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APPUNTI DI CRISTOLOGIA

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In questa nostra seconda lezione di cristologia, dopo aver chiarito le possibilità e i limiti della
ricerca storica che abbiamo vista applicata alla figura di Cristo, teniamo presente come canovaccio
quanto scrive il primo documento della Commissione Teologica Internazionale “Quaestio de Jesu
Christo” del 1980.
E’ importante puntualizzare che l’indagine storica non è sufficiente per una conoscenza veramente
cristiana di Cristo; infatti per comprendere Cristo in modo adeguato dobbiamo tenere conto della
testimonianza della comunità cristiana che crede in Lui.
Così scrive il documento: << Una ricerca Cristologica che pretendesse di limitarsi al solo Gesù
della storia, sarebbe incompatibile con l’essenza e la struttura del Nuovo Testamento, prima
ancora di venire rifiutata da un’autorità religiosa esterna. La vita di Gesù non può essere
compresa se la si disgiunge dalla sua morte e dalla sua resurrezione. L’evento di salvezza che è
Gesù Cristo consiste nella totalità unità della sua vita, morte e resurrezione. >> e prosegue: <<
Non ci sono leve di Archimede al di fuori del contesto ecclesiale, anche se ontologicamente nostro
Signore conserva sempre la priorità e il primato sulla Chiesa. >>1
Se per continuare la ricerca cristologia è importante avvicinarLo e accostarLo secondo la
testimonianza della comunità cristiana, è importante tenere presente non solo la fede dei cristiani
espressa nel Nuovo Testamento ma anche la fede espressa secondo i dogmi cristologici dei Padri
della Chiesa, la fede cristologica dei primi concili.
Noi ci fermeremo su quelli che sono definiti capisaldi della cristologia, i Concili di Nicea, di
Calcedonia e il Costantinopolitano III.

Il CONCILIO DI NICEA2, che ha luogo nel 325 d.C., affronta una problematica cristologica che
occupa praticamente tutto il IV secolo d.C.; è quella della divinità del Figlio. Una questione posta in
modo speciale da Ario, con la gravità che noi conosciamo, una questione che sarà affrontata a Nicea
e che sarà risolta soprattutto con l’aiuto dei Padri della Chiesa: S.Atanasio di Alessandria e S.Ilario
di Poitiers.
Il Concilio è convocato dall’imperatore Costantino che nemmeno chiese il permesso di Roma e
questo precedente creerà una tradizione che varrà poi per tutti i Concili orientali della Chiesa.
Costantino è il testimone della dimensione politica del dissenso religioso, infatti la stessa unità
dell’impero veniva messa in causa dai conflitti teologici. C’è da considerare che una così
importante riunione di Vescovi rivestiva anche una fondamentale importanza politica.

1
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Quaestio de Jesu Christo, in , COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE
Documenta (1969-2004) , Bologna, ESD, 2006, 169.
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Cfr. B. SESBOUÉ – J. WOLINSKI, Storia dei Dogmi, il Dio della salvezza, Casale Monferrato, PIEMME, 20002, 220-226.

