aristotle’s Concept of Mind, in J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji (a cura
di), Articles on Aristotle, iv, Duckworth, London 1979, pp. 32-41.
49
 Inoltre, in An. Post. ii 19 all’intelletto simpliciter è attribuito il possesso dei princìpi
primi, che sono sia ‘concetti’, o termini, che proposizioni che di questi termini si materiano.

58
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

letto attivo come una sorta di attualità seconda, cioè come esercizio
di abilità previamente acquisite (gli universali), non si spiega come
l’intelletto attivo sia descritto più come condizione, che conseguenza
dell’intelletto passivo; l’intelletto attivo precede e fonda quello pas-
sivo e ne è superiore, mentre i complessi giudicativi non precedono
né fondano l’acquisizione degli ingredienti del giudizio, dunque non
può essere il caso che l’intelletto attivo sia l’esercizio della capacità
sintetico-proposizionale mentre l’intelletto passivo è l’acquisizione
dei concetti da combinare. Inoltre, se l’intelletto attivo fosse l’eserci-
zio dei concetti entro un giudizio, cioè la capacità proposizionale di-
spiegata, allora l’essere ‘in atto per essenza’ (3) sarebbe banalizzato,
risultando nella vuota tautologia per cui l’esercizio di una capacità è
essenzialmente un esercizio.
Ad ogni modo, pare impresa ciclopica il conferire sensatezza
all’idea che l’esercizio della capacità proposizionale sia immortale ed
eterna: che significa, che il nostro esercizio dei concetti è eterno?
Anche Wedin50 interpreta l’intelletto attivo come prestazione
dell’anima individuale e, sulla scia ‘deflazionista’ di Barnes, tende
fatalmente a sottovalutare l’attribuzione di divinità, immortalità ed
eternità, nonché il linguaggio contrastivo che pone due intelletti e
un abisso ontologico fra di essi51. Secondo Wedin, l’intelletto attivo
spiegherebbe la capacità di riattualizzazione di universali già acqui-
siti, al modo seguente: a) il mio intelletto passivo ha acquisito l’uni-
versale [uomo] per via induttivo-percettiva (cfr. An. Post. ii 19) b) il
mio intelletto attivo riattiva, esercita tale concetto, entro un giudizio
e magari entro un’inferenza, e così facendo produce un universale
nell’intelletto passivo, che era quell’universale solo in potenza (ma
diversamente da come lo era in potenza prima di averlo acquisito):
cosicché l’intelletto attivo fa ripassare dalla potenza all’atto l’intel-
letto passivo in quanto serbatoio di concetti previamente acquisiti.
L’intelletto passivo sarebbe potenza ricettiva sia da parte dell’espe-
rienza, sia in absentia, in quanto attivabile dall’intelletto attivo e riat-
tualizzabile nella sua potenza52.

50
 Cfr. M. Wedin, Tracking Aristotle’s νς, in M. Durrant (ed. by), Aristotle’s De Anima
in Focus, Routledge, London 1993, pp. 128-161; Id., Aristotle on the Mechanics of Thought,
«Ancient Philosophy», 9, 1, 1989, pp. 67-86.
51
  τι τ μν/τερν δ (430 a 10-11),  μν/ δ (430 a 14), τς  νς (‘questo’, im-
plicitamente contrapposto a ‘quello’, 430 a 17), τ πιν/τ πσντς (l’uno superiore
all’altro, 430 a 19), ττ μνν (solo questo è immortale ed eterno, 430 a 23), ττ μν/ δ
παθητικς (questo è impassibile, l’intelletto passivo invece è corruttibile, 430 a 23-25).
52
 Le letture di Barnes e Wedin sono riconducibili allo stesso Alessandro, il quale di-
stingue un intelletto materiale (νς λικς) o potenziale (νς δυνμει), e un intelletto
come habitus (νς ιν ν) acquisibile che quando si esercita è intelletto in atto (νς
κατ’νργειαν, De An. 85.24 Bruns): l’intelletto come habitus è paragonato a un ripostiglio
per i pensieri in riposo (De An. 85.25-86.6 Bruns); solo che Alessandro si guarda bene dall’i-
dentificare il nostro intelletto in quanto κατ’νργειαν con l’intelletto attivo (πιητικς), come
fanno Barnes e Wedin imbattendosi in tutti i problemi che ho appena indicato.

59
Diego Zucca

Questa lettura ha l’apparente vantaggio di dare conto dell’in-


troduzione dell’intelletto attivo come spiegazione del meccanismo
del pensare da sé. Tuttavia essa presenta le stesse debolezze della
precedente: non rende giustizia della solennità con cui Aristotele
contrappone l’intelletto attivo, eterno immortale e incorruttibile, a
quello passivo, inoltre mi pare che trascuri il fatto che la capacità
di riattualizzarsi da sé è già assegnata, in Γ 4, all’intelletto passivo53:
donde, dunque, la necessità di ricorrere a un altro intelletto, visto
che l’intelletto appena indagato è già anche ‘attivo’?
Dunque è solo apparente il vantaggio per cui, entro questa let-
tura, l’intelletto attivo non sarebbe un deus ex machina dalla oscura
e ridondante funzione esplicativa: comunque lo sarebbe.
Anche queste varianti contemporanee della lettura immanenti-
sta-individualista, da ultimo, sono fortemente aporetiche: non sod-
disfano affatto alcuni dei predicati che Aristotele attribuisce all’in-
telletto attivo, nemmeno se soprassediamo sul fatto che divinità,
eternità, esser atto per essenza, dovrebbero essere, curiosamente,
solo delle enfasi retoriche, qualcosa che Aristotele non predica se-
riamente dell’oggetto che sta introducendo. Al contrario, quanto più
enfatica e solenne è l’aggettivazione, tanto meno convincente diventa
il non assegnarle un valore letterale e speculativamente pregnante.
Finora siamo alle prese con due grandi gruppi di interpreta-
zioni, entrambi fortemente problematici: pare che l’intelletto attivo
non possa essere letto, coerentemente, né come l’intelletto divino,
né come una parte dell’anima intellettiva individuale. Cos’altro po-
trebbe mai essere, dunque?

6.  Una ‘terza via’, che già fu presa in considerazione da Temi-


stio54 e Tommaso55 ma per essere poi scartata, è stata recentemente
riproposta, con rinnovato vigore argomentativo, da Berti56: l’intel-
letto attivo sarebbe l’abito dei princìpi, cioè “un possesso di verità,
un patrimonio di sapere appartenente da sempre, secondo Aristo-
tele, all’intera umanità”57. I princìpi primi delle scienze, in quanto
posseduti non da questo o quell’individuo, bensì dall’umanità in ge-
nerale, sarebbero l’intelletto attivo di Γ 5. Proviamo ora a vagliare la
plausibilità di questo nuovo candidato, sì da spiegare meglio la pro-
posta contestualmente alla sua valutazione in rapporto ai punti 1-9.

