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METODOLOGIE DI STUDIO DELLA CERAMICA

Materiali e tecniche di fabbricazione


Enrico Giannichedda, Nicoletta Volante
Introduzione
Scrivere alcune decine di cartelle a carattere didattico e didascalico su Materiali e tecniche di
fabbricazione della ceramica è un’operazione tanto importante per orientare il futuro lavoro di quegli
studenti che si apprestano a divenire archeologi e storici della cultura materiale quanto è, al tempo
stesso, un’incitazione al “copia e incolla” informatico da precedenti lavori o al plagio più o meno
raffinato. Sulla ceramica e sulla sua tecnologia è difatti già stato scritto moltissimo e ovviamente
con inevitabili ripetizioni tanto più frequenti quanto più l’argomento è affrontato in chiave
generale e introduttiva. Essendo il “copia e incolla” operazione piuttosto avvilente e il plagio
rimanendo un reato, si è deciso di procedere in questa operazione nel modo più didascalico
possibile che, se non esclude totalmente quanto sopra, perlomeno dovrebbe consentire un
risultato diverso sia dal punto di vista espositivo sia per il tipo di fruizione a cui si presta. Questo
nella speranza che il mezzo informatico renda possibile l’intervento del lettore se non sul testo,
che in questa fase è redatto in forma tradizionale, perlomeno su una tabella (tab. 1) che si ipotizza
poter funzionare da guida (e che per questo d’ora innanzi sarà detta Tabella–Guida) che nulla
esclude divenga, con il tempo e l’aiuto di esperti informatici, una sorta di ipertesto in cui ogni
studente possa costruire un percorso consono ai propri obiettivi. Percorso eventualmente
allargabile all’intero mondo della produzione ceramica (dalle statuine paleolitiche alle ceramiche
industriali) ma, più ragionevolmente, limitabile a determinati periodi storici, a specifici problemi
di ricerca, agli usi e consumi dei singoli studenti.
Prima di entrare nel vivo del tema Materiali e tecniche di fabbricazione della ceramica e di discutere della
Tabella–Guida di cui si è detto, si ritiene in questa sede utile fornire alcune indicazioni più
generali che spieghino i motivi per cui si ritiene importante lo studio archeologico delle
ceramiche, la storia dei diversi modi di guardare a tali reperti, il nostro privilegiare una certa
impostazione di questo lavoro. Anche questo viene fatto in forma estremamente breve, mirando
ad evidenziare i nessi logici di quanto si propone e a favorire una rapida leggibilità del tutto, così
che anche affermazioni note ai più possano essere scorse senza eccessiva noia e ragionate per
quel che valgono (forse non tutte sono note e non tutte sono ovvie). Ricordiamoci che secondo
un noto studioso americano, frequentemente citato al riguardo, gli archeologi dedicano il 90% del
proprio tempo allo studio della ceramica (CHANG 1967) e, se anche così non è, è chiaro che
l’impegno profuso sul tema resta tale da giustificare un’approfondita conoscenza del perché ciò
va fatto. Solo in tal modo si eviterà di autogiustificare il proprio impegno con spiegazioni del tipo
“così fan tutti” e scadere poi, inevitabilmente, nel perseguire senza fantasia e originalità in
percorsi di ricerca segnati da una tradizione di studi ormai secolare (che non va dimenticata, ma
che non deve necessariamente divenire una camicia di forza).
Perché occuparsi di ceramica
L’invenzione della ceramica
Quando nel 1819 il danese Christian Jurgensen Thomsen propose la prima suddivisione della
Preistoria, la ceramica non fu menzionata fra i materiali utili a caratterizzare un’epoca. Solo più
tardi la presenza della ceramica divenne l’indicatore archeologico per eccellenza dell’avvenuto
passaggio da società di caccia e raccolta (Paleolitico) a società basate sulla produzione di beni
(Neolitico). I dati di scavo in siti vicinorientali facevano allora ipotizzare che le prime lavorazioni
dell’argilla fossero servite per costruire grandi contenitori destinati allo stoccaggio delle derrate
alimentari.

Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti,


Introduzione allo studio della ceramica in archeologia. Siena 2007, 3-32
INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Successivamente questa ipotesi si è rivelata semplicistica ed è stato accertato l’utilizzo di argilla,


anche cotta, fin dal Paleolitico superiore con funzioni forse non utilitaristiche, ma comunque
testimonianti la familiarità degli uomini con le azioni di impastare e foggiare, come testimoniano
due bisonti realizzati con argilla cruda da artisti maddaleniani nella grotta del Tuc d’Audoubert,
ma anche di cuocere come avveniva 26 000 anni fa, in strutture propriamente riconoscibili come
“forni”, in una delle capanne del sito di Dolnì Veštonice nella Repubblica Ceca, dove furono
foggiate statuine antropomorfe e zoomorfe di argilla che, per la presenza di crepe, dovettero
essere cotte quando ancora umide (fig. 1) In questi casi l’impiego dell’argilla era probabilmente
connesso a specifiche attività in qualche modo rituali, i cui “prodotti” non dovevano essere
necessariamente oggetti durevoli o funzionali.
L’invenzione della ceramica è in ogni caso il frutto dell’apprendimento di due processi operativi
distinti: la manipolazione dell’argilla e il suo cambiamento di stato mediante l’uso del fuoco. Il
processo inerente la manipolazione di un materiale malleabile è da ritenersi un processo, tutto
sommato, elementare e “spontaneo” anche se le “leggi” che regolano la realizzazione di manufatti
di buona qualità sottintendono una profonda conoscenza della materia prima; più complessa è
invece l’acquisizione relativa alla possibilità che un elemento cambi irreversibilmente il suo stato
fisico e di conseguenza le sue proprietà. Alla base dell’apprendimento di questo secondo
processo, indispensabile all’ottenimento del prodotto ceramico, potrebbe esserci stata la pratica
quotidiana dell’accensione del fuoco e le conseguenti osservazioni dei fenomeni indotti
dall’azione di questo elemento sul terreno sottostante i focolari, come ad esempio il suo
indurimento e l’arrossamento; indubbiamente però, alla base di un buon processo di cottura
rimane la piena padronanza sul controllo del fuoco in modo da ottenere le temperature necessarie
in un preciso arco di tempo. La creazione di oggetti funzionali e in particolare di contenitori,
dovette quindi fare seguito a un periodo di sperimentazioni con tentativi ed errori. Sembra,
inoltre, che inizialmente venissero fabbricati in argilla solo recipienti di piccole dimensioni (forse
perché più facili da realizzarsi rispetto a quelli di dimensioni maggiori) e, contrariamente a quanto
inizialmente si ipotizzava, la funzione di questi primi contenitori non dovette essere quella di
oggetti atti alla conservazione di generi alimentari. A conferma di ciò è stato osservato che le
necessità di stoccaggio sono maggiori alle medie latitudini dove la variabilità climatica stagionale è
notevole, mentre sono meno importanti proprio nelle aree subtropicali o tropicali dove invece si
sono trovati i più antichi contenitori. Non a caso, nell’area vicinorientale, compresa tra Iran, Irak,
Turchia e Palestina, dove l’innovazione della ceramica ha preso piede, le fasi più antiche della
nuova economia neolitica non sono caratterizzate dalla produzione di recipienti ceramici, tanto
che si parla di Neolitico aceramico (fig. 2). La conservazione dei generi alimentari non deve essere
stato l’elemento motore per l’invenzione della ceramica, lo stesso può dirsi per la necessità di
cottura dei cibi. Piuttosto probabile è il fatto che, prima di assumere una funzione comune nella
vita quotidiana, i recipienti ceramici abbiano rivestito un ruolo speciale in determinate attività
rituali, come pure probabile è che i diversi gruppi umani abbiano iniziato a produrre ceramica per
necessità diverse (stoccaggio, cottura, raccolta dell’acqua…). Certo è che i fattori determinanti per
l’invenzione della ceramica sono stati molteplici, complessi e non generalizzabili: tali fattori sono
intervenuti in più parti del mondo con tempi e modalità diverse, cosicché si può dire che la
ceramica fu “inventata” più volte.
Il problema del quando e del perché la ceramica fu inventata è quindi un problema di rilevanza
particolarissima, ma al momento di difficile soluzione e aperto a ricerche complesse in cui i dati
tecnologici vanno relazionati a osservazioni di funzionalità, diffusione, quantificazione eccetera;
pertanto su questo tema ci si è dilungati proprio per evitare di tornare in seguito a discuterne per
ogni diversa produzione, che ovviamente ha avuto una propria “prima volta” e una propria storia.
Archeologi e recipienti
Per l’archeologo dire ceramica significa quasi sempre pensare recipiente, ma questo non deve fare
dimenticare che in ceramica sono stati anche realizzati: ornamenti (parti di collana, di fibule …),