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Secondo gli autori antichi il Concilio di Nicea conta tra i 250 e i 300 Vescovi, la procedura è quella
della riunione dei “Comitia” che erano i differenti ordini civili dell’impero che venivano radunati
per deliberare su quanto era di loro competenza.
La questione principale era quella della divinità del Figlio, messa in discussione da Ario, che
sosteneva che il Verbo del Padre a questi inferiore, preesistente al mondo e agli angeli, è capace di
mutazione e si è unito a una carne umana a titolo di strumento divenendone l’anima.
Si fonda sul testo del Libro dei Proverbi al capitolo 8, 22 dove è scritto: << Il Signore mi ha
creata.>>
Secondo Ario vi è un solo e unico Dio e il Figlio e lo Spirito Santo sono le sue prime creature.
La definizione di Nicea si collega al simbolo così detto di Cesarea; così scrive il Concilio di Nicea,
325 d.C.: << Crediamo in un solo Dio e in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato
unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio
vero, generato, non fatto, consustanziale al Padre, per mezzo del quale tutte le cose furono
originate, quelle nel cielo e quelle nella terra e nello Spirito Santo. >>
Nel 325 d.C. queste non sono affermazioni nuove ma esplicitazioni, interpretazioni più approfondite
ed esplicite di quanto era già stato detto. Si era infatti sempre professato che il Figlio era generato
dal Padre, bisognava allora spiegare che cosa si intendeva per “generazione”.
Ci sono due tipi di “generazione”: la vera generazione può avvenire secondo la sostanza di colui
che genera e senza separazione di sostanza.
Secondo la sostanza di colui che genera pensiamo al Padre che genera il Figlio;
senza separazione di sostanza pensiamo al pensiero generato nella nostra mente. La differenza
grande è tra generazione e creazione, infatti la creazione implica sempre una diversità di sostanza.
Dunque Cristo è generato, senza separazione di sostanza, dal Padre.
Certamente lo stesso utilizzo del termine sostanza diviene problematico in quanto per la prima volta
viene introdotta in un testo ecclesiale, ufficiale e normativo, una parola che proviene dalla filosofia
greca, una parola di carattere non scritturistico e diciamo anche di difficile interpretazione. Perché
questo? Vale la pena di fermarsi su questo problema, sull’utilizzo delle categorie della filosofia
greca per formulare la nostra fede, in quanto ancora al discorso tenuto a Regensburg due anni fa
Benedetto XVI è tornato sul tema della ellenizzazione o meno della nostra fede cristiana, cioè
sull’accusa che ancora oggi viene mossa alla fede cristiana di essersi inquinata con l’utilizzo di
espressioni e di concetti che non le appartengono. propri della filosofia greca.
In realtà la Parola di Dio si fa umana per essere compresa da intelligenze umane, la Parola di Dio è
una Parola di Dio che vuole restare viva attraverso i tempi e che perciò ha bisogno delle parole
umane per essere espressa. E’ lo stesso principio dell’Incarnazione che giustifica l’utilizzo della
filosofia greca per dire la nostra fede. Infatti Gesù Cristo usa un corpo singolare e parla una lingua

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particolare e usa abiti particolari per poter dire Dio. E’ vero: Cristo è immagine di Dio, Cristo è Dio
ma incarnandosi scegli parole umane, corpo umano, abiti umani. Il messaggio della scrittura fruisce
di un suo fluire storico, ha bisogno continuamente di essere interpretato, questo è il dogma:
traduzione, interpretazione della Parola di Dio con i nuovi linguaggi.
Quando la riflessione antica, la parola antica non chiarifica più il dibattito, bisogna intervenire
creando qualcosa di nuovo da parte del dogma, questo per dire brevemente una parola intorno al
problema che ancora oggi affatica la riflessione teologica e a cui lo stesso Benedetto XVI, il 12
settembre 2006, nel suo discorso all’Università di Regensburg ha offerto un ulteriore
approfondimento. Affrontando il tema della de-ellenizzazione della teologia cattolica e cioè di quel
movimento di pensiero che vorrebbe spogliare la riflessione critica sulla fede di tutti quei
riferimenti che rimandano alla filosofia greca, scrive che è un procedimento arbitrario e fonda
l’unione tra la riflessione biblica, la pagina biblica e il pensiero greco addirittura nella traduzione
della Bibbia dei Settanta e dunque nella stessa pagina biblica, così come ci viene consegnata in
questa traduzione e nel fatto che Dio non è contro la ragione che Egli stesso ha creato. Perciò se il
pensiero greco è una delle massime espressioni della ragione umana, il Creatore che non va contro
quanto ha creato non può esprimersi e rivelarsi contro quella stessa ragione da Egli stesso creata.
Dunque radici profondissime quelle che giustificano la possibilità di intesa e di unione tra la
filosofia greca e il pensiero biblico cristiano3.
Torniamo ancora al Concilio di Nicea e a quelli che furono i grandi Padri di questa stagione
conciliare teologica.
Sant’Atanasio, detto anima del Concilio di Nicea e patriarca di Alessandria d’Egitto. Vorrei tornare
su questo termine “consustanziale” riferito a Gesù in relazione al Padre, in greco “homousios”, è
molto importante trattandosi di precisare la perfetta identità del Figlio con il Padre, e dobbiamo
tenere presente che questa non è, come potrebbe sembrare, una questione antica o antiquata o
superata, in quanto oggi uno dei problemi che affligge la cristologia è proprio la divinità di Gesù

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“Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la
richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo
crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione:
pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una
dall'altra… Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora
brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la
molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata
una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare
indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed
inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana
ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito
greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi
nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo
che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte
della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.”.BENEDETTO XVI, Discorso ai Rappresentanti della
scienza, Aula Magna Università di Regensburg, 12 settembre 2006.