53
  In realtà, all’intelletto simpliciter: ma è altamente plausibile che l’intelletto di cui Aristo-
tele parla prima dell’introduzione dell’intelletto attivo, sia quello che solo dopo questa intro-
duzione si paleserà essere quello ‘passivo’.
54
  Cfr. Temistio, op. cit., 102, 30-35.
55
  Cfr. Tommaso, In Aristotelis..., cit., c. 729.
56
  Cfr. Berti, art. cit.
57
  Ibid., p. 6.

60
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

Cominciamo dai punti che sarebbero evidentemente soddisfatti:


è superiore all’altro intelletto (4) in quanto l’abito dei princìpi da
parte del genere umano è superiore alla capacità del singolo di ac-
quisire i princìpi e dunque di far proprio tale abito a livello indivi-
duale; non è che esso ora pensi e ora non pensi (5), ma non perché,
come la maggior parte degli interpreti ritiene, pensi sempre, bensì
perché non pensa affatto, non essendo una mente o un soggetto
pensante ma uno habitus, un possesso. Tale lettura collimerebbe an-
che col caveat aristotelico relativo all’ipostatizzazione del ν: non è
il ν a pensare, ma l’uomo, per mezzo del ν, che non è dunque
una sostanza58.
Questa interpretazione spiegherebbe bene anche 7), cioè l’im-
mortalità ed eternità: il genere umano, per Aristotele, è eterno ed
immortale, a differenza dei singoli individui, dunque la sua cogni-
zione dei princìpi  –  almeno attraverso alcuni individui59  –  sarà
anch’essa immortale ed eterna.
Cosa ha a che fare il suo essere immortale ed eterno col nostro
non ricordare? Si alluderebbe non già al fatto che dopo la morte
non ricordiamo ciò che ci è accaduto in vita  –  dopo la morte, per
Aristotele noi non siamo affatto!  –  ma al fatto che in questa nostra,
unica vita non ricordiamo i contenuti dell’intelletto attivo, bensì li
dobbiamo acquisire, dall’esperienza o da altri che li possiedono: il
possesso umano dei princìpi è eterno, ma noi no, e non possiamo
ricordare ciò che ha preceduto la nostra esistenza; se vogliamo dare
un senso antiplatonico a questa osservazione60, possiamo dire che
non è ricordandoli, che noi possediamo i princìpi, bensì altrimenti.
Che senza l’intelletto attivo, nulla pensi (9) ben si intende se si
traduce il pensare (νεν) nel senso pregnante del coglimento dei
princìpi-essenze: non è dato all’individuo cogliere i princìpi-essenze
senza l’intelletto attivo, cioè senza che tali princìpi siano già posse-
duti a livello generale, di umanità.
L’esser separato, impassibile, non commisto e atto per essenza
(3) sono ugualmente intellegibili: è separato nel senso che è indi-
pendente da ciascun individuo umano, anche se tale possesso è
continuo solo in quanto è esemplificato, di volta in volta, presso
individui membri del genere umano; al modo in cui l’eternità di
una specie vivente è garantita dalla continua esistenza di individui

58
 Cfr. De An. i 4, 408 b 2-16.
59
  L’acquisizione dei princìpi primi è una conquista intellettuale molto rara, è appannaggio
di pochissimi: l’uomo ordinario ha opinioni ed esperienze delle cose, ma non possiede scienza;
ogni scienza è dedotta dai princìpi primi del genere di cui è scienza, e tali princìpi sono de-
finizioni e assunzioni di esistenza delle entità definite: per esempio, la definizione di ‘retta’, o
di ‘superficie’ o di ‘triangolo’, e le assunzioni che queste entità esistono, saranno fra i princìpi
primi della geometria da cui i teoremi geometrici si dimostrano. Cfr. An. Post. i 2, 72 a 14-35.
60
  Cfr. Fronerotta, art. cit.

61
Diego Zucca

che si riproducono ma non sono eterni, così l’eternità del possesso


di princìpi dell’umanità è garantita dall’esserci, sempre, qualche
individuo che possiede i princìpi, ma è una eternità universale in-
dipendente e ‘separabile’ da questo o quell’individuo che ora pos-
siede i princìpi. Il possesso è impassibile come ogni stato cognitivo
o habitus, ed è ‘atto per essenza’ in quanto, appunto, è un pos-
sesso eterno e universale che non ha intermittenze, le ha solo a li-
vello di individui.
Tale intelletto sta al nostro intelletto come la tecnica sta alla sua
materia (1) in quanto il nostro intelletto è attualizzato attraverso
l’acquisizione dei princìpi, ma grazie all’essere, i princìpi medesimi,
già-da-sempre presso il genere umano di cui siamo membri tran-
seunti e corruttibili.
Produce tutte le cose che l’altro diventa (2), cioè l’attualità de-
gli intellegibili nel nostro intelletto: il nostro intelletto (‘passivo’) di-
venta certe forme in atto, e tale attualità è già propria, e da sempre,
dell’abito universale dei princìpi: il quale è già in atto ciò che dap-
prima il nostro intelletto è solo in potenza, al modo in cui la causa
motrice di un mutamento ha in atto quella forma che, nel terminus
a quo è solo in potenza nel paziente, e nel terminus ad quem diventa
in atto anche nel paziente.
Oltre a soddisfare 1-9, tale esegesi rende conto del fatto che
la differenza fra principio attivo e materia tipica della natura si dà
anche ‘nell’anima’: a patto di intendere ν τ ψυ (430 a 13) non
in senso, per così dire, locativo, cioè entro l’anima individuale, ma
nel senso più tematico, come “nell’ambito dell’anima umana in
generale”61; quanto all’anima umana in generale, la differenza fra
principio analogo alla tecnica, aspetto motore e attivo, e aspetto ma-
terico-passivo, si dà come differenza fra possesso universale dei prin-
cìpi-essenze, e possesso individuale degli stessi, ove il primo causa il
secondo come l’agente muove il paziente.
Altra importante virtù esplicativa di questa lettura, è il fatto
che essa spieghi in modo elegante e preciso un passo del testo che
talvolta viene addirittura espunto, nonostante i manoscritti più au-
torevoli, in quanto considerato come non pertinente62; si tratta di
g)  –  finora da noi tralasciato  –  ove si afferma che “la scienza in atto
è identica all’oggetto, invece la scienza in potenza è temporalmente
precedente nell’individuo, mentre in generale non lo è nemmeno
temporalmente” (430 a 19-21)63. Nelle cose senza materia, la scienza
in atto è identica al suo oggetto; ma nell’individuo ogni atto o eser-

  Cfr. Caston, art. cit., p. 205.


61

  Così fa Ross nell’edizione oxoniense succitata.


