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LINEE DI STORIA GIURIDICA ROMANA – KUNKEL

L’ETA’ PIU’ANTICA FINO ALLA META’ DEL III SECOLO A.C.

CAP. 1) La città-stato come punto iniziale dello sviluppo giuridico romano.

§1)Lo stato romano dei primi secoli è una delle tante città-stato dell’antichità, il cui nucleo era costituito da un unico insediamento
urbano fortificato, in cui si svolgevano l’intera vita politica e gli scambi commerciali; tutt’intorno si estendeva il contado con fattorie
isolate e borgate prive di difesa.
Solo nel corso del IV e III sec. a.C. , Roma assunse le dimensioni di uno stato grande che finì col dominare l’Italia intera.
La popolazione di Roma era di stirpe Latina ed era legata alle altre comunità latine dalla lingua, da una cultura omogenea, anche in
campo giuridico, e dall’antichissimo culto tribale. La lingua dei latini, il latino, fa parte del gruppo indo-germanico, dunque è imparentata,
quanto all’origine, col greco, col celtico, col germanico e con l’indoiranico. Tra queste lingue è al celtico che essa più si avvicina. Si
ritiene che i latini devono essere immigrati in Italia in epoca preistorica, probabilmente nelle seconda metà del secondo millennio a. C.. I
ritrovamenti archeologici sembrano però deporre a favore della tesi secondo cui i predecessori dei latini erano insediati nell’Ungheria
meridionale e nella Serbia. Gli influssi culturali stranieri si possono identificare a partire dal VI sec. a. C. , epoca in cui tali influssi
provenivano principalmente da 2 nazioni culturalmente più avanzate, gli Etruschi e i Greci. La stessa dinastia romana dei Tarquini era
certamente di origine etrusca, e varie famiglie nobili romane portavano nomi etruschi. Nell’ambito culturale, l’influsso etrusco si nota
principalmente nella religione ed in particolare il culto della triade capitolina è preso in prestito da città etrusche. Dall’Etruria derivò
anche la consuetudine di predire l’esito di imprese politiche e militari attraverso l’esame delle viscere di animali sacrificati. Sin dagli inizi
del nostro secolo si pensava che ci fosse un’influenza diretta della cultura greca, forse per la presenza di colonie greche nell’Italia
meridionale. Oggi, invece, si tende ad attribuire agli Etruschi un ruolo di mediatori, difatti, la scrittura usata dai Romani viene fatta
risalire a quella etrusca, che a sua volta era di derivazione greca. Gli stessi dèi greci Apollo, Minerva, Diana furono probabilmente
introdotti dagli Etruschi. Dal punto di vista giuridico, invece, la mediazione Etrusca non è dimostrabile per la mancata conoscenza della
vita giuridica di questo popolo.

§2) La Roma primitiva era una comunità di agricoltori ma la posizione assai favorevole della città ha poi permesso lo sviluppo
industriale e commerciale. Per tutta l’epoca primitiva, però, il cardine della vita politica ed economica si basò sul possesso fondiario.
Questo in un primo tempo spettava esclusivamente ad un piccolo numero di nobili, i patricidi, i quali possedevano la maggior parte del
suolo e, come cavalieri, costituivano il nucleo dell’esercito romano. Un’enorme distanza li separava dalla massa del popolo. La plebe;
secondo la legge delle XII Tavole il matrimonio tra patrizi e plebei non era consentito. La maggior parte della plebe fosse costituita in
origine da piccoli contadini alle dipendenze del patriziato. I grandi proprietari patrizi erano anche agricoltori e curavano la loro proprietà
con l’aiuto dei figli e di pochi schiavi, ma riuscivano a seguire solo una parte di essa, il resto veniva concesso in precario a plebei , con
l’obbligo di stare al servizio del padrone anche in guerra e nella vita politica. In cambio il signore patrizio doveva proteggerli ed aiutarli in
caso di bisogno. Sembra che questa forma antica di clientela sia presto scomparsa, probabilmente per l’ascesa politica ed economica
della plebe che iniziò già nel V sec. a. C., ma questo rapporto di fedeltà e di protezione rimase anche dopo e rappresentò un tratto
caratteristico della vita romana. Il predominio assoluto della nobiltà patrizia fu assicurato fin tanto che la cavalleria costituì la forza di
combattimento vera e propria dell’esercito romano. Ma la situazione cambiò nel momento in cui fu introdotta la tattica politica: questa
tattica,di provenienza greca, si estese presto in tutta Italia. Il nucleo dell’esercito romano era costituito dalla fanteria pesante, formata da
contadini plebei benestanti. Costoro, che inizialmente avevano rappresentato fino a quel momento poco più di una massa
disorganizzata di portatori di bagagli, vennero così ad assumersi quasi integralmente il peso, quindi, l’esito della guerra. Il mutamento
dell’organizzazione militare determinò anche un mutamento delle condizioni politiche: i plebei iniziarono una lotta per essere equiparati
ai patrizi. Questa lotta apparentemente si concluse con una equiparazione delle due classi sociali, ma in realtà il governo di Roma
continuò ad avere carattere aristocratico; solo che ora un certo numero di plebei che erano riusciti a costruirsi una certa ricchezza e
prestigio politico , divideva il potere con i patrizi. A Roma la schiavitù ebbe una scarsa importanza; infatti il servo mangiava alla stessa
mensa del padrone ed era tutelato contro le lesioni personali.
Benché la produzione di beni necessari alla famiglia costituisse la regola, tuttavia lo scambio di merce con denaro fu un elemento molto
antico della vita economica italica. Un tempo il bestiame fungeva da mezzo di scambio; ma a partire dal 1000 a.C. , come mezzo di

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pagamento viene utilizzato il rame, il quale fu munito di un marchio come segno di purezza. Solo a partire dal III sec., furono utilizzate
rozze monete del peso di una libbra.