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Cristo soprattutto con i rapporti con la New Age, che vede volentieri in Cristo un grande sapiente,
un uomo dotto, un uomo dalla vita morale eccezionale ma rifiuta la divinità. Trattandosi di precisare
la perfetta identità del Figlio con il Padre, Sant’Atanasio si trova durante il Concilio di Nicea, di
fronte al partito di coloro che sostenevano valido l’utilizzo dell’aggettivo “somigliantissimo”.
Atanasio rifiuta questa proposta in quanto somigliantissimo dice la vicinanza, la rassomiglianza ma
non l’identità. Infatti la nostra esperienza ci dice che due gemelli possono essere somigliantissimi
ma non sono identici. Tertuttliano aveva introdotto la formula “dalla sostanza del Padre” ma
Atanasio comprende che siccome la sostanza divina non può essere divisa in parti, bisognava
precisare che la stessa sostanza del Padre, era la sostanza del Figlio, un po’ quello che abbiamo
precisato già sopra dicendo che si può derivare dalla sostanza, come il Figlio deriva dal Padre o
essere generati nell’identità della sostanza, come il pensiero nella mente. Allora Atanasio propone
questo termine consustanziale e cioè della stessa sostanza, identico nella sostanza. Il termine che è
nuovo ha però il pregio di indicare che non essendo dividibile la sostanza, dire consustanziale
implica una identità, cioè se la sostanza potesse essere divisibile, rimanendo identica a se stessa
nelle parti, io posso dire ho il Padre è separato, non identico il Figlio, ma non essendo divisibile la
sostanza se dico della stessa sostanza vuole dire che il Padre e il Figlio sono identici e non solo
somiglianti.

Credo che a questo punto varrebbe la pena di fermarci ancora un momento sul termine
“sostanza”, dato che sarà ripreso da San Basilio proprio per definire la Trinità contro l’eresia dei
semi-ariani come una sostanza e tre ipostasi o tre persone, che è poi la definizione che arriva fino a
noi.
Che cosa intendiamo dunque per “sostanza”, qui ci sarebbe da aprire una lunga parentesi che va
fino ad Aristotele, il filosofo per eccellenza della sostanza, non ci è permesso di farlo e mi limito
perciò a spiegare che la sostanza è ciò che è in se e non in un’altra cosa . Preciso meglio:
se io dico bellezza, nessuno di voi può pensare la bellezza ma penserà a un fiore, a un dipinto
magnifico, a una musica bellissima, a una donna dal viso stupendo. Nessuno può pensare la bellezza
in quanto in sé non esiste, ma se io dico questo o quell’uomo, tutti noi sappiamo chi è perché è
sostanza, cioè è in sé qualcosa. Ora la sostanza è perciò quanto costituisce l’essere proprio di una
realtà, l’essere per cui una cosa è quella che è, cioè ognuno di noi è sostanza umana in quanto è ciò
che è: è un uomo con quelle caratteristiche e quelle sue proprie operazioni. L’autonomia della
sostanza, il fatto di essere indivisibili, ma anche autonomi, indipendenti è dovuto al fatto che la
sostanza è per sé, cioè per esistere non ha bisogno di essere applicata ad altro, come la bellezza che
per esistere deve essere applicata a un dipinto, a una musica, al volto di una donna ma esiste per sé,
ha l’essere di per sé. Allora comprendiamo anche come la sostanza sia indivisibile oltre che

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indipendente e autonoma e comprendiamo l’importanza di quanto sancito dal Concilio di Nicea nel
325 d.C.. Se Cristo è “homousios” del Padre, cioè consustanziale, della sua stessa sostanza, è Dio
con il Padre.