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

opere d’arte e di culto (statue, sarcofagi…) (fig. 3), materiali per l’edilizia (mattoni, tegole,
piastrelle, tubature, rivestimenti ornamentali…) (fig. 4), attrezzi da lavoro (pesi da telaio, fusaiole,
fornelli, ugelli per mantici…).
Proprio con riferimento agli attrezzi da lavoro si noti che i recipienti ceramici possono talvolta
ascriversi a tale categoria di manufatti (tra i quali sono compresi ad esempio anfore, mortai,
alambicchi, colatoi e lo stesso pentolame); non sempre è quindi netta la distinzione tra gli utensili
per così dire “specialistici” e gli oggetti d’uso quotidiano non produttivo (come possono ritenersi,
ad esempio, scodelle, brocche o altro).
Nella Tabella-Guida non viene esclusa la possibilità di includere anche manufatti ceramici con
funzione diversa da quella di semplici contenitori (in tali casi verranno eliminate alcune righe e
non saranno compilate per intero tutte le colonne della Tabella).
L’inalterabilità delle ceramiche
Gli impasti argillosi cotti sono materiali solitamente considerati inerti e tali da conservarsi
inalterati per lunghissimi periodi di tempo e questo fatto, che non esclude qualche eccezione, è
spesso richiamato a motivazione dell’importanza archeologica delle ceramiche. In sostanza è
frequente leggere che la ceramica — essendo inalterabile, soggetta a rotture frequenti, non
riciclabile — è il più consueto reperto archeologico.
Questo è vero, ma non bisogna dimenticare che:
1. le ceramiche sono alterabili per l’azione di agenti esterni sia prima sia dopo il seppellimento
(potendosi ad esempio verificare la perdita dei rivestimenti superficiali e apparire quindi
all’archeologo diverse da come erano…);
2. le velocità (o frequenze) di rottura sono variabili (dipendono dai caratteri del manufatto,
dall’uso, dal contesto…); di conseguenza nei depositi è normale vedere sovrarappresentate quelle
forme funzionali che si rompevano più frequentemente;
3. i frammenti ceramici possono essere riciclati (ad esempio come chamotte, cocciopesto, inerte in
bonifiche e sistemazioni stradali).
I veri motivi dell’importanza delle ceramiche
Il fatto che un materiale sia frequente fra i reperti non è di per sé sufficiente a farlo ritenere
importante per la ricostruzione storica. La ceramica solitamente è frequente per i motivi sopra
esposti, ma è importante per altri fattori:
Per le datazioni: per la mutevolezza dei propri caratteri formali, per la composizione dell’impasto e
per il suo stretto collegamento con il fuoco, è un ottimo indicatore cronologico, utile per ottenere
sia datazioni relative che assolute. Per quanto riguarda la cronologia relativa il modificarsi, in
molti casi piuttosto rapido, dei caratteri accessori è in apparenza conseguenza di fenomeni che
possono definirsi di stile o, semplificando, di moda da collegarsi a ristretti archi cronologici o a
circoscritti ambienti di produzione. A ciò si aggiunga che la vita del vasellame è quasi sempre
ipotizzabile come breve e quindi i “cocci” caratteristici di un periodo finiscono nei depositi non
molto tempo dopo essere stati prodotti. Le datazioni assolute vengono invece ricavate con analisi
di laboratorio effettuabili sui componenti presenti negli impasti ceramici: con i minerali è
possibile ottenere una datazione con il metodo della termoluminescenza; l’orientamento delle
particelle ferrose, in particolari condizioni, permette una datazione paleomagnetica; infine,
l’eventuale e rara presenza di degrassanti di origine organica può consentire anche datazioni con il
metodo del Carbonio 14 (sull’argomento delle datazioni di laboratorio della ceramica vedi il
contributo di E. Gliozzo in questo volume).
Per informare dello stile (modello estetico riconosciuto da un gruppo più o meno grande di persone): la
mutevolezza dei caratteri accessori che fa delle ceramiche un ottimo fossile guida su cui si basano
le datazioni archeologiche relative, dipende dal fatto che quasi nessun contenitore ceramico può

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

dirsi funzionale al 100%. Certamente facilitati dalla lavorabilità del materiale i vasai, sia oggi che in
passato, hanno generalmente pensato e prodotto ceramiche non soltanto funzionali ma anche
curate esteticamente: ne sono esempio, un po’ in tutte le epoche, quei contenitori
eccezionalmente decorati o complicati o con forme che ne pregiudicano comunque la
maneggevolezza e la praticità. Recipienti costruiti per risultare in qualche modo speciali, e non
soltanto belli. Recipienti la cui funzione doveva quindi essere essenzialmente comunicativa, per
conferire ad esempio prestigio a chi ne disponeva, sottolineare differenze sociali, stati d’animo o
sentimenti. In alcune società e contesti, ad esempio greci, etruschi, centroamericani, questi vasi
erano più numerosi che altrove, mentre in certe situazioni essi risultano praticamente assenti
costituendo così un indizio di gradi diversi di complessità sociale da indagarsi ricorrendo
ovviamente anche ad altri dati. O ancora, in alcuni momenti della Preistoria sono stati prodotti,
con impasti figulini, recipienti decorati esclusivamente a pittura e rinvenuti prevalentemente in
ambienti a destinazione cultuale.
Stile e funzione sono quindi i due lati di una stessa medaglia, non sempre parimenti evidenti o
importanti, ma comunque da valutarsi insieme per non perdere informazioni relative, nel primo
caso soprattutto ad aspetti sociali, di storia del gusto e della cultura, nel secondo a pratiche ed
economie. Da un lato, se si vuole, la storia del rapporto fra gli uomini, dall’altro, la storia delle
risorse senza però che questi due aspetti siano mai del tutto indipendenti e distinti.
Per informare degli usi fondamentali del vivere: diversamente da altri materiali usati quasi soltanto per
poche attività, la ceramica è stata impiegata in operazioni davvero fondamentali e quotidiane
come il cucinare, conservare, trasportare e molte altre di cui di seguito, per brevità, si dà
menzione riportando alcuni dei verbi relativi a tali azioni e alcune indicazioni circa le pertinenti
forme funzionali (la cui differenziazione è davvero enorme in molte epoche e contesti): cucinare
(olle, pentole, tegami…), conservare (olle, doli…, ma anche salvadanai), trasportare (anfore,
brocche…, ma anche tubi), servire (piatti, vassoi…), preparare il cibo (mortai, colatoi…),
consumare il cibo (piatti, scodelle, cucchiai…), illuminare (lucerne…), distillare (alambicchi…),
fumare (pipe…), orinare (pitali…), scaldare (bracieri...), profumare (incensieri, bruciaprofumi…),
giocare (pedine, bambole, ma anche microvasetti…).
Per consentire storie locali complesse: a una scala territoriale da definirsi a seconda dei problemi specifici
di ricerca, lo studio della ceramica consente di tracciare, spesso per ogni singolo sito e per quadri
regionali, vere e proprie storie locali relative a: partecipazione o no a circuiti di scambio, quantità
e qualità dei beni disponibili, che cosa si mangiava (la dieta), attivazione di risorse e particolari
produzioni alimentari locali, differenziazione sociale, evoluzione del gusto, riti e pratiche religiose
o culturali, numero di persone per abitazione (la demografia).
Lo studio della ceramica indirettamente consente perciò informazioni economiche (la produzione
e il commercio), sociali, culturali certamente da integrarsi con altri dati, ma che nessun altro
materiale può fornire con la medesima completezza in così tante diverse situazioni. Inoltre,
informazioni più specifiche e meno soggettive delle semplici osservazioni stilistiche possono
essere ricavate dalle prove archeometriche di laboratorio. In particolare le prove petrografiche
consentono di ottenere informazioni sui luoghi di approvvigionamento della materia prima e
quindi sugli eventuali scambi commerciali delle stesse materie prime o dei prodotti finiti.
Per informazioni di ampia scala e durata: a una scala ampia, ad esempio continentale o nazionale,
essendo la ceramica un materiale adottato da quasi tutte le popolazioni, essa consente di disporre
di informazioni circa fenomeni epocali e sopranazionali quali, ad esempio, le scelte delle singole
comunità, l’adozione di nuove tecniche, lo spostamento di persone o idee, acculturazioni a grande
distanza, cambiamenti nei modi di vivere. Ciò è reso immediatamente evidente se solo si
confrontano le ceramiche prodotte nel medesimo periodo in Grecia, Puglia, o Italia centrale o, a
una scala maggiore, se si rileva l’evidente distacco fra la storia della produzione ceramica in aree
fra loro prive di rapporti come il Centro- e il Sudamerica, l’Europa, l’Africa.
Le osservazioni fin qui esposte possono essere ritenute più o meno sempre praticabili per quanto

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

riguarda la produzione ceramica di età storica; per quanto riguarda la ceramica preistorica, invece,
le problematiche sono lievemente diverse. Pur non prescindendo dal fatto che le informazioni cui
si tende dovrebbero essere analoghe a quelle restituite dallo studio della ceramica storica, è
necessario precisare che dalla ceramica preistorica solo con maggiori difficoltà possono essere
ricavate notizie riguardanti la funzionalità dei manufatti, l’organizzazione del lavoro (conseguente
sia ai diversi gradi di avanzamento tecnologico, sia all’assetto sociale) o le modalità di diffusione
di determinati modelli attraverso territori più o meno ampi. La ricostruzione storica non può
difatti avvalersi dell’ausilio di altre fonti e non privo di problemi è anche il ricorrere a discipline
quali l’archeometria, l’archeologia sperimentale, l’antropologia o l’etnoarcheologia. Per il periodo
in oggetto rimane pur sempre prudente valutare le considerazioni ottenute semplicemente in
chiave di ipotesi, anche se il rischio è di non raggiungere mai nessuna conclusione e quindi nessun
avanzamento conoscitivo. Infine non va dimenticato che in epoca preistorica e, nello specifico
nella produzione della ceramica, non si ha testimonianza di un’organizzazione del lavoro di tipo
artigianale; la ceramica veniva prodotta, con poche eccezioni, a livello pressoché familiare
all’interno di gruppi umani estremamente frazionati, non ancora assoggettati a una struttura
statale centralizzata. Tali fattori sono alla base di una forte variabilità delle tecniche esecutive,
degli stili e delle modalità di affermarsi, diffondersi e perdurare di un modello formale, stilistico,
funzionale.
In sintesi: la ceramica è così importante per gli archeologi perché è l’unico materiale che è al
tempo stesso: frequente fra i reperti, databile, funzionalmente importante, spesso vettore di
messaggi e quindi in grado di condurre a una significativa storia locale e a fondati confronti
epocali e fra aree geografiche distinte.
Un cenno di storia degli studi
Procedendo schematicamente nella storia degli studi archeologici si possono distinguere quattro
diversi approcci che tuttora convivono, benché sviluppatisi in momenti diversi. Essi possono
designarsi come artistico, tipologico, tecnologico, contestuale.
L’approccio artistico allo studio della produzione ceramica è il più antico ed è legato direttamente al
collezionismo antiquario. Oggetto di studio e raccolta è il vaso, meglio se integro e, se possibile,
di qualche pregio estetico: ciò ha comportato un interesse diseguale per le diverse classi
ceramiche e spesso il trascurare dati di contesto come ad esempio la provenienza dell’oggetto.
Tuttora sono esempio di questo approccio le collezioni museali di vasi dipinti sia di età classica,
come le ceramiche a figure rosse o nere, o medievale e postmedievale, come le maioliche italiane.
L’approccio tipologico sviluppatosi sul finire dell’Ottocento ha consentito il riconoscimento di
cosiddetti fossili guida, ovvero di ceramiche indicanti precisi periodi e, talvolta, anche ambiti
geografici di produzione o popoli. Tali lavori, tuttora fondamentali, partivano dal considerare
importanti non soltanto i vasi interi, ma ogni loro frammento identificabile, anche se privo di
qualsiasi ipotizzata valenza artistica. Da ciò lo studio di quantità sempre più ingenti di materiali,
con il risultato di delineare fin dagli inizi del XX secolo un quadro di riferimento estremamente
articolato che per essere migliorato, entrando nel dettaglio delle molteplici produzioni di singoli
periodi e regioni, ha reso necessario, nella seconda metà del secolo, lo sforzo di decine di
ricercatori, migliori metodologie di scavo, l’adozione di nuovi metodi di trattamento e analisi dei
reperti.
L’approccio tecnologico, strettamente imparentato con quello tipologico, ha valorizzato ogni carattere
riscontrabile sui manufatti e quindi: materiale, forma, dimensione, finitura delle superfici, decori.
Fra gli obiettivi, oltre alle cronotipologie, la ricostruzione della tecnica vasaria e, da questa,
considerazioni di ordine produttivo, economico, sociale. Da qui lo studio degli scarti di
lavorazione e il ricorso all’archeometria.
L’approccio contestuale si è sviluppato nel secondo dopoguerra, a seguito dell’insoddisfazione per
un’archeologia che appariva più attenta agli oggetti che non agli uomini che li avevano utilizzati.