§3) I romani non hanno mai avuto un’idea di stato così come l’abbiamo oggi noi, ma essi consideravano lo stato come l’insieme di tutti i
cittadini che ad esso appartenevano. Populus Romanus era l’appellativo che utilizzavano per designare lo stato stesso.
Importante era quindi, l’assemblea popolare, cioè la comunità di cittadini, nella quale si decideva della pace e della guerra, si
eleggevano i magistrati e si votavano le leggi.
La comunità romana ha tre modi per raccogliersi in forma organizzata: Comizi Curiati, Comizi Centuriati e Comizi Tributi.
Comizi Curiati: i membri della comunità in tali comizi erano raggruppati in curie, in numero di 30, e riunite in gruppi di 10, ognuno dei
quali costituiva ⅓ di tutta la comunità, erano associazioni di carattere sacrale, ciascuna con un culto e degli organi di culto propri. In
esse l’influenza dei patrizi era senz’altro dominante.
I comizi curiati dell’età repubblicana avevano solo funzioni di diritto sacro, come dimostra il fatto che si riunivano sotto la presidenza del
pontefice massimo, il capo del sistema religioso statale. Non si sa con certezza quali fossero le competenze dei comizi curiati dell’età
regia; sicuramente partecipavano all’inauguratio del re e lo assistevano in alcune sue attività rituali in campo religioso.
Comizi Centuriati: avevano funzione politica e vi appartenevano i membri della comunità divisi in centurie. L’origine militare di questa
assemblea è evidente: finché esistette in Roma un esercito di cittadini, la fanteria fu divisa in centurie. Con la costituzione serviana,
l’ordinamento centuriato ha perso il suo carattere militare originario, trasformandosi in un mero sistema di votazione e di ripartizione
delle imposte. In esso i cittadini venivano divisi, sulla base del loro patrimonio, in classi, ognuna delle quali comprendeva un numero
fisso di centurie, indipendentemente dalla sua consistenza numerica effettiva. Così, il totale di 193 centurie era ripartito tra le classi in
modo tale che i più abbienti avevano già, con 98 centurie, la maggioranza assoluta. Infatti i voti dei singoli cittadini si computavano solo
all’interno della rispettiva centuria; dalla loro maggioranza derivava il voto della singola centuria, ma era la maggioranza delle centurie
che decideva il risultato di tutta la votazione. Inoltre, poiché le centurie non venivano chiamate tutte contemporaneamente ma secondo
l’ordine di successione delle classi, e poiché si andava avanti solo fino a quando non si raggiungeva la maggioranza assoluta, il
cittadino povero non arrivava quasi mai ad esercitare effettivamente il suo diritto di voto. Questa ripartizione non ha più niente a che
vedere con i criteri di ordine militare, ma si tratta semplicemente di una manovra politica atta ad assicurare il potere nelle mani delle
classi abbienti. Nei comizi centuriati venivano eletti i magistrati maggiori (consoli,pretori e censori); inoltre, si votavano le leggi e si
prendeva la decisione formale sulla pace o sulla guerra. Infine, secondo quanto scritto nella legge delle XII Tavole, essi erano
competenti per i processi politici in cui si decideva della vita del cittadino accusato.
Comizi Tributi: ebbero fin dall’inizio carattere civile. I cittadini in essi erano raggruppati secondo la loro appartenenza alle diverse
circoscrizioni del territorio romano, le quali si chiamavano tribus. Verso la fine del V sec. a.C. esistevano 20 di queste circoscrizioni: 4, le
tribus urbanae, erano comprese nel perimetro della città, le altre, quelle rusticae, si trovavano nelle immediate vicinanze. Tra la fine del
V e la metà del III sec., le circoscrizioni salirono a 35, in seguito all’istituzione di nuove tribù rustiche sul territorio conquistato. I membri
di ogni tribù potevano votare con funzioni analoghe a quella della centuria nei comizi centuriati. Anche qui chi decideva era la
maggioranza delle tribù e non la maggioranza dei cittadini aventi diritto al voto.
La cittadinanza si riuniva ordinata in curie, centurie o tribù, solo al fine di votare sulle proposte legislative o elettorali presentate da
magistrato che presiedeva l’assemblea. I cittadini non avevano alcun diritto di iniziativa, potevano solo accettare o respingere le
proposte loro presentate.
Cittadini si diventava per nascita da un matrimonio valido tra un romano e una romana o tra un romano e una straniera che
possedesse il conubium, cioè il diritto di contrarre matrimonio con un cittadino romano; inoltre per nascita da una romana al di fuori di
un matrimonio valido; per concessione da parte della comunità cittadina o, su autorizzazione di questa, da un magistrato; infine per
essere stati liberati dalla schiavitù. Secondo un antico principio, che fu poi abolito, i cittadini delle comunità latine, acquistavano la
cittadinanza romana mediante trasferimento a Roma. La liberalità con cui Roma concesse fin dall’inizio la cittadinanza agli stranieri, è
certamente uno dei motivi della sua futura potenza e grandezza. La cittadinanza romana andava perduta per colui che si fosse lasciato
accogliere in un’altra comunità come cittadino.
La monarchia. Al vertice della comunità organizzata romana stava un re, al quale spettava non solo la guida militare e politica, ma
anche il compito di rappresentare la comunità di fronte agli déi. Tratti caratteristici della monarchia si possono cogliere nella carica
sacerdotale che prese il posto del re nella sfera del sacro. Il titolare di questa carica si chiama rex sacrorum; in sostanza si tratta
dell’antica monarchia stessa, la quale sopravvisse nella sua funzione sacrale finché esistette un culto statale romano, in quanto solo un
re possedeva i poteri magici ad esso necessari. Il re non era né eletto né designato dal suo predecessore; egli era rivelato dagli dei per
mezzo di segni, come il volo degli uccelli. Per questo il rex sacrorum veniva presentato al cospetto dei comizi curiati, agli dei, affinché lo
confermassero per mezzo di segni (auguratio).
Le magistrature repubblicane. I magistrati annuali che assunsero il governo dopo la cacciata dell’ultimo re etrusco erano titolari solo
del comando militare e del potere politico. Lo sviluppo della suprema magistratura repubblicana è assai dibattuto; si pensa che in quel
periodo avrebbero assunto la direzione politica e militare al posto dei consoli. Fin dagl’inizi della Repubblica la suprema carica romana