Sempre collegato con l’accoglienza della verità della divinità di Cristo Signore è il problema di
conciliare la trascendenza e cioè la divinità di Gesù con l’immanenza, cioè con il fatto che Dio si
era fatto uomo, il problema che fa la sua comparsa nella disputa tra la scuola di Antiochia e quella
di Alessandria ma che ha delle radici più lontane che risalgono al monaco Eutiche che opera nella
metà del V° sec. d.C. cioè verso il 440 d.C. Eutiche è superiore di una grossa comunità monastica a
Costantinopoli, un uomo celebre e potente. Riconosce le due nature del Signore ma solo prima
dell’incarnazione. Nel momento in cui è avvenuta l’unione tra la divinità e l’umanità, non si può più
parlare di due nature ma di una sola natura, un'unica natura incarnata del Dio verbo.
Nel Cristo perciò, secondo Eutiche, è avvenuta una assimilazione delle due nature che smettevano
di essere differenti confondendosi e mescolandosi. La natura umana si perdeva nella natura divina
come una goccia d’acqua si può perdere nel mare, perciò il divino assorbe l’umano4.
Nel 448 D.C. Eutiche è denunciato per la sua dottrina e il Patriarca di Costantinopoli, Flaviano, lo
convoca in un sinodo locale, proponendogli di sottoscrivere questa formula: << Noi riconosciamo
che Cristo è di due nature, dopo l’incarnazione in una persona, confessando un solo Cristo, un
solo Figlio e un solo Signore. >>
Ma Eutiche ripete la sua formula, si rifiuta di firmare e il Sinodo lo depone e lo scomunica. Eutiche
gode di una terribile influenza politica e sociale e comincia una campagna a favore della sua tesi in
tutta l’Oriente; lo stesso imperatore di Bisanzio ( Costantinopoli), Teodosio II era dalla sua parte,
in quanto un funzionario di corte era figlioccio di Eutiche. Dunque si rimette in moto lo scenario
Conciliare.
Leone I detto Magno, Papa di Roma dal 440 D. C., cosciente della sua funzione invia i suoi legati:
Giulio vescovo di Pozzuoli, il prete Renato, il diacono Ilario e scrive a Flaviano, Patriarca di
Costantinopoli, una lunga memoria che si chiama abitualmente il “Tomo a Flaviano” in cui Leone
Magno ( Leone I Papa) espone il mistero dell’incarnazione e prende posizione contro Eutiche. E’ un
testo molto importante il “Tomo a Flaviano” in quanto è il primo trattato di cristologia latina, e
svolgerà un ruolo di primaria importanza proprio al Concilio di Calcedonia nel 451 d.C.
Il Concilio convocato nuovamente dall’imperatore si svolse a Efeso nel 449 d.C., lo presiedeva un
designato dell’imperatore Teodosio di nome Dioscoro.

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Per la rassegna storico-teologica su Eutiche la sua corrente cfr. J.Y. LACOSTE, Dizionario Critico di Teologia, Roma,
Borla-Città Nuova, 2005, 257 e B. SESBOUÉ – J. WOLINSKI, Storia dei Dogmi, il Dio della salvezza, Casale Monferrato,
PIEMME, 20002, 356-370.

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Il Concilio doveva esaminare la condanna contro Eutiche e il Tomo a Flaviano di Leone che
avrebbero dovuto leggere i suoi inviati; la teologia di Leone Magno consisteva in una chiara
esposizione della dualità delle nature che si uniscono in un'unica persona; viene mantenuta senza
confusione delle due nature una unione, unione che non comporta confusione o ambiguità.
Un’unica persona, quella del Figlio di Dio, in cui esistono due nature armonicamente unite, nature
che non erano personaggi o figure ma venivano considerate secondo la loro differenza; questa
concreta unità nelle distinzioni delle nature faceva sì che si potesse parlare poi della così detta
comunicazione degli idiomi, cioè del fatto che le proprietà della natura divina e della natura umana
potessero interagire armonicamente in una reciprocità perfetta. Ma tutto questo non poté essere
accolto e ascoltato in quanto il Concilio di Efeso si svolse in una grande turbolenza e l’inviato
dell’imperatore ad un certo punto aperse le porte della sala, fece entrare le guardie e il diacono
Ilario, che poi succedette a Leone Magno sul trono di Pietro, dovette rifugiarsi nella Cripta di San
Giovanni Evangelista, che poi lui sempre considerò il suo patrono, per evitare la morte. Fece molta
fatica a ritornare a Roma e riferire al Papa l’esito disastroso del Concilio.
Leone Magno lo definì non Concilio ma “Latrocinio”, infatti questo concilio di Efeso del 449 d.C.
fu ricordato nella storia della Chiesa come il Latrocinio di Efeso.

Il CONCILIO DI CALCEDONIA, dopo solo due anni, nel 451 d.C. si svolse nella Basilica di
Santa Eufemia e il primo impegno fu quello di lavare i panni sporchi del “Latrocinio di Efeso”,
infatti Dioscoro, l’inviato dell’ imperatore Teodosio al precedente Concilio fu invitato a non
presagire. Viene data lettura degli atti del Concilio di Efeso che sono respinti e si procede a
risolvere le questioni che riguardano la fede.
La definizione a cui perviene il Concilio di Calcedonia, 451 D.C. è la più celebre delle definizioni
dogmatiche e merita una attenta analisi. (La formula è leggibile e ben presentata nello schema
allegato.)