62

  Il passo è ripetuto in De An. Γ 7, 431 a 1-3.


63

62
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

cizio di una capacità segue, almeno secondo il tempo64, il preesistere


della capacità stessa: dunque l’intelletto passivo come capacità indi-
viduale, esiste in potenza al modo di una tabula rasa prima di acqui-
sire qualunque universale, poi passa all’atto, nell’acquisizione-rice-
zione. Il nostro passo aggiunge che ‘in generale’  –  ovverosia, non a
livello dell’individuo  –  nemmeno secondo il tempo la scienza in po-
tenza è anteriore a quella in atto: in effetti, anche secondo il tempo,
se si considera la cognizione umana in generale, il possesso dei
princìpi precede la capacità di acquisire i princìpi; il genere umano
è eterno, dunque i princìpi sono già-da-sempre da esso posseduti,
sono scienza in atto, la quale dunque precede anche temporalmente
la potenza di possederli. Se l’intelletto attivo è l’abito universale dei
princìpi da parte dell’umanità in generale, questo passo diventa cri-
stallino e tutt’altro che fuori posto, pace Ross.
L’altro passo che abbiamo prima tralasciato verte sull’immagine
della luce (d): tale intelletto sarebbe simile alla luce in quanto questa
rende colori in atto i colori in potenza: l’abito universale dei prin-
cìpi ‘illumina’ l’intelletto individuale attualizzando così la sua capa-
cità, e facendo diventare i princìpi intellegibili in potenza, princìpi
‘intelletti’ in atto.
I vantaggi di questa linea ermeneutica sono evidenti: nessuno
dei punti 1-9 risulta irrimediabilmente aporetico se il candidato è
l’abito dei princìpi primi posseduto dal genere umano; viene resa
giustizia alla contrapposizione fra i due intelletti, alla trascendenza
e separatezza, nonché all’eternità e all’immortalità, di quello attivo
rispetto a quello passivo, ma al contempo si rende perspicuo il ruolo
esplicativo di questo ulteriore intelletto entro l’indagine sui processi
dell’intellezione umana; si comprende perché questa differenza è
‘nell’anima’, in quanto riguarda l’ambito dell’anima, l’ambito psico-
logico in generale; e si conferisce un significato decisivo e pregnante
al riferimento alla priorità anche temporale della scienza in atto, ri-
ferimento altrimenti misterioso e pressoché imbarazzante per l’inter-
prete.
Nello spazio che mi resta, intendo avanzare qualche obiezione
alla brillante ipotesi di Berti, per poi proporne una variante che, a
mio modestissimo parere, renderebbe tale ‘modesta proposta’ ancora
più appetibile e scevra da quelle debolezze che anzitutto mi appre-
sto a indicare.

64
  In assoluto, o per natura, l’atto precede la potenza anche a livello dell’individuo. La po-
tenza c’è perché ha da esserci il suo atto: le capacità psichiche sono per natura teleologiche,
sono orientate al loro stesso esercizio, esistono per il loro esercizio.

63
Diego Zucca

7.  Ma il possesso dei princìpi primi da parte dell’umanità, sta


davvero alla nostra capacità intellettiva individuale al modo in cui la
tecnica sta alla sua materia (1)? E produce davvero proprio ciò che il
nostro intelletto diventa (2)?
La tecnica è causa motrice della materia, è latrice di forma: ep-
pure non pare che sia il possesso dei princìpi a livello di umanità, a
produrre nei nostri intelletti l’intellegibile: secondo il locus classicus
in cui si tematizza l’apprensione dei princìpi primi e degli universali
(An Post. ii 19), l’unica capacità presupposta alla ις, cioè allo stato
di possesso dei princìpi, è quella δναμις innata che è la percezione,
e il processo che ha come esito la ις suddetta, è la ‘induzione’
(παγωγ) a partire dall’esperienza percettiva, consistente nello sta-
bilizzarsi dell’universale nell’anima come una spontanea unificazione
del molteplice sensibile65. Nessuna menzione di altri poteri cognitivi
che non siano la percezione, la memoria, e la tendenza innata alla
‘generalizzazione’ percettiva che unifica il contenuto di molteplici
esperienze dello stesso: dunque, oltre ai particolari percepiti, sono
gli universali stessi a causare la loro stessa apprensione, senza me-
diazioni di sorta. Non sembra che il previo possesso in atto di tali
princìpi da parte del genere umano giochi alcun ruolo significativo:
certo, a livello didattico, l’insegnamento dei princìpi implica il tra-
sferimento di saperi, e anche di saperi sui princìpi primi, da chi già
li possiede a chi ancora non li possiede; il sapere è impresa collet-
tiva. Ma Aristotele non valorizza, in sede di discussione sulla cogni-
zione dei princìpi, questo aspetto intersoggettivo, e al limite ‘sociale’,
della cognizione. Si direbbe che questa interpretazione, come del re-
sto altre, necessita di pesanti integrazioni teoretiche che vanno ben
oltre la lettera del testo aristotelico, in De An. Γ 5, in An. Post. ii 19
come nel resto del corpus.
A più riprese, infatti, viene affermato che l’intellezione è un su-
bire dall’intellegibile stesso (π τ νητ)66, direttamente, non già
dal suo possesso da parte di altri o dell’umanità in generale.
Che il patrimonio delle verità e princìpi eterni in quanto posse-
duto dal genere umano sia ‘proprio ciò che è in quanto è separato’
(6), può ugualmente destare qualche perplessità: si direbbe piuttosto
che è proprio ciò che è in quanto non sia separato, dagli individui
che, di volta in volta, esemplificano e trasmettono tale possesso; non
vi è possesso dei princìpi ‘in generale’ se non in quanto vi è pos-

65
 Lo stato di possesso dell’universale sboccia dalla percezione stessa, “come in battaglia,
quando ha avuto luogo una rottura delle file, essendosi fermato un uomo un altro si ferma,
poi un altro ancora, finché non si giunge di nuovo al principio. E l’anima è tale da avere la
capacità di subire ciò” (An. Post. ii 19, 100 a 10-14): non presuppone che la capacità per-
cettiva, la quale in noi presenta, evidentemente, una originaria tendenza all’unificazione e alla
sintesi.
66
 Cfr. De An. iii 4, 429 a 14, Met. xii 7, 1072 a 30.