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era rivestita contemporaneamente da due magistrati e che anticamente essi venivano designati come pretori e non come consoli. Del
pretore parla infatti la legge delle XII tavole, e il testo di un’antica legge designa col nome di pretore massimo il magistrato di rango più
elevato tra quelli in carica. Il pretore oltre a detenere il comando militare ha anche potere civile. Esso abbracciava cioè i due campi che
furono contrassegnati col nome di coercitio (potere coercitivo) e di iurisdictio e che, insieme col comando militare, furono raccolti nel
concetto del potere generale di comando. A ciò si aggiungevano la facoltà di convocare il popolo in assemblea e di proporre per la
votazione candidatura e leggi, e il diritto di convocare e interrogare il senato. Il titolare dell’imperium nel campo militare aveva la facoltà
di punire a sua discrezione il cittadino indisciplinato con pene corporali, e persino di farlo giustiziare; al contrario entro la circoscrizione
di Roma il cittadino minacciato di pena corporale o capitale da parte del magistrato poteva invocare l’aiuto del popolo a meno che non
fosse stato dichiarato già colpevole in un regolare processo. Questo diritto detto di provocatio ad populum si formò presumibilmente nel
corso delle lotte tra il patriziato e la plebe e fu riconosciuto da una lex Valeria. Questo, all’interno del territorio della città di Roma poneva
un limite ai magistrati. Un altro limite efficace alla carica di magistrato era nella durata della carica, che di regola terminava dopo un
anno (principio dell’annualità), e nella contemporanea esistenza di due titolari con gli stessi poteri (principio della collegialità). La
collegialità comportava singolari e pericolose conseguenze: per esempio, il quotidiano avvicendamento nel comando supremo nel caso
che i consoli (magistrati) conducessero la campagna insieme e non su due diversi teatri di guerra. Vero è che in momenti critici si
potevano eliminare i pericoli della collegialità mediante la nomina di un dittatore, cosa che ognuno dei consoli poteva fare. Il dittatore per
tutta la durata della sua carica, che non doveva superare i sei mesi e che in ogni caso scadeva con la cessazione dall’ufficio del console
che aveva compiuto la nomina, deteneva il massimo potere civile e militare, mentre l’imperium poteva esercitarsi solo nei limiti in cui lo
permetteva il dittatore. A partire dalle leggi Licinie Sestie accanto ai consoli troviamo un terzo magistrato che dura in carica un anno.
Normalmente spettava a lui la iurisdictio; ma in caso di necessità egli poteva svolgere anche funzioni militari e politiche al posto dei
consoli. Sin da epoca molto antica, vi fu un certo numero di magistrature le quali avevano una competenza più ristretta e poteri limitati.
La più antica di queste magistrature è quella dei questori. Essa fu istituita per amministrare le casse dello stato e aveva all’inizio due
titolari, anche se ai due questori urbani ne furono aggiunti altri due per il servizio di guerra, con funzione di amministratori della cassa
militare e aiutanti del comandante. Più recente è la carica degli edili curuli che svolgevano funzioni di polizia del mercato e delle strade.
Inoltre come magistrati giurisdizionali spettava loro la sedia da giudice. Infine una carica con competenza specifica fu la censura,
istituita verso la metà del V sec. I due censori, che erano eletti ogni cinque anni per 18 mesi, dovevano controllare e aggiornare la lista
dei cittadini, e in particolare stabilire la distribuzione di questi nelle varie classi e nelle tribù, e provvedere all’ammissione formale degli
ex magistrati nel senato; inoltre, dovevano dare in appalto ad imprenditori i lavori pubblici e concedere in affitto le terre statali. A partire
dalla metà del III sec. furono eletti censori quasi esclusivamente ex consoli e la censura fu considerata perciò il coronamento di una
brillante carriera politica.
Il senato. Il terzo elemento della vita costituzionale romana era il consiglio degli anziani (senato). Esso esisteva in epoca regia ma si
trattava di un’assemblea dei capi della nobiltà patrizia. Durante la repubblica si trasformò in un consiglio di ex magistrati perché l’aver
rivestito una magistratura diventò il normale presupposto per l’ammissione al senato. Nel senato si distinguevano varie classi. Al primo
posto stavano gli ex consoli, poi i pretori, gli edili e così via. Poiché il magistrato che presiedeva la seduta era solito interpellare i
senatori seguendo l’ordine del rango, erano i membri più anziani a prendere in mano la discussione. Nel senato era raccolta tutta
l’attività ed esperienza del ceto dirigente romano. Era l’elemento centrale della vita politica di Roma. Senza avere un vero e proprio
potere legislativo o esecutivo il senato ha tenuto nelle sue mani l’effettiva direzione dello stato. Le sue deliberazioni contenevano le
direttive fondamentali della politica romana; inoltre valendosi del suo diritto di disporre delle finanze pubbliche e sfruttando i limiti del
potere del magistrato, cioè dell’annualità e della collegialità della carica, riusciva a piegare alla sua volontà anche i magistrati
recalcitranti. Il periodo che vide la supremazia del senato fu l’epoca più prestigiosa della storia di Roma; la sua decadenza segnò anche
la caduta del senato.
L’esito politico delle lotte patrizio-plebee portò i plebei a conquistarsi l’accesso alle cariche in modo graduale. Le cariche sacerdotali
furono quelle in cui resistette più a lungo il monopolio dei patrizi: la carica di pontefice massimo, per esempio, fu occupata da un plebeo
solo nel 254 a.C. L’equiparazione politica raggiunta dalla plebe favorì solo un numero ristretto di famiglie plebee, le quali riuscirono ad
arrivare al consolato ad imporre alle genti patrizie la propria compartecipazione al potere politico. Insieme con queste formarono un
nuovo ceto di governo, la cosiddetta nobilitas, che col passare del tempo si dimostrò più chiusa alla penetrazione di uomini nuovi.