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<< Seguendo i Santi Padri all’unanimità noi insegnammo a confessare un solo e medesimo
Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, vero Dio e
vero uomo, consustanziale al Padre, consustanziale a noi per l’umanità fuorché nel peccato,

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generato dal Padre secondo la divinità e generato per noi da Maria Vergine secondo l’umanità ,
uno e medesimo Cristo Signore unigenito, da riconoscersi in due nature senza confusione;
immutabili, indivise, inseparabili non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa
dell’unione, salvaguardata anzi la proprietà di ciascuna natura e concorrendo a formare una
sola persona Egli non è diviso o separato in due persone ma è un unico e medesimo Figlio
unigenito, Dio verbo e Signore Gesù Cristo.
Come hanno insegnato i Profeti e lo stesso Gesù Cristo.
Infine come ci ha trasmesso il simbolo dei Padri. >>
Vediamo come l’utilizzo intenzionale del termine chiave del Concilio di Nicea:
“CONSUSTANZIALE” è situato nel caso dell’umanità. Il Figlio è consustanziale al Padre in un
senso numerico, cioè un’unica sostanza quella divina, un’unica natura quella della divinità ed è
consustaziale a noi nel senso della specie cioè della specie umana, dunque una doppia
consustanzialità: numerica per quella che si riferisce a Dio, specifica per quella che si riferisce
all’uomo.
Il Concilio di Calcedonia ha dato alla Chiesa la sua grande formula cristologica, questa formula
equilibrata e sintetica è definitiva, cioè è rimasta la chiave di volta della espressione ecclesiale della
fede in Cristo e ogni riflessione cristologica deve raffrontarsi ad essa.
Il vertice della definizione è stato di rispettare la piena umanità di Cristo che è mantenuta nella sua
originalità creata al cuore del mistero dell’incarnazione. Difendendo l’umanità del Verbo, questa
definizione difende anche la nostra umanità. Cosa vuole dire questo? Vuole dire che l’incarnazione
di Gesù Cristo difende la nostra umanità, la esalta; l’incarnazione di Cristo in una umanità come la
nostra esalta la nostra umanità e ci svela che Cristo si fa uomo proprio per rivelarci come essere
anche noi uomini perfetti, uomini riusciti. Il fatto che Dio si faccia uomo non è la morte
dell’umanità cioè la natura divina che schiaccia, umilia, mortifica, assorbe quella umana, ma è la
più perfetta promozione dell’umanità. Non si accoppiano le due nature come se si trattasse di due
realtà simili, comparabili, che si uniscono, la differenza resta ed è incommensurabile secondo il
bell’esempio: come l’anima e il corpo sono due principi specifici e fondamentali per dare luogo alla
creatura, alla persona umana, così le due nature: umana e divina.
Certo si può muovere anche un rilievo al Concilio di Calcedonia, non in quanto lo riteniamo
colpevole di mancanze ma in quanto rileviamo quello che la riflessione successiva dovrà compiere
cioè l’attenzione all’itinerario umano di Gesù, ai dati esistenziali della Sua incarnazione, a quella
esistenza storica che il Concilio di Calcedonia lascia da parte e che sarà materia per la successiva
riflessione teologica.