64
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

sesso dei princìpi da parte di qualche intelletto particolare, sebbene


non sia in quanto sono questo o quell’intelletto, che gli intelletti in-
dividuali inverano il possesso ‘in generale’.
Ma soprattutto, mi pare, a fare problema per questa lettura è
il requisito dell’eternità (7): Berti argomenta che, siccome il genere
umano per Aristotele è eterno, come tutte le altre specie, eterno sarà
anche il suo possesso dei princìpi primi. Eppure Aristotele mostra,
com’è noto, piena consapevolezza dell’avanzare progressivo della
conoscenza umana, compresa quella dei princìpi: infatti ritiene che
i filosofi ‘arcaici’ hanno solo intravisto i princìpi delle cose, ma in
modo opaco e confuso67; così come egli doveva essere ben conscio
del fatto che il sapere geometrico-matematico, sviluppatosi nel v-iv
secolo, è acquisizione che non era già data nel passato; non stride
forse, tutto ciò, con l’idea di un eterno possesso in atto dei princìpi,
da parte dell’umanità? Se la immortalità è requisito più plausibile,
posto che, una volta ‘scoperti’, i princìpi verranno trasmessi a nuovi
individui in indefinitum68, l’eternità è incompatibile col fatto che i
princìpi vengano ‘scoperti’ a un certo punto dell’avanzamento del
sapere umano e col fatto che Aristotele mostri coscienza di ciò.
La filosofia stessa, come anche la matematica e altre scienze teo­
retiche, ha avuto un’origine storica, preceduta dal mito che pure è
in un certo senso filosofico69, e non è pertanto cooriginaria al genere
umano, e Aristotele ne è tanto consapevole70, che produce una raffi-
nata diagnosi sociologica delle ragioni per cui i saperi teoretici sono
sorti in certi contesti sociopolitici piuttosto che in altri71.
Più in generale, porre l’eternità del possesso dei princìpi com-
porterebbe il teorizzare una sorta di ‘innatismo di specie’, non meno
misterioso di quell’innatismo individuale platonico che Aristotele
confuta e fa oggetto di un’ironia pressoché sprezzante72: in tal caso
nessun uomo avrebbe mai appreso i princìpi per la prima volta, se
non attraverso il previo possesso di questi da parte di altri. Visto

67
 Cfr. Met. i 10, 993 a 15-17: “la filosofia primitiva, infatti, pare che balbetti, essendo essa
giovane e ai suoi primi passi”. Cfr. Met. i 2, 982 b 11-23, ove è chiaro che gli uomini hanno
cominciato a filosofare solo a un certo momento. E il discorso sulla filosofia, come teoria delle
cause e dei princìpi, può essere esteso anche alle scienze coi loro princìpi.
68
  Aristotele è ben lungi dal pensare, come purtroppo siamo portati a fare noi, che la spe-
cie umana potrebbe smettere di esistere.
69
  Cfr. Cfr. Met. i 2, 982 a 18-19.
70
 Cfr. El. Soph. xxxiv, 183 b 17-184 b 8: vi si dice che “fra tutte le scoperte, alcune as-
sunte da altri, che furono precedentemente elaborate, hanno fatto un parziale progresso ad
opera di coloro che le hanno ereditate» (184 b 17-20); si aggiunge che la retorica ha fatto
molti progressi, accumulatisi attraverso Tisia, Trasimaco, Teodoro etc., e si osserva che invece,
quanto allo studio delle confutazioni sofistiche, prima di El. Soph. non c’era assolutamente
nulla. La produzione di nuovo sapere, propria di tutti i campi, mi pare incompatibile con l’e-
ternità dell’intelletto attivo, se quest’ultimo fosse un patrimonio eterno di sapere umano.
71
 Cfr. Met. i 2, 981 b 13-25.
72
 Cfr. Met. i 9, 993 a 1-2: “se poi [questa conoscenza] fosse innata, come potremmo pos-
sedere, senza accorgercene, la più elevata delle scienze?”.

65
Diego Zucca

che non nasciamo già coi princìpi, come voleva Platone, e nessuno
nasce coi princìpi inscritti nell’anima, come concepire questa eterna
prossimità dei princìpi al genere umano? Come concepire il fatto
che tutti quelli che apprendono i princìpi, li apprendono a un certo
punto della loro vita da parte di altri, ma nessuno li ha mai appresi
per la prima volta? Sono essi già da sempre ‘in circolo’?
Questi rilievi mostrano che anche questa audace interpretazione
non è completamente soddisfacente, nonostante le sue indiscutibili
virtù, compresa quella di valorizzare il passo vertente sulla prio-
rità anche temporale della scienza in atto: il candidato che propone
non soddisfa appieno i requisiti 1), 2), 6) e soprattutto 7) (requisito
dell’eternità). Tuttavia, forse una sua variante potrebbe ovviare a
queste debolezze, o perlomeno a qualcuna di esse.

8.  La variante che ne propongo è una semplificazione drastica:


l’intelletto attivo non è l’abito o possesso dei princìpi, nemmeno a
livello di genere umano, ma si identifica con lo stesso insieme dei
princìpi e delle verità prime. Coi princìpi stessi e non, dunque, col
loro possesso umano.
Indubbiamente l’insieme dei princìpi primi è ‘produttivo’ di ciò
di cui il nostro intelletto individuale è ricettivo, ché i princìpi primi
sono l’oggetto precipuo dell’intelletto, e l’eccellenza dell’intelletto è,
appunto, acquisire tali princìpi73. Dunque 2) sarebbe spiegato. L’og-
getto dell’intelletto produce la sua stessa ricezione da parte dell’in-
telletto, come la forma percepibile è anche causa del suo stesso es-
sere percepita. Dunque anche il requisito 1) è soddisfatto: l’insieme
dei princìpi informa di sé l’intelletto individuale, ‘passivo’, in modo
analogo a come la tecnica informa la materia adatta, ricettiva, ap-
punto, della forma. L’oggetto dell’intelletto è già in atto ciò che esso
è solo in potenza.
L’insieme dei princìpi e delle verità prime è anche separato, im-
passibile e non commisto: i princìpi sono tali indipendentemente
dall’esser esemplificati da questo o da quel particolare, anche se non
sono ‘separati’ nel senso ontologico forte delle Forme platoniche74; il
fatto che il nostro intelletto debba essere separato, impassibile e non
commisto dipende dal fatto che il suo oggetto è tale, e il principio

73
 Come capacità di ricezione dell’universale, l’intelletto è responsabile dell’attività con-
cettuale, proposizionale ed inferenziale in generale: anche i pensieri falsi, o le opinioni, o le
inferenze non scientifiche, sono comunque prestazioni cognitive dell’intelletto; ma esso, nella
sua eccellenza, è anzitutto coglimento dei princìpi primi e propri delle scienze e, in secondo
luogo, capacità di inferire deduttivamente gli attributi necessari dei generi di cui le scienze
sono scienze, a partire dai rispettivi princìpi propri. I princìpi primi sono proposizioni e ter-
mini che le materiano: se i princìpi primi sono universali, non tutti gli universali sono princìpi
primi; se tutti gli uomini hanno intelletto, non tutti gli uomini acquisiscono scienza, infatti
solo alcuni, fra gli uomini, realizzano l’eccellenza cognitiva dell’intelletto.
74
  Almeno, secondo il modo più diffuso di interpretare le Forme platoniche.