CAP. 2) Lo ius civile dell’età più antica

§1) La legge delle XII Tavole rappresenta il fondamento di tutta la vita giuridica romana. La legge fu opera di una commissione di 10
uomini (Decemviri), ai quali era stato trasferito ogni potere politico. Del testo delle XII Tavole restano solo frammenti sotto forma di
citazioni nella letteratura della tarda Repubblica e dell’Impero.
Il testo originario della legge, inciso su 12 tavole lignee, andò perduto e già nella tarda Repubblica esso era noto solo in una forma che
era stata più o meno ammodernata secondo il latino più recente. Per questo motivo i frammenti pervenutici non presentano particolare
difficoltà di interpretazione linguistica. Il diritto greco ha esercitato un certo influsso sulla legislazione delle XII Tavole; infatti, i giuristi

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romani costatarono, ad esempio, che le norme relative ai rapporti di vicinato avevano coincidenze con il diritto attico. Tuttavia,
l’influenza del diritto greco non va a pregiudicare l’impronta romana della legge nel suo complesso.

§2) Le leggi delle XII Tavole contenevano prescrizioni sul corso del procedimento giudiziario, inclusa l’esecuzione, e su quei rami del
diritto che noi oggi chiamiamo diritto privato e diritto penale, e nettamente distinguiamo, ma che agli occhi del giurista romano antico si
presentavano ancora come unità. Non si faceva cenno circa l’organizzazione politica della comunità e l’ordinamento giudiziario. Il
legislatore voleva solo raccogliere lo ius civile, cioè quelle norme che riguardavano la sfera giuridica del singolo cittadino. Da ciò si
evince lo scopo che la tradizione romana attribuisce alla legislazione delle XII Tavole: la protezione dell’uomo comune dall’arbitrio della
nobiltà patrizia. La codificazione di tutto l’ordinamento giuridico rappresentava per le condizioni dell’epoca un compito immenso. Persino
oggi nei frammenti delle XII Tavole, si riconoscono i segni della lotta tra il legislatore e la lingua giovane del suo popolo, per trovare
l’espressione che meglio si adattasse alle norme che stava formulando. Le sue proposizioni sono molto concise e hanno una struttura
assai semplice. Ad una frase ipotetica segue la norma imperativa. Il soggetto che regge il verbo il più delle volte non è espresso e
nell’ambito dello stesso periodo cambia frequentemente, tanto che il lettore deve indovinare, volta per volta, a chi ci si riferisce. I termini
giuridici impiegati erano familiari ai suoi contemporanei; ma già ai giuristi tardo-repubblicani essi offrirono materia di controversie, e
tuttora allo storico moderno tali termini risultano di difficile comprensione.
Una gran parte delle leggi riguarda il diritto processuale e nell’ambito del diritto privato, dato il carattere agricolo della più antica
comunità romana, prevalevano il diritto ereditario e di famiglia, e inoltre il diritto regolante i rapporti di vicinato, il quale, per la vita del
contadino, costituiva la parte più importante del diritto delle cose. Le XII Tavole conoscevano una forma durissima di contratto
obbligatorio, in cui il mutuatario, ricevendo il denaro, che gli veniva pesato in presenza di testimoni, si trasferiva nel potere del creditore;
infatti il negozio si chiamava nexum, cioè incatenamento. Qualora non fosse riuscito a restituire la somma , egli cadeva in schiavitù per
debiti. Tuttavia nelle XII Tavole accanto a questo istituto arcaico compare una promessa obbligatoria, la sponsio, che si poneva in
essere mediante scambio di domanda e risposta tra le parti e per la cui attuazione si poteva far ricorso al procedimento della legis actio
per iudicis postulationem.
Per quanto riguarda il diritto penale, tutto fa pensare che la legge si fondasse sulla vendetta privata dell’offeso. Un intervento da parte
dello stato si aveva solo per quei fatti criminosi che i rivolgevano direttamente contro la comunità (alto tradimento o perduellio). Anche il
compito di perseguire l’assassino veniva lasciato ai familiari dell’ucciso: le XII Tavole non contenevano alcuna dispozione sulla pena da
infliggere all’omicida. Tuttavia un’antica norma prescriveva che, in caso di omicidio involontario, l’autore del fatto doveva consegnare ai
parenti dell’ucciso un ariete, il quale veniva ucciso al posto del colpevole; dal che si deduce che, in caso contrario, i parenti potevano
esercitare la vendetta di sangue su colui che aveva causato la morte coscientemente e con dolo. Se però il reo non era né confesso né
flagrante, essi potevano procedere solo dopo che la sua colpevolezza fosse stata accertata giudizialmente. Colui che, pur attuando la
vendetta, uccideva senza che fosse stata pronunciata la necessaria sentenza, era a sua volta un omicida. I frammenti delle XII Tavole
non ci dicono che cosa accadeva se l’assassino si sottraeva alla vendetta con la fuga. Si può supporre che, per decreto del magistrato,
si proibiva acqua e fuoco al fuggitivo reo di delitto capitale. Scopo di questa proibizione era privare il fuggitivo di qualsiasi aiuto, anche di
quello dei suoi parenti ed amici, in modo da rendergli impossibile la permanenza in territorio romano. Così non gli rimaneva altra scelta
che la fuga all’estero. Secondo un racconto di Polibio le città latine di Preneste e Tivoli e la città greca di Napoli, in virtù dei loro antichi
trattati di alleanza con i romani potevano accogliere il fuggitivo, ma da quel momento non poteva mai più mettere piede in territorio
romano, era costretto a vivere in esilio.
Per una serie di altri delitti le XII Tavole prescrivevano espressamente la pena di morte e il modo in cui doveva avvenire l’esecuzione
rifletteva il tipo di delitto commesso: il colpevole di incendio doloso doveva essere bruciato, colui che rubava di notte il raccolto doveva
essere sacrificato in onore di Cecere, dea delle messi, mediante impiccagione sul luogo stesso del delitto. Anche in questi casi si tratta
di una vendetta della parte lesa nei confronti del reo la cui colpevolezza fosse stata riconosciuta da una sentenza. La pena capitale è
ben evidente nel caso del furto: il derubato poteva uccidere il ladro se lo acciuffava di notte, o anche se di giorno, questi opponeva
resistenza armata; in tali casi la vittima del furto era tenuta a chiamare aiuto a gran voce affinché accorressero i vicini e non vi fosse
nessun dubbio sulla legittimità dell’uccisione. In ogni caso egli poteva portare il ladro colto in flagrante dinanzi ad un magistrato. Dopo di
che il derubato poteva uccidere il ladro, venderlo come schiavo o riceverne in cambio un riscatto. Se il ladro non veniva colto in
flagrante, il derubato doveva limitarsi a richiedere al ladro una pena in denaro, di regola il doppio del valore della cosa rubata. Pene
pecuniarie erano previste dalla legge anche per le lesioni personali leggere e il loro ammontare era fissato dalla legge. Per le lesioni
corporali gravi, invece, che mettevano fuori uso un membro importante del corpo, la legge ammetteva l’inflizione di un danno uguale a
quello ricevuto; questo solo nel caso in cui le parti non si accordavano su una composizione in denaro e non ponessero fine alla lite con
un patto di pace. Le pretese che nel diritto delle XII Tavole avevano per oggetto le pene pecuniarie per i delitti minori costituiscono il
punto d’inizio del diritto penale privato; questo diritto fu poi considerato una parte del diritto delle obbligazioni; e da esso è derivato il
diritto degli atti illeciti nelle moderne codificazioni privatistiche. A partire dal II sec. a.C., al posto della vendetta fisica, comparvero delle
azioni penali che potevano essere intentate non solo dall’offeso o dai suoi familiari, ma da un qualunque cittadino, e avevano come
scopo la punizione del colpevole da parte dello stato. Così sorsero un diritto penale e un diritto processuale penale, che non erano più