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Lo studio della ceramica è stato quindi approfondito cercando di ricavarne dati di natura sociale,
di caratterizzazione dei modi di produzione e dei modi di utilizzo, di indicatore di pratiche
connesse all’uso delle risorse, prime fra tutte ovviamente il cibo. Il vasellame è stato quindi
considerato come uno strumento impiegato dagli antichi per la gestione delle risorse ambientali,
ma anche per interagire con altre persone sottolineando ad esempio l’appartenenza a una
comunità e le tradizioni condivise o le disparità sociali, la ricerca del nuovo, i contrasti.
L’importanza delle tematiche relative al rapporto fra ceramiche e ambiente o risorse ha talvolta
fatto parlare di ceramic ecology.
Materiali e tecniche
Il ciclo produttivo
Il testo che segue e la stessa Tabella-Guida che si andrà a proporre sono articolati in funzione del
ciclo produttivo che, nel caso specifico, conduce da una materia prima naturale (l’argilla) a un
manufatto finito (un generico oggetto ceramico). Questo modo di affrontare l’argomento,
certamente non l’unico possibile, è stato qui adottato perché si ritiene valorizzi al meglio i dati di
cui l’archeologo spesso dispone: reperti frammentari, non sempre contestualizzati, di cui può non
essere nota la cronologia, ma in cui sono sempre ravvisabili i caratteri del materiale (ciò con cui
l’oggetto è stato fatto) e, in subordine, altri caratteri che informano del come è stato fatto e, via
via, di altri passaggi che lo hanno portato dalla bottega del vasaio al magazzino dei reperti.
Su cosa sia un “ciclo produttivo” non è questa la sede per dilungarsi, ma può essere utile
richiamare alcuni concetti chiave. Nozione d’uso comune è il ritenere i cicli produttivi sequenze
di operazioni che trasformano una materia prima in un prodotto con diverse caratteristiche,
spesso in quello che può dirsi un prodotto finito. In generale, nei cicli si distinguono varie fasi:
individuazione delle risorse (ricerca delle materie prime), estrazione, coltivazione (cave, miniere,
raccolta materiali superficiali…), lavorazione intesa come alterazione intenzionale dei caratteri
chimico-fisici del materiale di partenza.
Queste attività possono aversi in luoghi e tempi diversi o con l’intervento di svariate persone
aventi specializzazioni professionali distinte; nel caso della ceramica si può immaginare uno
svolgersi del ciclo che vede impegnati cavatori, trasportatori, vasai (torniante) e decoratori. La
sequenza in cui si articola il ciclo è quindi una sequenza storica, in pratica una microstoria che
diviene significativa per l’archeologo perché ripetuta infinite volte, per ogni singolo oggetto e in
modi che sono caratteristici di ogni specifico contesto geo-storico. Nello studiare il ciclo
produttivo quel che conta è valorizzare non solo i dati che consentono di seguire l’evolversi della
lavorazione, ma ogni indizio che descriva la logica interna del ciclo, le discriminanti spazio-
temporali (ad esempio le pause nella lavorazione), la concatenazione con altri processi produttivi
che forniscono al vasaio ciò di cui ha bisogno (ad esempio il combustibile, ma anche i pigmenti o
i materiali usati per la costruzione della fornace).
Il ciclo produttivo è quindi un obiettivo di ricerca intermedio, ma fondamentale. È un
riorganizzare ciò che si legge sul manufatto, divenuto reperto, un po’ nel modo in cui, a ritroso, si
“sfoglia” una stratigrafia di scavo. Tutto questo è reso possibile dal fatto che nel ciclo produttivo
«il concatenamento è logico, necessario, prevedibile, ripetibile» (ANGIONI 1984) e che quindi
l’archeologo può, non solo razionalmente e scientificamente studiarlo, ma addirittura replicarlo
sperimentalmente. Nonostante questo si deve però ricordare che, diversamente da come li si
schematizza, nessun ciclo è mai un processo completamente razionale come quelli che dice di
organizzare l’industria moderna, ma è sempre un processo storico, figlio quindi del proprio
tempo e di condizionamenti e convinzioni che portano ad esempio a pause stagionali o
giornaliere, al vietare a determinate persone di prendervi parte per pregiudizi ad esempio di
natura sessuale, a prediligere certi luoghi e non altri, a introdurre tutta una serie di varianti,
accessorie e parziali, che comunque incidono sul risultato. Nel caso del ciclo della ceramica si
hanno perciò da un lato passaggi tecnici fondamentali, comuni a ogni contesto produttivo come ad

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

esempio le operazioni di foggiatura e cottura, che possono risolversi però secondo una
molteplicità di scelte diverse che costituiscono passaggi accessori talvolta addirittura evitabili o
peculiari di un singolo artigiano: l’esempio più facile di tali passaggi accessori è dato dalle scelte
relative al come e al se decorare o meno le superfici dei vasi.
La distinzione fra passaggi tecnici fondamentali e passaggi accessori se da un lato ricorda che il
ciclo della ceramica andrebbe forse disegnato nella sua integrità come un albero (con un tronco
semplice, ma moltissimi rami designanti le diverse tecniche di finitura e decoro), da un diverso
punto di vista — meno tecnico e più storico — è però una distinzione che va rimessa in
discussione quando è proprio il carattere solitamente definibile come accessorio a caratterizzare
l’oggetto come speciale. È questo il caso di oggetti di prestigio in cui tale funzione è data da
scritte, decori — ad esempio araldici — o complicazioni costruttive che risultavano importanti
più di ogni altro aspetto per l’utilizzatore, anche se per il vasaio tecnicamente potevano essere
poca cosa. Quanto detto conduce quindi a osservare che lo studio delle ceramiche, e anche uno
studio che voglia essere tecnico, non può prescindere dal punto di vista degli utilizzatori e che
quindi la ricostruzione del ciclo produttivo va ricondotta alla più estesa e informativa
ricostruzione del ciclo di vita che estende la microsequenza storica fino a comprendervi le modalità
d’uso, scarto, seppellimento e, di seguito, al ritrovamento archeologico, al restauro, alla nuova vita
dell’oggetto come bene culturale.
Per concludere su questo tema si ricordi ancora che i cicli non sono mai separati gli uni dagli altri
(tutti si tengono nel medesimo contesto sociale) e che nel caso della ceramica è abbastanza
frequente sia l’imitazione di manufatti metallici, sia la concorrenzialità con altri materiali fra cui la
pietra ollare per cuocere, il vetro e il legno per servire o consumare, i manufatti organici, siano in
pelle o in fibre e in legno, per conservare e trasportare. I cicli, per il loro perdurare nei caratteri
fondamentali per lungo tempo, sono inoltre le basi della lunga durata proprio perché sono la
soluzione di problemi connessi ai materiali e ciò fa sì che sia particolarmente interessante, una
volta definito un ciclo — ad esempio quello del bucchero etrusco o della graffita arcaica tirrenica
— affrontare lo studio dei momenti di transizione e quindi del prima e del dopo che avevano
portato a quelle produzioni all’interno di una storia, non solo tecnica ma sociale ed economica.
Solo con una siffatta prospettiva di lunga durata saranno del resto comprensibili anche gli eventi
particolari la cui rilevanza poteva sfuggire anche agli artigiani e che iterandosi portavano però ai
cambiamenti epocali di cui più facilmente si registrano gli effetti.
L’argilla
I modi di fare un contenitore ceramico sono ovviamente infiniti, ma guardando ai caratteri
essenziali dei processi è possibile ricondurli in uno schema abbastanza semplice e, tuttavia,
significativo. Il passaggio fondamentale e imprescindibile è il cuocere l’argilla a una temperatura
minima di circa 600° centigradi così da aversi la perdita irreversibile dell’acqua in essa contenuta.
Prima di ciò il vaso deve essere foggiato e questo può farsi in più modi. Il primo punto da
discutere per affrontare l’argomento resta comunque l’argilla ovvero il materiale di partenza di
reperti che poi si chiameranno spesso con nomi diversi pur avendo per l’appunto un’origine
comune.
Con argilla si definisce un materiale solido, naturale, non metallico, costituito da particelle
finissime di svariati minerali fillosilicatici (ad es. caolinite, illite, montmorillonite) che sono in
grado di formare con l’acqua delle sospensioni colloidali stabili. Tali materiali, aventi dimensione
inferiore ai 4 micron hanno struttura lamellare e si rinvengono solitamente in giaciture secondarie
conseguenza di cicli erosivi-sedimentari che hanno disgregato le originarie rocce sedimentarie in
particelle fini ridepositate più o meno pure in bacini fluviali o lacustri. Durante il trasporto alle
argille possono aggiungersi materiali diversi caratteristici di quel bacino e fra questi sabbie o altri
materiali con pezzature grossolane che possono facilmente ritrovarsi in talune classi di manufatti
ceramici. Meno plastiche delle argille sedimentarie sono le argille formatesi per disgregazione in
posto di rocce sedimentarie che, non avendo subito trasporto, sono però più pure e spesso