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Come in margine alla riflessione sul Concilio di Nicea abbiamo sviluppato una piccola appendice
sul concetto di sostanza, così in margine alla riflessione sul Concilio di Calcedonia, sviluppiamo
una considerazione in margine ai concetti di persona e di natura5.
La persona va intesa come un ente, un tutto completo, sussistente, che esiste di per sé e
incomunicabile: non che non può comunicare ma che non può comunicare la sua più profonda
identità che infatti anche filosoficamente si definisce mistero: il mistero della persona.
La persona è un ente, un tutto: completo, incomunicabile, sussistente, che porta in se stesso una
natura, una sostanza: completa, individuale, spirituale, fatta di anima e corpo. Voi direte, la persona,
questo tutto completo, incomunicabile, sussistente reca in sé una natura - per noi quella umana ma
per esempio per gli angeli quella angelica, per il Verbo quella divina e umana – che è ciò che la
persona è; nel caso della persona umana la natura umana che è ciò che l’uomo è; una natura che
nella persona si personalizza. Mi spiego meglio: la persona umana che sono io, reca in sé una
natura, quella umana della specie, che viene personalizzata, concretizzata, storicizzata nella persona
che sono io. La persona sussiste o esiste in sé, per conto proprio; è il principio dell’agire, è la
persona che agisce in conformità alla natura; la persona agisce secondo la sua natura, la persona è
un esistente concreto, la natura è reale ma non può essere concreto se non nella persona, infatti
mentre la persona è reale e concreta, io non posso pensare alla persona di Fabio Rondano senza
pensare a me, concretamente, storicamente. La natura può essere pensata concretamente: la natura
umana ma si concretizza solo nelle singole persone.
Questo discorso è importante in quanto soprattutto oggi si pensa alla persona umana come a
qualcosa che sia fondato o sulla relazione, o sul fatto dell’autocoscienza e della libertà. Mentre noi
abbiamo definito la persona come un ente, un tutto: completo, incomunicabile e sussistente, oggi si
tende a definire la persona o come la capacità di relazione o come l’autocoscienza e la libertà. Vale
la pena di fermarsi su questo aspetto.
I primi dunque sostengono: la persona non può dunque fermarsi su questo aspetto né si può
concepire senza una relazione con l’altro. Il rapporto con l’altro è fondamentale perché la persona
prenda coscienza di sé, oppure i secondi per la persona definita come autocoscienza e libertà: la sua
sussistenza è legata all’azione libera e alla consapevolezza di questa azione.
Certo l’intento è stato quello di combattere da un lato: egoismo, individualismo, impegno sociale e
perciò si è negato lo stesso essere persona al confronto al dialogo e alla relazione con l’altro e
dall’altro si è voluto uscire da una posizione che sembrava troppo astratta e slegata dal
coinvolgimento nella storia. Entrambe queste posizioni, tuttavia, presentano degli aspetti critici.
Veniamo alla persona come relazione: è vero che l’amore, il dono di sé agli altri, la comunione, la
solidarietà sono fondamentali e non parliamo poi della propria relazione con Dio, tuttavia nella
5
Cfr. JEAN HERVÉ NICHOLAS, Sintesi dogmatica 1, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1991, 392-429 e G.
CAVALCOLI, Il mistero dell’incarnazione del Verbo, in Sacra Doctrina, 3-4 maggio-agosto, 2003, (48), 92-128.

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persona creata se c’è relazione, c’è in quanto pre-esiste alla relazione il soggetto. Questa teoria della
persona è vero che si propone di scacciare l’individualismo e l’egoismo ma relativizza in maniera
pericolosa la stessa dignità della persona, infatti se la persona vale e addirittura sussiste, esiste in
quanto persona, solo nella sua capacità di relazione io mi domando in coloro in cui il relazionarsi
viene meno, o sul cui relazionarsi si possono esprimere dei dubbi – penso alle persone in coma
vegetativo – è possibile parlare ancora di persona, la dignità di queste persone può essere ancora
affermata.
Solo coloro che sono capaci di relazionarsi, di manifestarsi, di farsi capaci di valere, di aderire e di
fare comunione sono persone? Coloro che non agiscono, che non si relazionano, possono vantare la
stessa dignità personale?
Qualcuno obietta in qualunque stato ci si possa trovare non di meno la persona è comunque sempre
in relazione con Dio. E’ vero, anzi guai, nel momento in cui venisse meno la relazione con Dio
verrebbe meno la persona, ricordiamoci che Dio è sempre presente in ogni sua creatura come colui
che la mantiene in essere, dunque è vero che la relazione con Dio mai viene meno, ma non
dobbiamo confondere la relazione intesa in senso morale, cioè l’apertura, solidarietà, intenzionalità,
con la relazione in senso ontologico cioè fondativo, metafisico, come dicevamo appunto: Dio che
tiene in essere la persona. Perciò quando si dice che è la relazione che fa esistere la persona, non
dobbiamo parlare o tirare in campo la relazione con Dio che è ben lungi dal poter valere come
esempio di relazione in senso morale, sociale, solidale è quanto mai un argomento a favore
dell’istanza metafisica della persona.