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parte dello ius civile, ma venivano ricompresi nello ius publicum. Una simile concezione pubblicistica del diritto penale era ancora del
tutto estranea al legislatore delle XII Tavole. In questo senso si può dire che il diritto penale delle XII Tavole presenta un carattere
ancora primitivo.
Come primitiva è la presenza nelle XII Tavole di alcune fattispecie criminose che prevedevano il recitare formule di incantesimo sul
terreno del vicino affinché le spighe fossero vuote o per fare in modo che la forza misteriosa che faceva germogliare le sementi del
vicino potessero essere trasportate nel proprio terreno.

§3) Dopo le XII Tavole lo sviluppo del diritto prevedeva l’interpretazione delle XII Tavole e l’attività normativa dell’assemblea popolare,
la quale, dapprima, intervenne raramente,poi, dalla fine del V sec. a.C. , più frequentemente, nel campo del diritto privato e penale.
L’interpretazione delle XII Tavole rimase fino all’inizio del III sec. un monopolio del collegio sacerdotale dei pontifices (costruttori di
ponti). La loro attività si svolse attraverso un’interpretazione letterale; ma ciò nonostante seppe realizzare un progresso del diritto. I
pontefici crearono espedienti idonei a soddisfare le nuove esigenze della vita giuridica. L’esempio più noto è il formulario predisposto
per la liberazione di un figlio dalla potestà del padre (emancipatio).
Le leggi erano votate dai cittadini su proposta di un magistrato che avesse la facoltà di convocare e dirigere l’assemblea del popolo. Tra
le forme di organizzazione in cui la comunità si radunava i comizi centuriati erano quelli in cui si svolgeva l’attività legislativa. Con la lex
Hortensia del 286 a.C. le deliberazioni della plebe divennero vincolanti per tutti i cittadini. Da quel momento in poi la maggior parte delle
leggi fu votata nel concilium plebis su proposta dei tribuni. Per tutto lo spazio dei 4 secoli che intercorrono fra le XII Tavole e la fine della
Repubblica, conosciamo solo 30 leggi che abbiano avuto importanza per la storia del diritto privato e processuale. Tuttavia solo una
parte di esse ha apportato delle innovazioni fondamentali.
Esempio: Lex Poetelia Papiria de nexis, una legge comiziale proposta dai consoli che eliminò la schiavitù per debiti. Nessuna di queste
leggi è pervenuta direttamente fino a noi, ma ciò che si evidenzia è che la maggior parte di esse obbediva a tendenze politico-sociali.

L’ETA’ DELLE GRANDI CONQUISTE E L’IMPERO UNIVERSALE DALLA META’ DEL III SEC. A.C. ALLA META’ DEL III SEC. D.C.

CAP. 3) L’età delle grandi conquiste e l’impero universale dalla metà del III sec. a.C. alla metà del III sec. d.C.