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

ricercate per produzioni in cui necessita un impasto bianco (argille caoliniche e argille bianche
impiegate per le terraglie). Le argille più frequentemente utilizzate sono comunque quelle
sedimentarie che possono dividersi in calcaree o marnose aventi colore chiaro (dal giallo paglierino
all’ocra) e porosità media, e ferrugginose (le più diffuse, con colore dal rosso al bruno dato proprio
dagli ossidi di ferro che contengono).
Trattandosi di un materiale di disgregazione di rocce, in quasi tutti i territori sono reperibili
depositi di argilla o di terre argillose in cui l’argilla è frammista ad esempio a limo e sabbie, che,
con caratteri diversi da sito a sito, sono potenzialmente utilizzabili per foggiare vasi. La ricerca dei
siti di approvvigionamento delle materie prima usate per fare ceramica può quindi essere difficile
e talvolta si dice che si tratta di una risorsa ubiquitaria o quasi, intendendo così che, se è possibile
individuare un areale geolitologico e sedimentario di provenienza di una data argilla impiegata per
fare ceramica, non è poi facile individuare i siti di prelievo che potevano ad esempio trovarsi in
aree fluviali di esondazione o in zone di deposizione colluviale. In molti insediamenti, soprattutto
neolitici, spesso sono state rinvenute fosse colme di rifiuti che in più occasioni si è pensato
fossero state originariamente scavate per estrarre argilla (clay pits) e solo in seguito utilizzate come
immondezzai. Cipriano Piccolpasso, nei Tre libri dell’arte del vasaio (1548), descrive anche l’utilizzo
di alcune fosse scavate appositamente negli alvei fluviali perché fossero riempite dalle acque
fangose da cui poi estrarre l’argilla (fig. 5).
Caratteristica fondamentale di ogni materiale argilloso è che se addizionato con acqua acquista
plasticità e quindi è modellabile a freddo, mentre se scaldato perde non solo tale acqua d’impasto,
ma anche quella presente naturalmente fra le lamelle argillose (acqua d’interstrato) e secca fino alla
cosiddetta durezza cuoio (in realtà una durezza simile a quella che hanno le ceramiche cotte, ma
che può essere perduta se solo si fa assorbire nuovamente acqua all’impasto). Solo a partire da
circa 600° centigradi l’argilla solidifica irreversibilmente in quanto non solo perde l’acqua aggiunta
e quella d’interstrato, ma anche quella che ne caratterizza la struttura mineralogica e che talvolta è
detta acqua chimicamente legata (per fare ciò oltre al raggiungimento della anzidetta temperatura di
reazione necessita un qualche tempo variabile in funzione dei diversi caratteri del materiale fra cui
porosità, permeabilità, inclusi, spessore pareti eccetera).
L’acqua
Per studiare la produzione di manufatti ceramici non si deve dimenticare quanto fosse importante
l’acqua per il vasaio. Acqua necessaria per l’impasto argilloso, ma anche per impastare materiali
usati nella costruzione della fornace, per diluire i colori, per bere. La quantità d’acqua necessaria
nel suo complesso può quindi essere di molto maggiore, in peso, della stessa argilla usata per i
vasi e di ciò si deve tenere conto quando si discute dei caratteri che condizionarono l’ubicazione
di un dato impianto che spesso si configura come un sistema di adattamento fra esigenze diverse:
di acqua, di argilla, ma anche di combustibile, di manodopera, di vicinanza al mercato...
Solitamente l’acqua utilizzata per l’impasto è ovviamente acqua dolce, ma non si devono
dimenticare quei casi in cui è stata utilizzata acqua salata, sia di mare sia aggiungendovi
intenzionalmente cloruro di sodio, con il risultato — nel secondo caso certamente voluto — di
ottenere a cottura avvenuta uno schiarimento superficiale dell’impasto ceramico e quindi con uno
scopo che non sempre può dirsi solo estetico (sono schiarite in tal modo le anfore usate a Dijerba
per la pesca del polpo e forse in questo caso il colore chiaro contribuisce ad attirare l’animale che
vi si infila e resta intrappolato).
I dimagranti o degrassanti
L’impasto di acqua e argilla per essere foggiato deve avere una giusta consistenza; deve cioè
essere sufficientemente plastico per assumere la forma voluta, ma non deve eccedere in ciò
finendo ad esempio con l’afflosciarsi. La giusta plasticità dipende in pratica da ciò che il vasaio
vuole ottenere ed è evidente quanto sia diverso realizzare un testello piatto e di elevato spessore
(per il quale va bene qualsiasi terriccio argilloso o quasi) rispetto a un piatto sottile e con ampia

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

tesa o a una forma chiusa più alta che larga. La giusta consistenza non è quindi definibile con
precisione, ma per averne un’idea si può dire che non hanno la giusta consistenza né un
bastoncello d’argilla che posto in verticale si affloscia, né lo stesso bastoncello se non può essere
piegato a formare un cerchio (è questa una definizione empirica e approssimativa perché
ovviamente dipende dalle dimensioni del bastoncello, dalla sua lunghezza e dal diametro del
cerchio).
Nel primo caso, bastoncello che si affloscia, la plasticità è ovviamente troppo elevata e può essere
ridotta. Per fare ciò i vasai, fin dal Neolitico, hanno imparato a “correggere” le argille
aggiungendovi materiali, detti dimagranti o degrassanti, che diano quel nerbo, o consistenza,
desiderato. Fra tali materiali i più usati sono le sabbie, sia naturali sia ottenute per macinazione
intenzionale di rocce, la terracotta macinata fine (detta chamotte), svariati resti vegetali sminuzzati.
Ognuno di questi materiali ha ovviamente propri caratteri, a partire dal colore che può
contribuire a conferire alla ceramica; quel che più conta però è che l’aggiunta di granuli determina
caratteristiche superfici del manufatto finito (più o meno lisce o grossolane o addirittura creando
effetti cromatici), può interagire chimicamente e fisicamente con le argille, sia durante la cottura
sia durante la vita del vaso e può infine avere, nel caso dell’impiego del tornio veloce, effetto
abrasivo sulle mani di chi tornisce (obbligandolo quindi all’uso di attrezzi).
Il quarzo e le sabbie quarzose reagiscono con le argille ad alte temperature mentre i resti vegetali
ovviamente si disgregano conferendo porosità e leggerezza. Importante soprattutto per il
pentolame da fuoco era l’impiego di dimagranti refrattari e non rigonfianti ad alte temperature.
Particolarmente utili a tale scopo sono ad esempio le rocce come diallagi o gabbri, mentre i
granuli calcarei, che contribuiscono a schiarire l’impasto, se da un lato hanno anch’essi
un’adeguata conducibilità termica sono però soggetti a disgregarsi sul fuoco lasciando dei vacui
superficiali. Con l’eccezione della chamotte, certamente aggiunta intenzionalmente dal vasaio
all’impasto ceramico, si noti che per tutti gli altri inclusi riconoscibili in un vaso si deve accertare
se si tratta di aggiunte volute o di materiali naturalmente frammisti all’argilla (ad esempio limo e
sabbia presenti nei depositi sedimentari) o di presenze accidentali conseguenza del contesto
lavorativo (ad esempio qualche seme che poteva trovarsi nella zona di lavorazione). Le aggiunte
intenzionali sono solitamente riconoscibili per la loro omogeneità e per gli spigoli vivi del
materiale proveniente da macinazione.
Nel secondo dei casi sopracitati, quando l’argilla è poco plastica e il bastoncello non è piegabile su
se stesso a fare un cerchio, se tale condizione non dipende da un’erronea quantità d’acqua
d’impasto o da un’insufficiente manipolazione dell’impasto, alla stessa si può porre parziale
rimedio solo cercando di eliminare le particelle non argillose eventualmente presenti. Ciò può
farsi per decantazione in acqua per periodi anche molto prolungati e/o con vagliatura così da
separare materiali con dimensioni e peso specifico differente (pietre, sabbia, argilla grossolana,
argilla fine) ed eliminare quelli inadatti. Di questo procedimento possono essere indizio sia quei
manufatti realizzati con argille più depurate di quelle presenti in natura sia il fortunato, e
purtroppo raro, riconoscimento delle vasche utilizzate per la decantazione.
Foggiatura
L’operazione di modellazione o foggiatura è ovviamente uno fra i passaggi del ciclo più
facilmente leggibile sui manufatti finiti, ma non si deve dimenticare che proprio le finiture
superficiali possono in molti casi celare — con rivestimenti, asportazioni o alterazioni — molte
tracce caratteristiche del dare forma a un impasto originariamente informe e irregolare. Oltre a
ciò si consideri che nella preparazione dell’impasto operazioni di grande importanza sono la
manipolazione ripetuta e prolungata dell’argilla con acqua, al fine che l’assorbimento della stessa
sia progressivo e giunga “in profondità” consentendo così la plasticità voluta; tale manipolazione
che ha anche il compito di espellere dall’impasto bolle d’aria, può farsi, oltre che con le mani, per
pestatura, sia da parte di uomini che di animali, o con sistemi meccanici. Solitamente la prova