La seconda obiezione cioè della persona come autocoscienza e libertà, come azione e
coinvolgimento nella storia non tiene conto di nuovo che il soggetto pre-esiste alla azione e di
nuovo che la dignità della persona è fondata nel suo sussistere – esistere per sé a immagine di Dio –
e non tanto nella sua possibilità di agire o di non agire. Pensiamo ad esempio all’embrione che non
ha autocoscienza e che difficilmente può esprimersi liberamente, è persona? nella misura in cui noi
riteniamo la persona come autocoscienza e libertà difficilmente potremo sostenere che l’embrione è
persona. Di più, venendo alla cristologia se noi intendiamo la persona come autocoscienza e libertà,
in Gesù Cristo dovremmo ammettere che esistono due persone e non una sola, in quanto se in Gesù
ci sono due nature: divina e umana e due volontà divina e umana come ci insegnano la Sacra
Scrittura e il Magistero della Chiesa allora vuole dire che ci sono due persone se la persona è libertà
e autocoscienza; mentre sappiamo che la persona è una sola ed è quella divino – umana del Verbo
incarnato.
Ci fermiamo su questo aspetto che meriterebbe ulteriore approfondimento ma che è necessario
accennare.

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Proprio su questi temi dell’esistenza in Cristo di due nature e di un’unica persona, sul tema della sua
volontà divina e umana in Cristo la Chiesa raggiunge un ulteriore approfondimento nel TERZO
CONCILIO DI COSTANTINOPOLI che ha luogo nel 681 d.C., assume immediatamente il titolo
di Concilio Ecumenico; sono presenti ben 43 Vescovi e il Concilio avrà diciotto sessioni. E’ stato
definito Concilio di Archivisti e Bibliotecari per la grande importanza che fu attribuita – durante
questo Concilio – ai testi passati sul tema, soprattutto agli atti del Concilio di Calcedonia.
Nel Terzo Concilio di Costantinopoli si definiscono le due nature del Cristo: umana e divina, come
nature viventi che dispongono ciascuna della loro propria volontà, perché la volontà è una proprietà
naturale e alle due volontà si applicano dunque i quattro avverbi di Calcedonia: senza confusione,
immutabili, indivise, inseparabili tra loro non c’è opposizione perché ognuna si sottomette all’altra
ma non come un soggetto, una persona si sottomette a un altro soggetto in quanto il volere umano di
Gesù è lo stesso volere del Verbo secondo il principio dell’unione ipostatica che presuppone che la
natura umana non sia soppressa ma conservata nel suo stato in armonia con quella divina.
Leone Magno stesso aveva parlato di queste due volontà in una delle sue omelie sulla Passione di
Cristo, dicendo al proposito che nell’agonia nel Getzemani la volontà inferiore di Cristo aveva
ceduta alla volontà divina.
Il Terzo Concilio di Costantinopoli completa e prolunga Calcedonia: i due voleri e le due operazioni
del Cristo: umana e divina, sono necessarie alla salvezza del genere umano. In questo il Concilio si
fa più vicino alle Scritture perché mette in risalto il fatto che Cristo ha compiuto nella sua Passione
e nella sua Morte un atto integralmente e autenticamente umano, cioè un atto volontario e libero.
Secondo la dottrina di Massimo il Confessore la volontà è auto-determinativa, cioè è capace di
decidere e di realizzare la persona che vuole, questa qualità è stata mantenuta da Cristo. Dice
Massimo il Confessore non possiamo negare l’azione della volontà umana in Cristo altrimenti vuole
dire che la natura umana non era nient’altro che una marionetta, questo depone a favore
dell’integrità dell’umanità di Gesù perché vuole dire che la libertà personale del Figlio Verbo
prende una nuova determinazione divenendo uomo perché si esercita nel divenire. Quando nella
Lettera alagli Ebrei si scrive che: << Gesù imparò l’obbedienza dalle cose che patì >> ( Eb. 5,8) si
intende proprio questo, che l’uomo in Cristo imparò ad obbedire a Dio, che la volontà umana in
Cristo imparò l’obbedienza alla volontà divina in Cristo.
Scrive Joseph Ratzinger: << Il nocciolo del dogma definito nei Concili della Chiesa antica consiste
nell’affermare che Gesù è il vero Figlio di Dio, della medesima natura del Padre e anche mediante
l’incarnazione della medesima nostra natura. La fondamentale espressione dogmatica Figlio
consustanziale nella quale si può riassumere tutta la testimonianza degli antichi Concili, traduce
semplicemente il fatto della preghiera di Gesù, filiale in un linguaggio filosofico, nient’altro.