66
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

cognitivo, per poter ricevere il suo oggetto, deve essergli, per così
dire, connaturale.
Che dire dell’essere in atto per essenza, ultimo attributo del
punto 3)? Per i princìpi e le verità prime, essere ‘in atto’ significa
semplicemente essere veri, avere realtà attuale come struttura for-
male dell’universo. Sono essenzialmente in atto poiché sono sempre,
e necessariamente, veri e ‘reali’.
è evidente che l’oggetto precipuo dell’intelletto, le obbiettive
real­tà formali che esso coglie, gli siano superiori (4), come lo scibile
è sempre superiore alla scienza, che da questo è misurata75.
Che non sia il caso che ora pensi e ora non pensi (5), si com-
prende, visto che il nostro candidato non pensa punto, non essendo
un soggetto cognitivo o una mente: si tratta dell’oggetto che in pri-
mis attualizza le menti, piuttosto; i princìpi primi sono sempre veri,
sempre attuali, è solo il nostro intelletto che ‘ora li pensa, e ora non
li pensa’, mentre essi sussistono, nella loro realtà, anche quando non
siano colti. Perciò tale intelletto è ‘proprio ciò che è in quanto sia
separato’ (5), proprio perché la verità dei princìpi, il loro essere ciò
che sono, non è dipendente dal fatto che questo o quell’intelletto in-
dividuale sia da essi attualizzato o informato: la separatezza di tale
oggetto è la sua sussistenza, realtà, verità, in quanto indipendente
dalla notizia, o cognizione, che noi possiamo averne. Pur essendo
essenzialmente conoscibili, non è l’esser conosciuti di fatto, che dà
loro realtà.
Il punto 7), problematico per altre letture, è per noi chiarissimo:
solo l’insieme dei princìpi primi è immortale ed eterno  –  esiste, iden-
tico a sé, da sempre e per sempre  –  di contro ai nostri intelletti, cor-
ruttibili, che nascono, muoiono, e anche quando esistono colgono i
princìpi in modo discontinuo, intermittente76. I nostri mortali intelletti
si rivolgono a verità eterne che li precedono e gli succederanno: que-
ste verità ‘scientifiche’ sono dedotte, dalle scienze, a partire dai prin-
cìpi primi.
L’eternità e immortalità di tale intelletto di contro alla corrut-
tibilità del nostro spiega il nostro non ricordare (8), perché non è
ricordandoli  –  pace Platone  –  che possediamo i princìpi, infatti dob-

75
 Cfr. Met. v 15, 1020 b 30-33: la scienza e lo scibile sono dei relativi, poiché il secondo
misura la prima.
76
  Temistio (102, 33-35) considera en passant l’idea che l’intelletto attivo consista nei prin-
cìpi delle scienze, ma la scarta in modo troppo sbrigativo dicendo che coloro che la sosten-
gono sono “storditi” e “sordi” alle parole del filosofo quando quest’ultimo dice che “questo
intelletto è divino e impassibile, che la sua essenza è identica all’atto, e che solo questo è im-
mortale, eterno e separato”: ma i princìpi primi delle scienze sono immortali, eterni e ‘sepa-
rati’, in quanto verità eterne sono ‘divini’, in quanto sono sempre veri sono, in questo senso,
sempre in atto ed essenzialmente in atto. Neppure Berti valuta la proposta di Temistio come
tale, ma ne propone direttamente una integrazione, identificando questo intelletto non già coi
princìpi primi, bensì col loro possesso da parte del genere umano.

67
Diego Zucca

biamo acquisirli attraverso l’esperienza e l’induzione (An. Post. ii


19). La nostra anima non è eterna, a differenza di questo suo og-
getto: inoltre, ricordiamo solo i particolari sensibili, giacché la me-
moria è traccia fisica ritenuta da percezioni pregresse77, mentre l’in-
tellegibile si può caso mai riattualizzare, ma mai ricordare. Dunque
da un lato il nostro giungere al possesso dei princìpi non è un ram-
memorare, ma un acquisire a partire da uno stato di non possesso; e
neppure l’esercizio o la contemplazione degli intellegibili già acqui-
siti, è un ricordare: i contenuti formali, eterni, universali non pos-
sono essere, per la loro stessa natura, ricordati, ma solo riattualizzati,
per così dire ‘ricevuti’ in modo rinnovato.
Che senza di esso, nulla pensi (9), specie se si intende questa
occorrenza di νεν nel senso pregnante di ‘intellezione delle essen-
ze’78, è conseguenza necessaria di tutto ciò che si è detto: solo l’esi-
stenza, la realtà indipendente ed eterna dei princìpi primi, può farci
cogliere le essenze, che dai princìpi primi dipendono79. Senza il suo
oggetto primario e più alto, il nostro intelletto non sarebbe attualiz-
zato, perlomeno nella sua funzione di eccellenza cognitiva.
Il senso in cui la differenza fra principio attivo-produttivo e
principio passivo-ricettivo è ‘nell’anima’, è il fatto che, nell’ambito
dell’anima intellettiva, si dà una differenza fra il soggetto cognitivo,
e il suo oggetto proprio: l’anima è corruttibile, potenza di forme,
capacità, mentre i princìpi cui essa è aperta sono eterni, immortali,
divini, attuali per essenza, tali da poter informare l’anima di sé, fa-
cendosi ‘ricevere’ e attualizzare, sebbene in modo intermittente e pro
tempore.
Questa lettura, inoltre, rende bene giustizia del linguaggio con-
trastivo con cui si parla dei due intelletti: i due intelletti sono due
realtà diverse, il nostro intelletto da una parte, e il suo oggetto più
alto dall’altra.
Che funzione ha, in questo contesto, l’osservare che la scienza
in atto è identica all’oggetto, e quella in potenza è temporalmente
precedente nell’individuo ma in generale non lo è nemmeno tempo-
ralmente (g)?
Quando contempliamo delle verità eterne, noi come intelletti di-
ventiamo identici all’oggetto contemplato: nelle cose senza materia,
come sono le essenze intellegibili, la cognizione in atto è identica
simpliciter all’oggetto. Per questo, identificandoci in toto con un og-

77
 Cfr. De Mem. et Rem. 1, 450 a 28-33.
78
  Così, per esempio, Berti, art. cit.
79
  L’essenza di un oggetto X di un certo genere, per esempio di un certo animale, sarà una
specie colta da una definizione per genus et differentiam, e si può risalire a un genere supe-
riore [animale], che appartiene al genere [vivente] secondo la differenza [percipiente], su su
sino a [vivente], che è l’oggetto più generale della biologia, e la cui essenza sarà pertanto un
principio primo della biologia.