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

archeologica di questa operazione, sempre riscontrabile in contesti etnoarcheologici, non può


quasi mai aversi e solo indirettamente può dedursi guardando all’omogeneità dell’impasto.
La foggiatura vera e propria è l’operazione su cui più estesamente si soffermano molti manuali e
che ha un valore diagnostico piuttosto rilevante nella classificazione dei reperti archeologici.
Schematizzando essa può farsi nei seguenti modi:
1. plasmando l’argilla a mano libera (ad esempio facendone una palla da scavare all’interno
mentre se ne sollevano le pareti);
2. lavorandola in cordoni da saldare poi insieme comprimendoli fra loro (tecnica a colombino);
3. usando un qualche tipo di supporto rotante che faciliti la realizzazione di un regolare solido di
rotazione;
4. costruendo un vero e proprio tornio;
5. impiegando uno stampo.
In genere si può sostenere che nel caso 1. le pareti saranno relativamente spesse; che molti oggetti
aventi il fondo piano ottenuto per compressione di una palla di argilla (caso 1) hanno le pareti a
cordoni (caso 2); che il caso 2 non è sempre distinguibile dal 3 e dal 4 a seguito di rifiniture
superficiali a stecca e lisciatura, anche su tornio (caso 4), che rendono indistinguibili i singoli
cordoni; che il caso 5 può, ad esempio nella terra sigillata romana, essere associato alla tornitura.
In generale si può dire che i primi tre casi sono gli unici conosciuti in età preistorica.
In molti casi si deve tenere presente che più tecniche possono essere adottate nel medesimo vaso
per collegare fra loro parti costruite separatamente (ad esempio due parti sovrapposte del corpo o
le anse e altre svariate applicazioni). In molti casi osservazioni interessanti circa i modi di
produzione si possono ricavare ragionando sulla possibile posizione delle mani del vasaio durante
la foggiatura: in alcuni vasi ad esempio, certamente le mani non potevano essere inserite
all’interno della forma finita, in altri è evidente l’aiuto di un attrezzo o di una vera e propria
sagoma, talvolta la forma dell’orlo si vede essere dipendente dalla lunghezza delle dita
dell’operatore o vasi con pareti sottilissime devono essere stati torniti più spessi per essere
successivamente assottigliati a coltello.
Relativamente al tornio è usuale cercare di distinguere dalle tracce rilevabili sui reperti l’utilizzo di
un tornio lento da un tornio veloce definendo il primo per l’assenza di un volano che regolarizzi
la rotazione. Esempio tipico di tornio lento è ritenuto un disco di 30-40 cm di diametro poggiante
su un perno centrale e mosso con una mano dal vasaio, mentre l’idealtipo del tornio veloce è
solitamente considerato il tornio a pedale caratteristico del Medioevo europeo e ben raffigurato
ad esempio nelle tavole dell’Encyclopedie. Questa esemplificazione rischia però di ridurre troppo il
quadro delle possibilità e delle soluzioni tecniche adottate dai vasai nel corso del tempo, nelle
diverse aree geografiche e in funzione delle produzioni volute. Al proposito si consideri che i
capolavori realizzati in età classica dai vasai attici erano prodotti su torni che si direbbero lenti,
non solo per l’assenza del volano ma anche, in molti casi, per essere mossi dal vasaio e non ad
esempio da un aiutante. La struttura del tornio utilizzato non è quindi semplicisticamente
ipotizzabile guardando ai reperti che consentono solo di verificare se trattasi di regolari solidi di
rotazione o meno, con righe di tornitura rapida e ad “alzare” le pareti o con righe irregolari.
Parlare di uso del tornio lento o veloce a partire dalle tracce sui reperti significa quindi risalire
dalle tracce nei vasi a un aspetto dinamico della foggiatura che è importante, ma che non
comprova, da solo, il tipo di meccanismo ruotante adottato. Per la definizione di questo servono
altri indizi e quasi sempre di grande aiuto è l’iconografia. Fra l’altro stabilire un’equazione del tipo
tornio veloce=vasaio specializzato, al fine di distinguere sulla base di un solo indizio quale fosse
la caratterizzazione sociale dell’artigiano, può portare a considerazioni erronee se non unite ad
altre circa i tempi di lavoro, la standardizzazione, il contesto eccetera.
Fra le tracce rilevabili sui reperti torniti si ricordano ancora la sabbiatura del fondo, che era

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

attuata per facilitare il distacco del vaso dal tornio (ma che si trova anche su vasi prodotti con
altre tecniche in quanto necessaria a staccare il vaso sia da un eventuale stampo sia da un
supporto fisso impiegato per la tecnica a colombino) e, sempre sul fondo, i segni circolari
caratteristici dell’utilizzo di una cordicella che veniva fatta passare fra il tornio in movimento e il
vaso da staccare (se la rotazione è lenta in molti casi questa operazione non lascia però traccia).
Gli indizi possono quindi essere molteplici, ma forse nessuno può dirsi decisivo e la valutazione
della tecnica di foggiatura, per la sua complessità, deve basarsi su un insieme ampio di
osservazioni. Ovvio, ma importante, è infine rilevare che l’uso di stampi ovviamente introduce
nelle fasi di foggiatura una sorta di rigidità e facilita il perpetuarsi, o anche il riprendere a distanza
di qualche tempo, di quelle forme standardizzate dall’attrezzo stesso con cui le si (ri)produce.
Va ricordato che in Preistoria l’uso del tornio non è attestato. In Italia meridionale sono presenti
ceramiche tornite di derivazione micenea a partire dalla media età del Bronzo.
Finitura e decorazione delle superfici
Il recipiente foggiato necessita in genere di un’operazione di rifinitura con la quale eliminare le
tracce della foggiatura stessa. Tali operazioni si possono effettuare a vari stadi di essiccazione
della pasta e possono raggiungere diversi gradi di raffinatezza delle superfici. A pasta umida è
possibile provvedere alla stuccatura e alla lisciatura delle pareti con cui eliminare le imperfezioni
dovute a eventuali giunture, solchi di tornitura, impronte di polpastrelli oppure assottigliare le
pareti troppo spesse. Quando la pasta è allo stadio di essiccazione cuoio, è possibile effettuare la
levigatura o “brunitura”. Con quest’ultima operazione, mediante l’energico sfregamento delle
pareti del contenitore con un ciottolo levigato, si procede ad attenuare la porosità superficiale
dell’argilla, ciò grazie alla compressione e all’avvicinamento delle particelle di argilla più esterne.
In tal modo il manufatto oltre a risultare meno permeabile all’acqua, acquista un aspetto
particolarmente liscio e lucente (alcuni vasai di età storica e ancora oggi, utilizzano l’agata). La
levigatura produce sulla superficie delle pareti una sorta di sottile strato a sé stante che a un esame
poco accurato può essere confuso con l’ingobbio; la possibilità di equivoco è aumentata dal fatto
che, tali pseudo-ingobbi, per cause postdeposizionali, forse connesse anche con difetti di cottura
o all’uso che è stato fatto del recipiente stesso, tendono “a saltare” dal resto della parete.
Una volta effettuata la rifinitura, il recipiente può essere variamente decorato e la molteplicità
delle tecniche induce a una schematizzazione in cui si distinguono:
1. decori plastici applicati o (cordoni, pasticche, bugne…) (fig. 7);
2. decori impressi (fig. 8), realizzati con i polpastrelli della mano, con le unghie, le conchiglie,
attrezzi appositi fra cui punzoni, pettini, rotelle, stampini..., che possono creare un andamento del
decoro continuo, discontinuo… (fig. 9);
3. decori incisi o graffiti quando sulla superficie ceramica si trascina uno strumento appuntito in
grado di “incidere” l’argilla con l’asportazione di una parte anche piccola di materiale (operazione
che può anche attuarsi dopo l’essiccazione del vaso);
4. decori dipinti con materiali argillosi aventi una resa cromatica diversa da quella che avrà il
corpo del vaso una volta cotto (operazione che solitamente si attua dopo l’essiccazione del vaso).
Si noti però che la precedente schematizzazione è grossolana e non esclude la possibilità di casi
intermedi e di contaminazioni fra tecniche: ad esempio decori impressi su cordoni applicati,
applicazione di materiali, non solo argillosi ma anche metallici, all’interno di incisioni
appositamente preparate. Talvolta può anche essere difficile capire se la resa superficiale del vaso
sia da considerarsi l’esito della lavorazione o se sia un risultato voluto pur non potendosi definire
un vero e proprio decoro, come nel caso di recipienti preistorici di epoca eneolitica, le cui
superfici venivano espressamente “rusticate” mediante “spazzolatura” o mediante ripetute
pressioni a polpastrello per ottenere una sorta di effetto “a squama” (fig. 10), oppure nel caso di
olle medievali aventi fitti segni di tornitura all’esterno (dette talvolta filettate) o vasi con superfici