§ 1) Nel 265 a.C. Roma divenne una delle maggiori potenze del sistema di stati di quel periodo; lo scontro vittorioso con Cartagine la
rese padrona del Mediterraneo occidentale. Nel corso del II sec. a.C. il governo romano estese il suo governo in Oriente. Qui la cultura
greca ormai fioriva sul suolo straniero, mentre la madrepatria sprofondava in una condizione di decadenza economica e culturale.
Ormai Roma era diventata la dominatrice incontrastata di tutta l’area culturale intorno al Mediterraneo.
Dal punto di vista giuridico, questo impero gigantesco aveva una struttura complessa, consistente in un sistema di molteplici alleanze e
rapporti di dipendenza, il cui centro era costituito dalla città-stato di Roma. Questo sistema si basava su alcuni principi ben precisi. Il
primo e più importante è quello del divide et impera; i romani non tollerarono mai che alleati o sudditi di Roma potessero allearsi fra loro,
ma ogni comunità aveva relazioni giuridiche solo con Roma. Per di più, Roma fu capace di tenere separati gli uni dagli altri popoli e le
comunità dell’impero, e perfino le varie classi sociali all’interno di ciascuno stato assoggettato. Un altro principio fondamentale della

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politica imperialista romana fu quello di lasciare che i sudditi provvedessero alla cura dei loro affari interni; essi conservavano così
un’amministrazione autonoma e il loro diritto locale; nell’ambito religioso, Roma praticava la più ampia tolleranza. Queste direttive
politiche contribuirono a rendere meno grave ai sudditi il peso della dominazione romana. Infine, il terzo principio lo si può indicare
nell’assoluta sicurezza militare dei territori conquistati. Nel tracciare un quadro chiaro circa l’organizzazione dell’impero, è necessario
distinguere fra l’Italia e le province.
Fino all’inizio del I sec. A., l’Italia era costituita da due masse territoriali: l’area che apparteneva allo stato romano (ager romanus) e i
territori degli alleati (socii). Nel corso delle lotte per la supremazia sull’Italia, molti territori erano stati assoggettati e incorporati nell’ager
romanus, aumentando così i territori romani. Una parte dell’ager romanus era costituita da territori di comunità in origine autonome, che
cessarono di esistere come stati e la popolazione era stata assunta nella cittadinanza romana. Tuttavia questi nuovi cittadini non
ottenevano subito il pieno diritto di cittadinanza, infatti non godevano dei diritti politici, in particolare il diritto di voto; solo dopo una lunga
prova di fedeltà queste comunità potevano ottenere la piena cittadinanza. In tutto l’ager romanus, solo Roma poteva essere considerata
una città nel senso giuridico del termine; le altre comunità e le colonie di cittadini non ebbero una piena autonoma amministrativa, ma
solo organi per l’esercizio di funzioni sacrali e per l’amministrazione del patrimonio della comunità.
Le comunità alleate, invece, erano organismi politici con una piena autonomia: esse possedevano un proprio territorio, un diritto proprio
ed una propria amministrazione, in cui Roma si intrometteva solo in via eccezionale. Il loro rapporto con Roma si fondava su trattati di
alleanza, in base ai quali esse erano obbligate a fornire truppe in caso di guerra. I romani distinguevano i trattati uguali da quelli
diseguali. Le comunità che stipulavano dei trattati del primo tipo erano, da un punto di vista giuridico, sovrane, difatti un magistrato
romano che entrava in una tale comunità sospendeva il suo potere. In pratica, però, anche un alleato sovrano poteva essere soggetto
all’influenza di Roma al punto che la sua posizione politica non differiva da quella di una comunità con alleanza disuguale. Gli alleati con
il trattato di alleanza riconoscevano la supremazia di Roma e per questo erano obbligati a conformarsi alle direttive del governo romano.
Tra gli alleati italici un posto particolare occupano le comunità latine, i cui cittadini erano equiparati ai romani nel campo del diritto
privato e potevano anche votare nelle assemblee popolari romane. La maggior parte di esse, però, fu trasformata in municipia. Nel
corso della conquista dell’Italia, notevole importanza andavano assumendo un gruppo di comunità denominate colonie. Le più antiche di
esse, per lo più quelle che sorgevano nelle immediate vicinanze di Roma rimasero incorporate nella cittadinanza romana: esse
appartenevano all’ager romanus e giuridicamente erano parti della città di Roma. Altre colonie fondate da Roma con l’aiuto degli alleati
latini, ebbero il carattere di comunità politiche indipendenti. Questa forma di organizzazione diventò poi la regola. Rispetto ai cittadini
romani, gli appartenenti a queste colonie godevano all’incirca degli stessi diritti dei latini antichi, perciò venivano chiamati Latini
coloniarii, e le colonie coloniae latine.
Fuori d’Italia la politica romana seguì gli stessi metodi che si erano dimostrati efficaci nell’assoggettamento della penisola. Mentre l’Italia
poteva essere governata direttamente da Roma per i possedimenti fuori dall’Italia la situazione era molto più difficile e fu necessaria la
presenza stabile di un governatore romano. Per tale motivo tutti i territori acquisiti fuori d’Italia furono organizzati in province e sotto la
competenza di un governatore; in generale veniva inviato uno dei consoli , quando c’erano da sbrigare compiti militari importanti;
altrimenti si ricorreva ai pretori, il cui numero dovette aumentare proprio per questo scopo. Quando il numero delle province aumentò, il
problema si risolse dapprima caso per caso, prolungando la permanenza in carica di una parte dei governatori dell’anno precedente.
Infine si aggiunse all’anno di carica che i consoli e i pretori trascorrevano a Roma un secondo anno, in cui al posto di un console o di
un pretore essi dovevano amministrare una provincia. Le vicende della carica di governatore ci danno un’idea delle difficoltà che una
comunità politica organizzata come città-stato doveva superare per governare un impero di tali dimensioni. Il governatore, che aveva al
suo fianco un piccolo gruppo di collaboratori, doveva limitarsi essenzialmente a difendere la supremazia romana e a consolidarla
militarmente, a proteggere i cittadini romani e gli italici che si trovavano nella provincia, e ad amministrare tra loro la giustizia. Perfino la
riscossione delle imposte dovute dalla provincia era data in appalto ad imprenditori romani, i quali si riunivano in società, acquistando
enormi ricchezze. L’amministrazione locale, l’esercizio dell’attività giudiziaria per i provinciali e tutti gli altri compiti di carattere locale
erano lasciati agli organi politici dei sudditi. Le province, a meno che non fosse loro concessa l’esenzione dagli oneri (immunitas),
dovevano pagare a Roma delle imposte annuali, e procurare vitto e alloggio al governatore, al suo seguito e alle sue truppe. In linea di
principio esse avevano anche l’obbligo di fornire un contingente militare in caso di guerra. Tuttavia i governatori solevano chiamare alle
armi le truppe provinciali solo in situazioni di emergenza. Per i cittadini romani che si erano stabiliti nelle province, per lo più a scopo
commerciale, era competente il tribunale del governatore. Essi intervenivano alle udienze che questi teneva a turno in determinate città
della sua provincia anche quando non avevano nessuna causa da discutere, e i più autorevoli prendevano parte all’amministrazione
della giustizia come assessori nel tribunale del governatore o come giurati nel processo civile. Come si vede, l’attività giurisdizionale del
governatore si rivolgeva in primo luogo ai suoi concittadini. Ma è sicuro che egli ebbe il potere di chiamare dinanzi al suo tribunale
anche i provinciali, qualora si mettesse in gioco l’interesse della dominazione romana.
Dinanzi alla grandiosità di questo impero ci si rese conto che la struttura della città-stato non era più sufficiente. Notevoli erano i
problemi a livello amministrativo non solo nella capitale ma in tutto il territorio conquistato. Il risultato culturale più importante dell’epoca
repubblicana fu la romanizzazione dell’Italia, la quale determinò la formazione di una varietà di popoli sparsi nella penisola.
Conseguenza di tale romanizzazione fu la concessione della cittadinanza romana a tutti gli italici. Tale processo mise ancora più in