68
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

getto eterno e divino80, in quanto intelletti diventiamo, sebbene pro


tempore, eterni e divini al modo dell’oggetto contemplato, e in certo
senso trascendiamo non solo la nostra temporalità, ma anche la no-
stra individualità81.
L’atto psichico soggettivo individuale, in questa identificazione,
diventa irrilevante, rispetto all’identificazione con tali contenuti: il
mio intelletto, contemplando i princìpi, diventa identico a qualun-
que altro intelletto li contempli, e l’intelletto in generale diventa il
suo oggetto.
Si consideri il teorema di Pitagora, che pure non è un princi-
pio primo della geometria bensì un teorema dedotto, da ultimo, a
partire dai princìpi primi della geometria: quando apprendo e con-
templo tale teorema, il mio intelletto è il teorema di Pitagora, e il
teorema di Pitagora non è altro dal pensiero che è oggetto del mio
‘pensare’ individuale: è un pensiero oggettivo, si direbbe con un lin-
guaggio non certo aristotelico. Contemplare tale contenuto significa
identificarcisi, letteralmente.
Dunque sia le letture dualiste, per cui ci sono due intelletti se-
parati (es. il nostro intelletto, e quello divino) e quelle moniste, per
cui anche l’intelletto attivo è una parte del nostro, sono entrambe
fuorvianti: gli intelletti sono diversi, uno è eterno e divino e l’altro è
corruttibile e transeunte, ma l’uno può diventare l’altro e assurgere,
paradossalmente, a uno status divino ed eterno sebbene temporaneo.
Naturalmente l’intelletto attivo è sé anche a prescindere da questa
identificazione, mentre l’intelletto ‘passivo’, senza tale identificazione
col suo oggetto, è mera capacità, o potenza.
Un senso pregnante in cui la differenza fra i due intelletti è ‘nell’a-
nima’, è che l’anima può diventare i princìpi: non si tratta né dell’a-
nima individuale in quanto è tale, né dell’anima umana in generale,
bensì dell’anima intellettiva individuale ma solo in quanto è tempora-
neamente identificabile con quei contenuti oggettivi che sono i prin-
cìpi primi. Anche l’intelletto attivo può essere ‘nell’anima’.
Dal punto di vista individuale, la nostra capacità di accogliere i
princìpi precede, temporalmente, il suo esercizio, sebbene ‘per na-
tura’ l’atto preceda la potenza anche a livello individuale: una capa-
cità c’è, ed è come è, per il suo esercizio; tutti i poteri psichici sono
capacità teleologicamente orientate82, e la loro funzione è individuata

80
 Le verità prime, in quanto eterne e necessarie, sono ‘divine’, senza essere, ovviamente,
delle divinità.
81
 Cfr. Et. Nic. x 7, 1177 b 26-33: la vita secondo l’intelletto è divina, e nell’attività intel-
lettiva ci “rendiamo eterni”, coltivando la parte di noi che è più divina e che ogni uomo è
‘specialmente’.
82
  La natura è analoga a un medico che cura sé stesso (Phys. ii 8, 199 a 30-32), e le parti
corporee del vivente sono strumentali al vivente come un tutto (cfr. De Part. An. i 1, 642 a
12-13; Pol. i 2, 1253 a 25). Tutte le attività vitali, cognitive e locomotorie – dunque tutte le
capacità psichiche – sono finalizzate alla sopravvivenza e al bene (cfr. De An. Γ 12-13).

69
Diego Zucca

dalla loro attività, piuttosto che viceversa. Ma ‘in generale’, nem-


meno secondo il tempo, si dice, la scienza in potenza precede quella
in atto. L’atto che, ‘in generale’, precede la capacità della scienza, a
mio avviso è l’esser in atto dei princìpi primi stessi, l’esser veri come
princìpi ontologici che sono, perciò stesso, anche princìpi cognitivi.
Qui la relazione fra la scienza e il suo oggetto è utilizzata per
istituire una analogia fra l’intelletto e i suoi oggetti primi che sono
i princìpi: i princìpi sono già ‘in atto’, reali, sussistenti come verità,
prima di essere conosciuti-intelletti, e questo essere reali, attuali, è
una specie di originario possedersi: un esser già in atto ciò che i no-
stri intelletti diventano, quanto contemplano i princìpi.
È bene riconoscere che il passo sulla scienza in atto, in questa
interpretazione, si spiega in modo meno lineare, e meno trasparente,
del modo in cui si spiega entro la idea riproposta da Berti: se l’intel-
letto attivo fosse abito dei princìpi, l’esser come la scienza in atto e
il precedere temporalmente la potenza (come non accade nell’indi-
viduo), avrebbe un significato più immediato e diretto; ma è anche
vero che le opzioni interpretative vanno soppesate in modo compa-
rativo e globale, secondo tutti i loro pro e contro, e secondo quante
cose riescono a spiegare, e quanto bene riescono a farlo.
Se l’intelletto attivo è l’insieme dei princìpi primi, esso va di-
stinto dall’intelletto che è parte, pur eccellente e ‘divina’83, dell’anima
umana: è solo quest’ultimo ad essere un habitus, come è chiaro sia da
De An. Γ 4 che da An. Post. ii 19; il nostro intelletto è pura potenza
ricettiva degli universali, ma anche capacità di possesso riattivabile
di essi, come è esplicito già in Γ 4. Il nostro intelletto ha un aspetto
passivo e uno attivo, ma il suo aspetto attivo non ha a che fare con
l’intelletto attivo, bensì con la natura stessa degli universali, acquisibili
e riesercitabili, poiché essi restano ‘nell’anima’ in un modo in cui gli
oggetti percepiti non possono restare84. Che il nostro intelletto sia qui
caratterizzato come παθητικς85 di contro a quello agente, non implica
che esso sia meramente passivo: Aristotele ne enfatizza la passività
quando lo contrasta con l’insieme dei princìpi, che è puramente attivo
nei confronti del nostro intelletto e non subisce alcunché da esso86

83
  Già in De An. A 4, 408 b 29 il nostro ν è caratterizzato come divino.
84
 Cfr. De An. B 5, 417 b 18-26.
85
  De An. Γ 5, 430 a 24.
86
 Del resto, anche in altri contesti Aristotele caratterizza qualcosa in modo diverso a se-
conda del termine con cui il qualcosa viene rapportato: gli animali capaci di locomozione
muovono sé stessi, sono automotori se rapportati a piante e animali senza locomozione, ma
sono mossi dall’ambiente, se rapportati quell’automotore par excellence che è il motore im-
mobile (cfr. Phys. vii 3, 4, 6); le piante sono viventi di contro agli enti naturali inanimati, ma
paiono quasi non viventi, se rapportati agli animali: “la natura passa per gradi dall’animato
all’inanimato, risulta nascosta la linea di demarcazione che li separa. La pianta sembra ani-
mata nei confronti degli altri corpi naturali, ma inanimata in rapporto al genere degli animali”
(Hist. An. viii 1, 588 b 4-7).