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

finite in modi contrastanti: ad esempio con fasce rifinite a mano e altre maggiormente lisciate con
una stecca, un panno o altro.
Si noti che per molte produzioni la decorazione avveniva dipingendo sul vaso ingobbiato, prima
della stesura della vetrina, o direttamente sullo smalto ma per questi casi e per la possibile
successione delle diverse operazioni di cottura e decorazione (fig. 11) vedi i successivi paragrafi.
Essiccazione
Una volta foggiato, il vaso può essere variamente rifinito ed eventualmente ricoperto con altri
materiali, ma in ogni caso prima di essere cotto deve essere posto a essiccare cosicché ceda
l’acqua di impasto passando dallo stadio detto “ad argilla verde” alla cosiddetta “durezza cuoio”.
In questa fase l’impasto è soggetto al “ritiro”, cioè alla perdita di volume conseguente al rilascio di
acqua, che si manifesta in percentuale variabile a seconda della qualità dell’argilla. I manuali
tecnici moderni consigliano di effettuare l’essiccazione con gradualità, senza sbalzi termici e
quindi in luoghi riparati ad esempio dai raggi del sole. Per condurre questo passaggio del ciclo,
che impone un tempo tecnico di attesa tra fine foggiatura e cottura, i vasai di età storica
predisponevano un ambiente della loro bottega a magazzino destinato all’essiccazione. Durante i
vari stadi di essiccazione, con il recipiente ormai manipolabile senza più rischi di deformazioni,
venivano solitamente realizzate le varie aggiunte di parti, le decorazioni a crudo (incisioni,
graffiti), la rifinitura a coltello del piede, l’intaglio e l’esecuzione di eventuali perforazioni. Allo
stadio di “durezza cuoio” è possibile effettuare sia l’operazione di levigatura o “brunitura” (supra),
sia l’applicazione di coperture (infra).
I rivestimenti
In molti casi riconoscere la presenza e il tipo stesso del rivestimento che copre, in tutto o in parte,
un recipiente ceramico è operazione banalissima. Prima di descrivere i diversi tipi di rivestimento
si deve però richiamare solo un accorgimento utile a evitare errori in quei casi che, per motivi
diversi, possono non essere facili: essendo i reperti archeologici quasi sempre frammentari è
possibile unire alla disamina delle superfici interna ed esterna, l’osservazione delle fratture così da
vedere “in sezione” la parete del vaso e coglierne gli strati di rivestimento che coprono l’impasto,
differenziandoli ad esempio da schiarimenti superficiali dello stesso (per questa operazione nei
casi dubbi è bene operare su una frattura fresca, ben pulita e procedere all’osservazione con una
lente o, meglio, un microscopio). Per inciso, si noti che lavare con troppo vigore le fratture dei
reperti frammentari può al massimo rendere difficile il lavoro dei restauratori, ma procedere nello
stesso modo sulle superfici interne ed esterne del coccio può invece comportare l’asportazione
della copertura originaria e quindi una deprecabile perdita d’informazione. I rivestimenti
d’interesse archeologico possono essere suddivisi guardando al materiale costituente in argillosi o
vetrosi, ma come sempre accade, ciò non esclude ulteriori significative partizioni.
Rivestimenti argillosi. Il tipo più semplice di copertura è l’ingobbio, uno strato di argilla finissima steso
sulla superficie del vaso prima di cuocerlo così da migliorarne l’aspetto, ma senza ottenere
l’impermeabilizzazione delle superfici. Il caso più comune è quello in cui l’ingobbio, essendo
costituito da una sospensione di argilla maggiormente depurata, è di colore più chiaro
dell’impasto su cui è posto. L’ingobbio è l’unico tipo di rivestimento conosciuto in Preistoria.
L’ingobbio è comunque una tecnica tuttora in uso e caratterizzante ad esempio moltissime
produzioni medievali dove è usato anche come supporto per decorazioni dipinte o asportato per
realizzare decori graffiti. L’ingobbio, in generale, può essere applicato al vaso a durezza cuoio
(prima quindi di cuocerlo) sia con il pennello (potendo così ottenere decori anche sottilissimi) sia
per immersione parziale o totale.
Casi particolari, ma importanti, sono costituiti dalle ceramiche di età romana a vernice nera e a
vernice rossa per le quali si adottarono argille finissime e ricche di ferro che in cottura (ossidante
o riducente a seconda dei casi) assumono un aspetto lucente. La capacità di controllare i caratteri

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

dell’ingobbio e le condizioni di cottura avevano del resto già reso possibile in Grecia la
realizzazione di vasi decorati a figure nere o rosse su un fondo contrastante. In quei casi
l’ingobbio finissimo e ricco di ferro era applicato sul vaso e quando sottoposto a cottura
ossidante diveniva rosso, mentre altre parti erano trattate anche con un’ingobbio maggiormente
ricco di alcali e quindi impermeabile. In una fase di cottura riducente l’intero vaso diveniva quindi
nero e poi, introducendo aria nella fornace, l’ossidazione era nuovamente possibile solo in quelle
parti non coperte dall’ingobbio più fine che, essendo impermeabile, non era più possibile reagisse
con l’ossigeno. Per le produzioni di età classica si noti l’uso ormai tradizionale di designare il
rivestimento con il termine vernice che se da un lato rischia di celarne l’origine, e cioè l’essere un
caso particolare di rivestimento argilloso, dall’altro ne ricorda la fusione perlomeno parziale che
conferisce la lucentezza distintiva di queste produzioni (ceramica a figure rosse, a figure nere,
vernice nera, vernice rossa).
Rivestimenti vetrosi. Se la funzione dell’ingobbio è sempre quella di migliorare l’aspetto superficiale
dei vasi, altri tipi di rivestimento, a base di quarzo fuso, ottengono di renderne impermeabili le
superfici: se trasparente tali rivestimenti sono detti vetrine ed è questo il tipo di copertura più
spesso utilizzato nel pentolame o, al di sopra dell’ingobbio, nella ceramica da mensa medievale.
Se nella preparazione della copertura a base di quarzo si ha l’intenzionale aggiunta di biossido di
stagno allora si parla di smalto, un rivestimento bianco che ottiene di celare il colore dell’impasto e
di conferire superfici lisce, rese brillanti da un altro componente dello smalto, il piombo. Tali
ceramiche, dette maioliche, a partire dal XIII secolo costituirono in molte regioni italiane i primi
servizi di una qualche complessità caratterizzanti le tavole medievali.
Sia la vetrina che lo smalto sono solitamente applicati sui vasi già cotti ed è importante rilevare
che, diversamente dall’ingobbio, essi imposero ai vasai di rifornirsi di materiali diversi da quelli
solitamente usati e caratteristici invece dell’arte vetraria. Tali materiali finemente macinati erano
sospesi in acqua e quindi applicati sia per immersione sia per spennellatura, spesso risparmiando
alcune parti dove la funzione impermeabilizzante non era importante: nel Bassomedioevo era ad
esempio normale non invetriare la parte bassa sull’esterno delle brocche o l’esterno delle ciotole.
La cottura
Passaggio ineludibile del produrre ceramica è ovviamente la cottura. Negli ultimi seimila anni nel
mondo sono stati costruiti molti tipi di fornace, ma le stesse sono abbastanza facilmente
riconducibili a soli tre casi differenziabili a seconda dell’ambiente in cui si attua la reazione, ossia
la cottura dell’argilla e la cessione nell’atmosfera dell’acqua che essa contiene.
Il tipo più semplice, e certamente più antico, è la fornace a catasta, all’aperto o in fossa, in cui si ha il
diretto contatto dei vasi con il combustibile. Questo tipo di fornace, con o senza copertura di
terra o erba, non permette un pieno controllo delle temperature (in fase di riscaldamento, di
mantenimento e di raffreddamento); ciò fa sì che le cotture risultino irregolari e i prodotti sfornati
presentino vari difetti. Essa non è adatta per vasi con rivestimento vetroso, che verrebbero
danneggiati dal contatto con il fuoco. Nonostante l’impiego di fornaci a catasta ancora in età
moderna, fin dall’età del Bronzo, per ovviare agli inconvenienti ora menzionati si procedette alla
costruzione di fornaci con due camere separate da una parete d’argilla forata (suola) e destinate la prima
al combustibile, la seconda alle ceramiche. In questa camera, quasi sempre sovrastante a quella di
combustione, i vasi in cottura potevano essere impilati gli uni sugli altri ed essere investiti dai
fumi e dal calore senza essere a diretto contatto del fuoco. In tal modo furono prodotte tutte le
ceramiche con rivestimento del Medioevo e fra esse sono relativamente rare le imperfezioni
dovute a colpi di fiamma attraverso il setto divisorio o a fumigazioni non volute. Le fornaci con
camere separate possono essere di molti tipi e solitamente si distinguono quelle orizzontali, in cui
le due camere sono contigue e sullo stesso piano, da quelle verticali in cui la camera di cottura è
sovrapposta a quella di combustione. In questo caso la separazione è data da una suola forata
retta da uno più sostegni (centrale, a muretto, radiale, ad arco...).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Il terzo tipo di fornace evita qualsiasi contatto fra i prodotti della combustione e i vasi ed è detta
muffola. I vasi sono difatti posti in camere chiuse riscaldate dall’esterno, così da potersi ottenere ad
esempio maioliche o altri manufatti privi di annerimenti dovuti al fumo. Questo tipo di fornace è
oggi di normale impiego, ma non per questo deve considerarsi caratteristico dell’età moderna
essendo già stato adoperato in età classica per produzioni di pregio condotte con modalità
“industriali”. Spesso questo sistema era ridotto a un accorgimento che veniva messo in atto con
metodi piuttosto semplici, senza neppure costruire una vera e propria fornace a camere separate,
ma più semplicemente racchiudendo ogni singolo vaso da cuocere in scatole di ceramica o in vasi
più grandi che costituivano quindi la camera di cottura (fig. 12).
Il tipo di fornace adottato nelle diverse situazioni è sempre da considerarsi conseguenza di una
scelta condizionata, se non addirittura obbligata, da più fattori: da un lato i modi generali di
produzione, e quindi il contesto storico locale, dall’altro il tipo di prodotto che si intendeva
realizzare e quindi la necessità di controllare in modo più o meno attento la regolarità della
cottura.
In conseguenza di quest’ultimo fatto, lo studio dei reperti informa quasi sempre del tipo di
fornace in cui gli stessi furono cotti e, se è spesso impossibile determinare la forma o la
dimensione della fornace, è quasi sempre possibile valutarne il tipo e alcuni parametri importanti
del processo:
1. atmosfera all’interno della fornace: se ossidante, avendosi quindi presenza di ossigeno, la
ceramica sarà più chiara, a parità di impasto, che non nel caso dell’atmosfera riducente, quando
l’ossigeno è carente e nella fornace è presente in quantità nerofumo. Per avere atmosfera
ossidante necessita un buon tiraggio (e quindi ingresso di aria fresca) oltre all’uso di legna secca;
l’atmosfera riducente si ha procedendo al contrario e spesso con l’aggiunta intenzionale di legna
umida od ossa e altro materiale che faccia molto fumo. In molti recipienti ceramici visti in
frattura si possono notare “strati” diversi per colore che sono la conseguenza del succedersi di
condizioni ossidanti e riducenti durante la stessa infornata (fig. 13).
2. Modalità di impilamento dei vasi nella fornace: sui reperti ceramici in molti casi è possibile
riconoscere come i vasi venissero posti nella fornace ed è questo un aspetto importante del
processo produttivo. Per incrementare la produzione risparmiando combustibile è ovvio che al
vasaio converrebbe sempre riempire il più possibile la fornace, ma questo non sempre è possibile:
egli deve ad esempio lasciare degli spazi sufficienti alla regolare circolazione dei fumi e del calore
e deve anche evitare che un vaso si “incolli” a quello adiacente rovinandone, come minimo, il
rivestimento. Per questo motivo i vasai usavano appositi distanziatori (semplici pietre, a
colonnina, conici, a zampe di gallo) posti fra un vaso e l’altro a separarli o a creare dei veri e
propri ripiani all’interno della fornace. Spesso il segno di questi distanziatori è ravvisabile
nell’interno di forme aperte ingobbiate o invetriate o sotto la tesa di piatti.
L’uso e la vita dei vasi
Nella vita di un contenitore ceramico la terza fase, che segue a produzione e commercio, è quella
connessa all’uso. Di ciò in questo lavoro deve necessariamente parlarsi perché questione
fondamentale su cui ancora troppo poco gli archeologi si sono esercitati. Per molti aspetti si può
sostenere che la vita del vaso inizi solo con la sua fuoriuscita dalla bottega del vasaio e che
divenga un manufatto d’uso per un periodo di tempo che possiamo stimare essere svariate
migliaia di volte più lungo del tempo occorso a foggiarlo, decorarlo, cuocerlo. Fra l’altro è del
tutto ovvio che il vasaio lavora per soddisfare determinate esigenze che nello specifico può non
conoscere ― ad esempio può non sapere fare il formaggio ―, ma che deve sapere soddisfare
realizzando un colatoio da formaggio perfettamente adatto allo scopo. Lo studio della tecnica e
della produzione, in questo come in altri casi, non può perciò essere disgiunto dallo studio
dell’uso e, vale la pena ricordarlo, per fortuna i manufatti ceramici spesso sono molto informativi
anche per questi temi di grande interesse socioeconomico (preparazione del cibo, conservazione