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evidenza l’inadeguatezza delle strutture della città–stato. Bisognava attenuare l’accentramento della vita politica nella capitale e
concedere alle colonie una certa autonomia amministrativa. Inoltre l’amministrazione delle province presentava gravi lacune,
determinate dall’insufficienza dei metodi di governo propri delle città-stato. Soprattutto l’alternanza anno per anno dei governatori si
rivelò fatale sia per l’amministrazione che per l’adempimento dei compiti militari nelle province. La mancanza di efficaci controlli
sull’operato del governatore, e inoltre il sistema dell’appalto delle imposte, favorirono uno sfruttamento senza scrupoli delle province
nell’esclusivo interesse delle classi più elevate della società romana, e contribuirono al decadimento della morale politica e
commerciale. Anche il processo per ripetizione che fu introdotto per difendere i provinciali dalle concussioni dei magistrati acquisto
sempre più il carattere di un processo criminale a sfondo politico, non valse a porre un freno al saccheggio delle province. Anzi esso finì
per trasformarsi in un pericoloso strumento delle lotte di potere che si svolgevano a Roma tra l’aristocrazia senatoria e l’aristocrazia del
denaro, o all’interno stesso della nobiltà senatoria. L’unica strada per la riorganizzazione dell’impero era la monarchia.

§ 2) L’estendersi del dominio di Roma sull’Italia aveva avuto come conseguenza il progressivo rafforzarsi del ceto contadino romano.
Con le vittorie sugli italici, sempre nuovi territori erano passati ai romani, i quali vi avevano fondato le colonie di contadini o li avevano
divisi in lotti e distribuiti ai cittadini che avevano bisogno di terra. Accadde anche che molta terra, in seguito alle molte conquiste, rimase
indivisa nelle mani dello stato. Una parte di queste terre venne affittata a vantaggio del pubblico erario, un’altra parte venne acquistata
all’asta a prezzi bassi da cittadini che avevano disponibilità di denaro, soprattutto membri dell’aristocrazia senatoria, oppure furono da
questi occupate per sfruttarne le risorse, senza un titolo giuridico e sotto il tacito consenso dello stato. Fu soprattutto su questi terreni
che sorsero i primi grandi possedimenti fondati sul lavoro degli schiavi; la loro forma prevalente di sfruttamento economico era la
pastorizia, a cui si affiancava la coltivazione dell’olivo e della vite. Le perdite umane e le devastazioni della guerra annibalica, la
concorrenza con i territori africani e siciliani, che producevano grano in maggiori quantità e a prezzi più bassi, con la possibilità di
spedirlo a Roma via mare e il fascino che la città di Roma esercitava, determinarono la decadenza del ceto contadino. In realtà la forma
di gestione contadina non scomparve ma i grandi proprietari terrieri non si occupavano più direttamente di curare i terreni, ma li davano
in affitto. Il numero degli allevamenti e delle piantagioni di proprietà dei capitalisti residenti a Roma aumentò e la città diventò ben
presto un centro commerciale di prima grandezza e, soprattutto, il mercato di capitali più importante di tutto il mondo antico. Le
immense ricchezze che vi affluivano grazie alle guerre e allo sfruttamento delle province si concentravano nelle mani di due gruppi
sociali: l’aristocrazia senatoria e i cosiddetti cavalieri. I primi si occupavano di affari commerciali e finanziari solo in segreto perché ad
essi queste attività erano precluse. Accanto alle famiglie senatorie si andò formando una nuova aristocrazia, costituita da romani della
capitale e da cittadini dei municipi, si trattava di commercianti e finanzieri i quali dalle forniture militari, dall’appalto delle imposte o da
altre concessioni statali , da affari usurai con politici bisognosi di denaro, avevano raccolto enormi profitti, che poi investivano, come
l’aristocrazia senatoria, in possessi fondiari. Questi capitalisti erano chiamati cavalieri perché il loro patrimonio gli permetteva di servire
nella cavalleria, formando una classe per certi aspetti privilegiata nell’ambito della cittadinanza romana. Ci si trova, quindi, di fronte ad
una situazione in cui l’aristocrazia senatoria è divisa in gruppi in lotta tra loro, a un ceto di cavalieri che faceva valere i suoi interessi
economici sia mantenendo rapporti con alcuni senatori, sia attraverso l’influsso che esercitava politicamente nella giustizia penale;
infine la massa irretita del proletariato nullatenente che aumentava sempre più: questi rappresentano i fattori che segnarono la politica
interna nell’ultimo secolo della Repubblica.