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Il vocabolo filosofico “consustanziale” non aggiunge nulla al Nuovo Testamento ma il punto
decisivo della sua testimonianza è la difesa della sua letteralità contro ogni allegorismo, significa
che la Parola di Dio non ci inganna, Gesù cioè non è solo denominato Figlio di Dio ma lo è; Dio
non rimane nascosto dalle nubi delle immagini, Egli tocca realmente l’uomo e si lascia realmente
toccare dall’uomo in colui che è il Figlio.
E’ il Terzo Concilio di Costantinopoli che ha analizzato concretamente la questione della dualità e
unità in Cristo, affrontando la questione della volontà di Gesù. Esso insiste esplicitamente sul fatto
che vi è una volontà propria dell’uomo Gesù che non è assorbita dalla volontà divina ma questa
volontà umana segue quella divina e diviene così un'unica volontà con essa non in modo naturale
ma sulla via della libertà, la duplicità metafisica di una volontà umana e di una divina non viene
superata ma nello spazio personale, nello spazio della libertà si compie la fusione di entrambe così
che esse diventano una volontà non naturalmente ma personalmente.>>6
Il professor Ratzinger sostiene e mette in luce una realtà bellissima espressa dal Terzo Concilio di
Costantinopoli, una realtà che coinvolge personalmente ognuno di noi, una realtà che per chi si
prepara domani a predicare Cristo Signore non è da poco, cioè che per ogni uomo, da quando il
Verbo di Dio si è incarnato sulla terra, è possibile accogliere e obbedire alla volontà divina, di più,
diventare una sola cosa con la volontà divina a modello e a immagine di Cristo. Come la volontà
umana di Cristo si è piegata nell’obbedienza alla volontà divina, così è possibile per noi, di più,
proprio per ovviare all’obiezione: in Cristo questo è capitato naturalmente, ontologicamente, cioè
per come stanno le cose che la volontà umana si è unita, piegata e ha obbedito alla volontà divina,
proprio per rispondere a queste obiezioni, il Concilio Costantinopolitano mette l’accento sulle due
volontà umana e divina che non coincidono ma sussistono senza confusione e divisione, non
confuse e mescolate ma armonizzate dalla libera obbedienza della volontà umana alla volontà
divina, Dunque quando gli autori spirituali, Sant’Agostino in testa, sostengono che in noi bisogna
generare nuovamente Cristo, ripercorrere il suo itinerario di obbedienza alla volontà di Dio, dicono
una cosa non simbolica o allegorica ma reale, possibile in noi come in Cristo, nella misura in cui
anche la nostra volontà umana liberamente e personalmente si piega alla volontà divina.
Gesù incarnandosi abbassa a tal punto il Logos, il Verbo di Dio che assume come sua la volontà di
un uomo e parla al Padre, a Dio con le parole di un uomo, con l’io di un uomo, con la libertà di un
uomo. Il Verbo affida il suo io a questa carne, a questo uomo e così la parola di un uomo diventa
parola eterna. Anche questo è importante che noi consideriamo, che noi diventiamo eterni, la nostra
libertà diventa capace di eternità, si divinizza – potremmo dire con i teologi orientali, ortodossi –
nella misura in cui si piega alla volontà divina, la riconosce come buona per sé, la accoglie nella sua
vita. In questo modo Gesù libera l’uomo, lo rende Dio, il Figlio trasforma l’angoscia dell’uomo,
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JOSEPH RATZINGER , Spunti di orientamento cristologico in Guardare al crocifisso. Fondazione teologica di una
cristologia spirituale, Milano, Jaca Book, 1992, 35.

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nell’orto degli ulivi nell’ubbidienza di un figlio. La parola di un servo nella Parola che è il Figlio,
cioè Cristo ci mostra come convertire la nostra libertà umana in una libertà divina e come
trasformare la nostra vita umana, in vita divina. In questo senso si può parlare di divinizzazione
dell’uomo e in questo senso la coscienza dell’uomo può toccare e raggiungere la più profonda forza,
il fondamento ultimo e più grande nel suo sì a Dio, nell’ unità della sua volontà alla volontà di Dio
avviene il massimo mutamento pensabile da parte dell’uomo la sua divinizzazione nel Figlio, in
Cristo. Così l’uomo divenuto figlio nel Figlio raggiunge la divinità di Dio, la comunione che Dio
voleva con l’uomo fin dalla creazione dell’umanità è raggiunta finalmente e resa possibile per ogni
uomo nel Cristo, Verbo incarnato.

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