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

alimenti, trasporto…) già elencati nel precedente paragrafo I veri motivi dell’importanza delle ceramiche.
In Preistoria la produzione è effettuata in genere dall’utilizzatore che quindi è cosciente degli
elementi necessari alla funzionalità del suo manufatto. Purtroppo, escluse certe forme specifiche
(ad esempio bollitoi e colini da latte, fusaiole, ugelli, fornelli), lo stretto rapporto tra produttore e
utilizzatore non rende più sicure le interpretazioni archeologiche. Tentativi d’interpretazione
funzionale della ceramica preistorica sono stati effettuati, in Italia, soprattutto per il periodo
protostorico. In questi casi si è fatto ricorso all’etnografia o a studi antropologici, ma mancando
la risposta dal dato archeologico, l’ipotesi interpretativa non è, per forza di cose, completamente
sicura e attendibile (RECCHIA 1997).
Lo studio della produzione non può del resto essere disgiunto dallo studio dell’uso anche per due
motivi la cui importanza dovrebbe essere evidente. Il primo motivo è che, quasi sempre, gli
archeologi indagano siti di consumo, come ad esempio fondi di capanna singoli o in villaggi, ville
o città, e solo raramente siti produttivi che ovviamente sono più rari e meno estesi. I contesti che
gli archeologi studiano dipendono quindi dalle condizioni d’uso e di scarto dei manufatti e solo
guardando queste si potranno fare considerazioni significative per capire anche la produzione. Se
ciò non bastasse, il secondo motivo è che le stesse datazioni della stratificazione, dipendendo
quasi sempre dai materiali ceramici presenti, devono tenere conto non solo della data di
produzione (il momento in cui quell’oggetto fu prodotto), ma della durata della sua vita, perché è
evidente che alcuni oggetti possono essere stati seppelliti anche molto tempo dopo essere stati
prodotti.
In sintesi, per lo studio di un recipiente ceramico i caratteri da considerare sono diversi: la forma
e il tipo di materiale o di rivestimento superficiale, già di per sé possono indiziare un qualche uso
o escluderlo completamente. Come minimo si possono distinguere recipienti idonei alla cottura
da recipienti non in grado di sopportare ripetuti sbalzi termici. Talvolta si distinguono così
recipienti da fuoco, o “da caldo”, che oltre al pentolame comprendono ad esempio scaldini e
bracieri, da recipienti da acqua, o “da freddo”, che ovviamente potevano anche essere usati per
altri liquidi non alimentari.
Con maggiore dettaglio, e tenendo conto della possibilità che un vaso fosse usato diversamente
dal modo per cui era stato realizzato, le ceramiche possono essere divise in più categorie
funzionali: conservazione, trasporto a distanza, preparazione del cibo, cottura, servire a tavola. In
certi casi uno stesso vaso può essere impiegato per più scopi; è il caso dell’olla, utile sia a cuocere
che a conservare, ma non vanno dimenticati, all’opposto, contenitori molto specializzati come ad
esempio i colatoi per la preparazione del latte, i bollitoi, i mortai, i biberon, i pitali, i calamai...
Le principali categorie funzionali sopra menzionate possono essere ulteriormente suddivise
introducendo altre differenze minori, ad esempio il particolare tipo di conserva (di solidi, di
liquidi, a breve o lungo termine...), ma realmente significativo è il fatto che, solo in certi casi, la
forma e il materiale informano con precisione dell’utilizzo per il quale un certo tipo di vaso fu
progettato. Per accertare invece quale fu l’uso effettivo di uno specifico contenitore occorre
perciò studiarne le superfici dove possono identificarsi deposizioni di nerofumo, usure e segni di
attrito, presenza di residui organici.
Il nerofumo se presente sull’esterno di un recipiente informa non solo genericamente dell’uso per
una qualche cottura, ma dei modi in cui la stessa si è attuata e della posizione e della distanza del
vaso dal fuoco; se la deposizione di carbone è all’interno si può cercare di distinguere se si tratta
di un vaso usato per tostare o cuocere cibi secchi (incrostazioni sul fondo) o se invece era usato
per bolliti (annerimenti sulle pareti).
Le alterazioni sulla superficie dei recipienti, essendo conseguenza di attriti e urti, indirettamente
informano dello strisciare di una brocca sul tavolo, del rimescolare di un attrezzo sul fondo di
una pentola, dell’uso di stoviglie che lasciano il segno sull’orlo di un piatto, di un eventuale
riutilizzo, ad esempio come sottovaso per fiori.

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Diversamente dai precedenti, lo studio dei residui organici presenti sulle superfici di recipienti
ceramici, benché avviatosi fin almeno dal 1877 riconoscendo i prodotti di alterazione di oli e
resine in alcune anfore, risente ancora del dover ricorrere a tecniche analitiche complesse.
Notevoli problemi dipendono poi dal dover correlare quanto si trova ormai alterato sui recipienti
ai grassi caratteristici dei diversi alimenti. Buoni risultati sono stati comunque ottenuti per i
contenitori da trasporto, in cui vi era o l’olio o il vino o il garum, mentre più difficile è lo studio
del pentolame in cui ovviamente possono esserci residui caratteristici di un mix di ingredienti
associati fra loro in qualche ricetta o, addirittura, in più ricette successive.
Lo studio della vita dei manufatti e quindi dei processi d’uso e di scarto è comunque argomento
avente vastità e complessità perlomeno pari alla sua importanza e in questa sede il richiamarlo
così brevemente è soprattutto un invito a non separare lo studio dei materiali e delle tecniche di
fabbricazione da quello dei contesti socioeconomici.
A conclusione di quanto esposto in questo paragrafo, vale la pena di ribadire che per la
produzione ceramica preistorica le osservazioni riportate il più delle volte sono possibili a causa
della mancanza di riscontro fra i dati archeologici e quelli iconografici o delle fonti scritte. Ancora
una precisazione va fatta per quanto riguarda le alterazioni superficiali dovute all’uso nonché al
reperimento all’interno dei recipienti delle sostanze a suo tempo contenutevi. Per quest’ultima
eventualità, la casistica attuale è praticamente non utilizzabile per trarre conclusioni determinanti.
Per il reperimento delle tracce di uso più o meno evidenti ed estese, va notato che le ceramiche
preistoriche vengono spesso recuperate in uno stato elevato di frammentarietà, indizio per altro
di forti stress postdeposizionali; oltre a ciò le particolari condizioni di cottura non ottimali e la
frequente permanenza in depositi corrosivi, conducono alla perdita della quasi totalità delle
microtracce di uso o all’alterazione delle stesse. Va comunque precisato che, forse a causa dei
motivi esposti, uno studio finalizzato al reperimento di tracce d’uso sulla ceramica preistorica è, al
momento attuale, decisamente carente.
Etnoarcheologia di produzione e consumo
Le ricerche etnoarcheologiche specificatamente progettate per la raccolta di dati utili allo studio
delle ceramiche antiche analizzano situazioni, di produzione e uso, in cui è possibile associare
determinati comportamenti a effetti materiali riconoscibili sui reperti o in situazioni di scavo.
Relativamente alla produzione si è fatto molto, e di particolare interesse sono quei lavori attenti ai
gesti tecnici, alla valutazione dell’apprendistato che conduce un giovane a divenire vasaio, al
riconoscimento delle difficoltà dipendenti, ad esempio, dalla forma e dimensione del prodotto.
Più recenti, e se si vuole innovative, sono invece le ricerche relative alle modalità di uso delle
ceramiche. In pochi anni questi lavori hanno dimostrato che, per l’interpretazione dei dati
riferibili all’uso dei diversi contenitori, disporre di osservazioni etnoarcheologiche è quasi sempre
fondamentale. Nei contesti viventi è difatti possibile rilevare dal vivo le conseguenze di un
determinato tipo di cottura, le situazioni che comportano usure superficiali, i casi in cui si
determinano depositi riferibili al contenuto dei recipienti, le occasioni in cui lo stesso si rompe;
ciò, come minimo, fornisce un arricchimento di conoscenze e un quadro più ampio di ipotesi da
prendere in considerazione quando si studiano reperti archeologici.
La Tabella–Guida
La Tabella–Guida che segue (tab. 1), forse velleitariamente si propone di costituire uno schema in
cui le informazioni relative a Materiali e tecniche di fabbricazione (ma non solo) siano organizzabili
distinguendone la natura. Filo conduttore per questa operazione sono, nella colonna di sinistra, le
tappe del ciclo produttivo di un generico recipiente ceramico non eletto a feticcio od obiettivo
dello studio, ma, volenti o nolenti, elemento costitutivo, con altri, dei contesti deposizionali,
archeologici e storici che si intendono ricostruire a partire da quello.
Nella colonna Indicatori si propone di inserire quelle informazioni rilevabili sui manufatti che