70
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

nella relazione asimmetrica in cui il primo è agente e il secondo è pa-


ziente: il mutamento è sempre nel paziente87.
Resta da dire qualcosa sull’immagine della luce (d), altro punto
che abbiamo tralasciato: si dice che questo intelletto produce tutte
le cose che l’altro diventa, “come una certa ις simile alla luce; in-
fatti [la luce] in un certo modo fa diventare i colori in potenza co-
lori in atto” (430 a 15-17).
Rileviamo anzitutto che qui non si dice che l’intelletto attivo sia
una ις, ma che è simile a una ις88, a quella in cui consiste la luce:
e la luce, cui l’intelletto è analogo, non è certo una ις nel senso di
un habitus acquisito, come è il nostro intelletto, bensì lo è nel senso
di una disposizione, di una capacità naturale. Qui il senso di ις è
generico, non è contrapposto a δναμις. Dunque questa analogia da
un lato non è una identità, dall’altro il termine dell’analogia non è
l’essere un habitus acquisito, pertanto il passo non deve affatto incli-
narci a pensare che l’intelletto attivo sia posto come un habitus.
La luce è atto del trasparente89, il colore è visibile perché la sua
natura è l’esser capace di muovere il trasparente in atto90, perciò
non si vede se non con la luce91: questa è condizione di visibilità,
senza cui i colori sono solo in potenza, al modo in cui, senza l’intel-
letto, gli intellegibili esistono solo in potenza. Ma esiste una attualità
prima, come l’aver acquisito un universale, e un’attualità seconda,
come l’esercitarlo; l’attualità prima è poi una potenza seconda, po-
tenza dell’esercizio. Secondo questa distinzione, forse possiamo valo-
rizzare l’analogia della luce in modo più articolato:

IA Intelletto Agente IA
potenza prima → attualità prima = potenza seconda → attualità seconda
poter acquisire un universale U → possedere U → esercitare U

L Luce L
potenza prima → attualità prima = potenza seconda → attualità seconda
poter divenire visibile → essere divenuto visibile → essere visto

Possedere un universale è attualità rispetto alla capacità di acqui-


sirlo, ma è potenzialità rispetto alla capacità di esercitarlo: null’altro
significa, dire che tale possesso è potenza seconda e attualità prima:

87
 Cfr. Phys. iii 3, 202 a 31-34.
88
 Anche la percezione (cfr. De An. B 5) viene paragonata a una ις ma non è una ις.
Come la scienza è capacità acquisita e la contemplazione suo esercizio, così la percezione è
capacità – naturale e non acquisita  – che si esprime in esercizi.
89
  De An. B 7, 418 b 9-10.
90
  De An. B 7, 418 a 26.
91
  De An. B 7, 419 a 9-11.

71
Diego Zucca

lo stesso stato può essere atto e potenza, ma di cose diverse, dunque


sotto rispetti diversi.
L’intelletto attivo spiega anzitutto la nostra ricezione dell’uni-
versale: è ciò che propriamente è ricevuto, e che dunque causa la
sua stessa ricezione, come il colore dell’oggetto ambientale che vedo
causa il suo stesso esser visto92. Ma mediatamente, l’intelletto attivo
spiega anche la nostra capacità di riattualizzare l’universale, giacché
riattualizzarlo è come riceverlo di nuovo.
La luce spiega la capacità del colore di essere visibile: questa è
una sorta di potenza prima del colore, cioè la capacità di divenire
capace di esser visto. Grazie alla luce il colore è visibile, e tale visi-
bilità è una sorta di potenza seconda, o attualità prima, del colore: è
attualità della visibilità, ma potenzialità, o capacità, dell’essere visto.
Ora, come la luce cagiona e spiega sia l’essere visibile del colore che
il suo essere visto (attualità seconda), così l’intelletto attivo cagiona
e spiega sia l’essere intellegibili degli universali e dei princìpi, sia il
loro essere intelletti, colti dai nostri intelletti.
L’intellegibile è tale in due sensi: o perché l’abbiamo già acqui-
sito e possiamo ricontemplarlo, o perché possiamo acquisirlo, e l’in-
telletto attivo cagiona e spiega questi due tipi di intellegibilità, dun-
que anche l’intellezione ‘di fatto’, sia come acquisizione primaria che
come riattualizzazione.
Ora, la luce è principio di visibilità, l’intelletto attivo è principio
di intellegibilità: nella nostra lettura, l’intelletto attivo è un siffatto
principio perché è lo stesso intellegibile in quanto è tale, cioè l’og-
getto stesso dell’intelletto93, causa del suo essere appreso dall’intel-
letto medesimo, cioè da noi.
iii 5 ci conferma che il primo principio di intellegibilità, sono gli
intellegibili stessi, i princìpi primi e le essenze oggettive da cui de-
rivano le scienze, cioè l’oggetto più nobile e, in certo senso, la ‘ve-
rità’ della nostra stessa capacità intellettiva. Essi sono i primi agenti
di tale capacità, e illuminano di sé i nostri intelletti94. E sono sempre
in atto come una sorta di attualità prima, cioè come disponibilità
all’intellezione da parte nostra, capacità di essere ricevuti, acquisiti
e contemplati dai nostri intelletti individuali. La ‘loro’ attualità se-
conda coincide con l’attualità seconda del nostro intelletto, quando

92
 Il colore è reso visibile dalla luce, mentre i princìpi sono sia il conoscibile sia ciò che
rende il conoscibile tale: sono resi visibili da sé medesimi, sono luce che si autoillumina, giac-
ché sono l’originariamente intellegibile. Come spesso accade in Aristotele, le analogie sono in-
formative anche grazie alle differenze che emergono fra i loro termini.
93
  Non qualsivoglia intellegibile, ma quel sottoinsieme degli intellegibili che sono le essenze
e i princìpi primi.
94
  Un po’ come il Sole nell’immagine platonica della caverna, il quale è ad un tempo prin-
cipio ontologico e cognitivo.

72
Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

li contempli: ma è una attualità che ha luogo in noi e non è essen-


ziale ai princìpi.
Altrove Aristotele esclude che il motore immobile pensi qualcosa
di diverso da sé perché in tal caso ci sarebbe qualcosa di più ‘de-
gno di onore’ (τιμιτερν) di esso, cioè il suo oggetto95: ove è chiaro
che l’oggetto di un pensiero è ritenuto più degno di onore del pen-
siero stesso, ciò da cui quest’ultimo trae il suo esser ‘degno d’onore’.
Nel nostro testo si dice che l’intelletto attivo è più ‘degno di onore’
(τιμιτερν) di quello passivo: questo parallelismo anche termino-
logico rafforza l’idea che l’intelletto attivo sia proprio l’oggetto più
alto dell’intelletto passivo, donde l’intelletto passivo deriva la sua
stessa ‘dignità’. Un principio cognitivo è più o meno ‘degno’ in rap-
porto alla dignità del suo oggetto, ed è per questo che v’è un senso
in cui anche il nostro intelletto è cosa divina: le verità prime hanno i
caratteri tradizionali del divino: eternità, immortalità, incorruttibilità,
assoluta realtà.
Una perplessità che è naturale che emerga, di fronte a questa
interpretazione, è la seguente: perché mai Aristotele dovrebbe qua-
lificare l’insieme dei princìpi e delle verità prime come ‘intelletto’?
Perché porre come ν quelle strutture oggettive, formali che sono
piuttosto dei νητ?
Ebbene, una risposta davvero soddisfacente non v’è. Aristotele
resta, da ultimo, solidale con Platone nell’idea di una necessaria e
originaria connaturalità fra principio cognitivo e oggetto conosciuto:
come lo scibile sarà connaturale alla scienza, i princìpi primi, il pen-
sabile par excellence, saranno connaturali al principio che li coglie e
conosce; i princìpi primi sono ν in quanto sono da ultimo il prin-
cipio di pensabilità, di intellegibilità di ogni cosa, e sono a noi noti in
quanto noi, col nostro ν vi ci identifichiamo, ‘diventandoli’: la loro
natura sarà dunque quella cui abbiamo accesso quando il nostro ν
è attivo nei loro confronti, possedendoli e facendovisi identico. Sono
universali e ‘senza materia’ come lo è il pensiero, e saranno caratte-
rizzabili come ν in quanto sono ciò che rende verace, ‘oggettivo’,
universale e, in qualche modo, eterno il nostro ν.
A ben vedere, più che una variante della proposta di Berti, la
proposta qui elaborata può essere concepita come una variante di
quella di Alessandro: con Alessandro, la nostra anima  –  compreso
il nostro intelletto  –  è mortale96, mentre l’intelletto attivo è esterno
a noi e distinto da noi97, e cagiona o produce la nostra intelle-

95
 Cfr. Met. xii 9, 1074 b 29-32.
96
 Sulla mortalità dell’anima tutta, come conseguente alla definizione aristotelica dell’a-
nima come attualità di un corpo, Alessandro insiste nella prima parte del suo De Anima (1-26
Bruns): solo i corpi celesti sono immortali ed eterni.
97
 L’intelletto agente, afferma Alessandro, è esterno (θραθν), viene ad essere in noi dal
di fuori (ωθεν) ed è separato da noi (ωριστς μν) (De Intellectu, 108.21-26 Bruns).

73
Diego Zucca

zione98. Ma è l’insieme dei princìpi primi, non il motore immobile:


se quest’ultimo è una sostanza particolare99, l’intelletto attivo non è
né una sostanza, né un particolare.

9.  Richiamata l’indagine aristotelica sul nostro intelletto in De


An. Γ 4, ho presentato in modo sommario due grandi gruppi di in-
terpretazioni dell’intelletto attivo introdotto in De An. Γ 5, ciascuno
dei quali risale a commentatori antichi e ha difensori  –  con tutte le
varianti del caso  –  fra quelli medievali, moderni e contemporanei.
Secondo gli uni l’intelletto attivo sarebbe da identificare con l’intelli-
genza divina, un particolare separato e trascendente, secondo gli al-
tri sarebbe invece una parte dell’anima umana.
Enucleando in sequenza tutti gli attributi che Γ 5 predica dell’in-
telletto attivo, ho mostrato che né le interpretazioni del primo
gruppo, né quelle del secondo, sono soddisfacenti: entrambe le let-
ture cozzano palesemente con la lettera del testo e con altre teorie
ben attestate nel corpus, e sono perciò irrimediabilmente aporetiche.
Solo pesanti forzature ermeneutiche o integrazioni teoretiche non
aristoteliche potrebbero salvarne la coerenza100.
Ho poi considerato una terza opzione, finemente riproposta da
Berti, secondo cui l’intelletto attivo sarebbe il possesso dei princìpi
primi da parte del genere umano: avendo sottolineato i molteplici
vantaggi di questa opzione, ho anche sollevato alcune perplessità e
obiezioni, specie in merito alla presunta eternità del possesso dei
princìpi da parte del genere umano, e in merito ad altri aspetti.
Infine, sulla scia della proposta di Berti, ho articolato una ver-
sione semplificata di questa proposta, consistente nell’identificare
l’intelletto attivo non già col possesso dei princìpi primi, bensì coi
princìpi primi simpliciter. Tale semplificazione è in realtà un par-
ziale recupero della posizione di Alessandro, secondo cui l’intelletto
agente è esterno a noi, altro da noi, e non è come tale un nostro
possesso: solo che non si tratta di una sostanza particolare, quale è il
primo motore immobile.
Ho testato questa ipotesi sulla base dei predicati con cui si ca-
ratterizza l’intelletto agente in De Anima Γ 5 e ho mostrato, attri-

98
 L’intelletto agente “rende l’intelletto potenziale e materiale intelletto in atto” (De Intel-
lectu, 107.32-34 Bruns) ed “è produttore del pensare ed è lui a condurre all’atto l’intelletto
materiale” (De Intellectu, 108.1-2 Bruns).
99
 È definito da Alessandro “la sostanza incorruttibile priva di materia” (De Intellectu,
108.29), espressione che rimanda chiaramente a Met. xii 6, 1071 b 20-21 e dunque al primo
motore immobile: una sostanza separata individua.
100
 Per questo non ho neppure preso in considerazione le grandi interpretazioni di tradi-
zione araba (Averroè e Avicenna) in quanto, nonostante il loro intrinseco interesse storico e
filosofico, contengono sviluppi teoretici che nulla hanno a che fare con Aristotele. Sarebbe
dunque fuorviante chiamarle in causa quando ciò che si ha in animo, è di penetrare al meglio
il testo aristotelico nel suo significato originario.

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Di cosa parla De Anima Γ 5? Una modestissima proposta

buto per attributo, che questo candidato si palesa essere il più sod-
disfacente e il più esplicativo, sia dal un punto di vista esegetico che
da quello teoretico.
Naturalmente, anche questa interpretazione ha le sue debolezze
e può destare perplessità, soprattutto in quanto non è immediata-
mente chiaro perché i princìpi primi debbano esser qualificati come
ν.
Ma tutte le interpretazioni di De Anima Γ 5, fatalmente, presen-
tano aspetti claudicanti: e considerando questa proposta compara-
tivamente, sulla base dei vantaggi e svantaggi delle altre interpreta-
zioni ‘classiche’ e non, mi pare che essa risulti perlomeno degna di
considerazione e di approfondimento.

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