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

informino di una data fase del ciclo: ad esempio argilla depurata, con chamotte, segni di tornitura,
impronta di distanziatori, tracce d’uso, associazione di rinvenimento. Quasi sempre utile sarà
cercare di quantificare le osservazioni distinguendo ad esempio quanto rilevato su un singolo
esemplare e quanto su tutti i reperti (è ovvio che la tabella va compilata se non per singoli oggetti
per singoli tipi produttivi e funzionali, e cioè per insiemi di manufatti aventi tutte le caratteristiche
ritenute sufficienti per distinguerli da altri; in seguito, confrontare le tabelle compilate per più tipi
avrà il pregio di evidenziare tratti ricorrenti — spesso i passaggi fondamentali del ciclo — e tratti
peculiari, ponendo così di fronte non più al ciclo generico, e astorico, della ceramica che si è detto
sopra rappresentabile come un albero, ma alla molteplicità degli alberi di una foresta storica
(ognuno con una propria caratterizzazione oltre che vita).
La colonna Contributi archeometrici aggiungerà informazioni a quanto già rilevato sul manufatto o lo
modificherà sulla base di osservazioni petrografiche, ad esempio in sezione sottile, geochimiche,
tecnologiche. Similmente le colonne Contributi archeologico sperimentali e Contributi etnoarcheologici
riporteranno quanto, su quel passaggio del ciclo, esse offrono senza dovere in ogni occasione
ricordare che si tratta comunque di osservazioni da valutare se pertinenti o meno al caso in
esame. Stesso discorso per la colonna Contributi indiretti e qui è facile prevedere, ma non è per
questo insignificante, che molte fasi del ciclo non saranno quasi mai menzionate dalle fonti scritte
né tanto meno raffigurate in alcun modo.
La colonna Cultura materiale, certamente quella di più difficile compilazione, intende invece
ricordare che tutto il lavoro fatto, quando non sia funzionale ad altro (ad esempio la datazione di
una stratificazione basata sulla tipologia dei manufatti) deve avere un senso storico. Lo studio
della ceramica, ovviamente non da solo, deve infatti cercare di dare qualche risposta che non sia
solo la storia della ceramica, ma sia ad esempio d’ordine sociale, economico, culturale. È in questa
colonna che la ceramica diviene fonte storica riconoscendo la specificità della produzione locale
in rapporto all’ambiente, al sistema di scambio, ai rapporti sociali, al divenire più generale dei
processi di trasformazione della società. Al fianco di questa colonna quella denominata Significativi
problemi di ricerca è destinata ad ospitare spunti ancora immaturi, idee o ipotesi e vale però la pena
ricordare che è abitudine di molti archeologi rinviare sempre le conclusioni a future e auspicate
nuove ricerche. Questo procedere talvolta sembra però essere solo un comodo mezzo per
prendere tempo, senza davvero impegnarsi nello spremere i dati o senza discutere cosa davvero
manchi per migliorare lo stato delle conoscenze su temi significativi.
Nella colonna Casi di studio si riporteranno i dati relativi a contesti rilevanti per la comprensione
delle singole fasi del ciclo, mentre nell’ultima colonna si raccoglieranno i riferimenti bibliografici e
le figure.
Schematizzazione di alcuni caratteri tecnologici importanti per l’uso
Sottigliezza pareti: conduce meglio il calore, cuoce prima, resiste meglio agli sbalzi termici; pareti
spesse sono più robuste meccanicamente.
Resistenza meccanica: migliore in ceramiche cotte a temperature alte e ambiente riducente.
Comportamento termico: migliore se non ci sono angoli o carene, se le pareti sono sottili, se i
dimagranti sono opportuni.
Porosità, permeabilità, densità (sono fra loro collegati): se la porosità è alta l’acqua nelle brocche resta
fresca, ma con il tempo i sali depositati occludono i pori e la porosità decresce. Per le anfore e per
vasi destinati allo stoccaggio la porosità è meglio bassa (per evitare perdite). I trattamenti interni
che riducono la permeabilità, ma non la porosità sono ottimali perché non riducono la resistenza
agli shocks termici dall’esterno.
Schema delle testimonianze d’uso rilevabili su recipienti ceramici
Tracce d’uso: abrasioni, rotture, rivestimenti applicati dagli utilizzatori (pece, cera, gesso…),
incrostazioni (fosfati, pollini, sali, resine, carboidrati come zuccheri e amidi, grassi animali e

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

vegetali). In molti casi se ne riconoscono solo i prodotti di alterazione. E ancora fumigazioni e


alterazioni dei caratteri fisici del materiale (fig. 14).
Manutenzioni: asportando, forando, saldando, cucendo, ponendo perni, chiodi, legature. Parziale
perdita di efficacia e robustezza (fig. 15).
Restauri e modifiche: adattamenti intenzionali o scelte conseguenza di accidenti.

Cultura materiale
Contributi etno -

indiretti (fonti
archeometrici

Casi di studio

Bibliografia e
archeologico
sperimentali

archeologici

Significativi
problemi di
Contributi

Contributi

Contributi
Indicatori

scritte,

ricerca

figure
materiali e loro X X X X
approvvigionamento
depurazione e X
preparazione
preparazione X
dell’impasto
foggiatura X X X X X
essiccazione X X
rivestimento X X X X X X X
decorazione X X X X X X
prima cottura X X X X X X
trattamenti X X
superficiali
invetriatura X X X X X X
decori e invetriatura X X X X X X
smaltatura X X X X X X X
seconda cottura X X X X X
altre decorazioni X X X X
terza cottura X X X X X
scambio e X X X X X X
commercio
utilizzo X X X X X X X
rottura e X X X X X
defunzionalizzazione
riparazioni e riusi X X X X X
scarto e X X X X X
seppellimento
scavo e raccolta X X
reperti

Tab.1: Tabella–Guida. Con X sono indicate le caselle generalmente di più frequente e talvolta importante
compilazione.

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Uso Forma Importanza Trattamento Tracce sul Contesti


materiale superfici manufatto particolari
stoccaggio bocca stretta + Impermeabilizza- segni o scritte rituale
chiusure zione residui nei pori
sospendere
cuocere rotondità +++ nessuno usure interne
accessibilità
preparare come sopra ++ Impermeabilizza- usure interne
cibo a (resistenza) zione
freddo
servire accessibilità, prese, + notevoli per rari sepolture
base piatta questioni di stile
misure come dosi
individuali o di
gruppo
trasporto maniglie, prese, bocca ++ rari dimensione non domestici
piccola uniforme o
multiple, residui
di contenuto

Tab. 2 – Tentativo di schematizzare le relazioni esistenti fra modalità di utilizzo, caratteri del prodotto, tracce d’uso e
contesti di rinvenimento (da RICE 1987, modificata).

Riferimenti bibliografici
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

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* * *

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 1 – Statuette fittili da Dolnì Veštonice, Gravettiano antico, 26 000 anni BP (da KOSLOWSKI 1992, tav. 32).

Fig. 2 – Diffusione della ceramica (da GUILAINE 1994).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 3 – Sarcofago in terracotta da Cerveteri, seconda metà del VI secolo a.C.


(Roma, Museo Archeologico Nazionale di Villa Giulia).

Fig. 4 – Antefissa in terracotta, 500 a.C. circa (Roma, Museo Archeologico Nazionale di Villa Giulia).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 5 – Fosse scavate lungo l’argine di un fiume, dove veniva lasciata l’argilla per una prima sedimentazione
(da PICCOLPASSO 1548).

Fig. 6 – Decantazione in acqua corrente con sistema a vasche (da CUOMO DI CAPRIO 1985, fig. 8).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 7 – Decoro plastico (da SERONIE-VIVIEN 1982).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 8 – Decoro impresso (da SERONIE-VIVIEN 1982).

Fig. 9 – Rotella per imprimere la decorazione sull’argilla ancora umida (da CARUSO 1979, fig. 39).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 10 – Vaso troncoconico trattato a squame (da BAGOLINI 1981, fig. 108).

Fig. 11 – Principali sequenze di esecuzione di vari prodotti ceramici; in basso la sequenza dei diversi rivestimenti
osservabili in frattura (da GIANNICHEDDA 1996, tav. 68).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 12 – Principali tipi di fornaci: I. a catasta; II.–III. a camere separate, verticali e orizzontali; IV. Muffola
(da MANNONI ET AL. 1996, fig. 33).

Fig. 13 – Diagramma del campo di variabilità del colore degli impasti argillosi e tabella dei principali casi riscontrati
sulle ceramiche fini e grossolane per quanto dipende dall’atmosfera di cottura, dalla presenza di materiale organico,
dall’ingresso improvviso di aria nella fornace (da MANNONI ET AL. 1996, fig. 11).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

Fig. 14 – Alterazioni d’uso rilevabili su contenitori ceramici postmedievali, in assenza di danneggiamenti da


seppellimento e postdeposizionali (da MANNONI ET AL. 1996, fig. 26).

Fig. 15 – Esempi di possibili rotture e riparazioni in vista di possibili riusi (da MANNONI ET AL. 1996, fig. 28).

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