§ 3) Questi contrasti ebbero inizio con la riforma sociale intrapresa dai tribuni della plebe Tiberio e Caio Gracco. Essi tentarono di
ricostituire la base contadina dello stato romano, concedendo il possesso inalienabile di tutte quelle terre che si trovavano nelle mani
dei grandi proprietari terrieri senza alcun titolo giuridico. Le riforme raccane provocarono una reazione del ceto dirigente, che portò a
sospendere il programma appena iniziato. Ben presto non si trattò più di riforme sociali e politiche ma di una corsa al potere ed in una
situazione simile la monarchia era più che mai necessaria. Prima che si riuscisse ad instaurare la monarchia vera e propria si ebbe
l’affermarsi del dominio assoluto del più forte. Già Silla era stato padrone assoluto dello stato romano ma egli preferì ristabilire ancora
una volta il regime dell’aristocrazia senatoria e ritirarsi volontariamente dalla scena politica. La sua riforma fu un tentativo di assicurare
al senato il governo dello stato; perciò limitò i poteri dei tribuni della plebe, ridusse i consoli e i pretori ai compiti cittadini della direzione
politica e dell’amministrazione della giustizia, vietò di ricoprire nuovamente una carica prima che fossero trascorsi 10 anni; ma queste
riforme non servirono ad arginare la crisi della repubblica. Cesare, il secondo al quale spettò di fatto un potere assoluto, finì sotto i
pugnali di repubblicani fanatici. Solo un suo pronipote e figlio adottivo, Ottavio, divenne il fondatore della monarchia romana; noi siamo
soliti chiamarlo con il nome che il senato gli concesse nel 27 a.C. ,cioè Augusto, e designiamo la forma costituzionale da lui creata col
termine di principato.

§ 4) Augusto cercò e trovò la soluzione del problema, restaurando l’ordinamento repubblicano, ma lo fece in modo che tanto lui quanto
i suoi successori tennero nelle loro mani le sorti dello stato e dell’impero. La restaurazione della repubblica significò quindi la creazione
di un nuovo potere monarchico, che non fu inserito nella costituzione ma accanto ad essa. La costituzione repubblicana così

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riorganizzata, attribuiva al titolare del potere monarchico una serie di facoltà di immensa portata politica; anche se esse si basavano sui
concetti tradizionali del diritto pubblico repubblicano che mal esprimevano l’essenza della nuova monarchia.
Augusto non voleva essere considerato un sovrano ma un primo cittadino, un princeps, in una città libera, il quale potesse stare al
fianco del governo repubblicano per aiutarlo nel mantenimento dell’ordine pubblico e nell’amministrazione dell’impero. Un solo uomo,
così, prendeva sulle sue spalle quel peso troppo gravoso per gli organi costituzionali della città-stato. I funzionari di cui il principe si
serviva per svolgere le proprie funzioni non erano funzionari statali, ma privati; e la cassa con cui egli finanziava la propria attività
amministrativa era il suo tesoro privato. Egli attuò una vera e propria propaganda politica straordinariamente abile, tanto che i letterati
dell’epoca come Livio, Orazio e Virgilio si misero al servizio di questa propaganda; edifici e feste simboleggiavano l’essenza del nuovo
regime e la stessa relazione autobiografica di Augusto, pubblicata dopo la sua morte dal senato, è da intendersi come uno scritto
ufficiale di propaganda. Quanto detto evidenzia solo un aspetto del principato, ossia il rapporto tra esso e i cittadini romani. Diverso è
con i sudditi provinciali, ai quali questo stato di cose gli era del tutto indifferente. Per fare in modo che anche essi si interessassero al
nuovo ordine, era necessario che imparassero a venerare il principe come il sovrano giusto e umano, come un liberatore dei popoli
dalle oppressioni e dalla miseria, il pacificatore, ecc. per questo nelle province orientali si favorì il culto dell’imperatore. La monarchia
formata da Augusto era, così fondata sull’autorità e il carisma del primo cittadino, ossia dell’imperatore.
Per quanto riguarda il rapporto tra il principato e la costituzione repubblicana c’è da dire che gli organi statali della repubblica,
magistrature, assemblee popolari e senato, continuarono ad esistere. Augusto e i suoi successori di tanto in tanto rivestivano
personalmente il consolato e appartenevano al senato in qualità di decano. In tal modo c’era intenzione di considerare gli organi
repubblicani come depositari della sovranità dello stato. Di fatto però la supremazia del principe tolse sempre più alla costituzione
repubblicana i suoi poteri. I consoli non si occupavano più della direzione politica o dell’esercizio del comando militare, in quanto tali
compiti erano di esclusiva competenza del principe, determinando la rapida decadenza dell’organo fino a diventare una mera
decorazione, di cui venivano insigniti i membri di illustri famiglie nobiliari e i più meritevoli collaboratori del principe. Meglio resistettero le
magistrature minori, le cui funzioni il principe non aveva motivo di assumerle personalmente. Così i pretori continuarono a svolgere la
giurisdizione civile e penale nello stesso modo in cui avevano fatto nella tarda repubblica. Tuttavia, nel corso del I sec. d.C. , i loro
decreti erano soggetti all’appello al principe o al senato. Gli edili persero le loro funzioni di ordine pubblico a vantaggio dei nuovi organi
di polizia del principe, e i questori cittadini dovettero cedere l’amministrazione dell’erario a un prefetto aerarii di nomina imperiale.
Mentre le magistrature continuarono ad esistere fino all’epoca tardo-imperiale, l’assemblea popolare scomparve dalla scena politica.
Poco dopo scomparve anche la legislazione popolare, il cui posto fu preso dalle deliberazioni del senato. Il popolo si ritrovò così a
svolgere un ruolo di comparsa nelle celebrazioni pubbliche. Il senato in un primo momento vide ampliarsi la sua competenza, ma dopo
finì col perdere ogni capacità di esprimere liberamente le proprie opinioni, trasformandosi in un semplice portavoce della volontà
imperiale. A questa dovettero uniformarsi le elezioni, mentre le proposte di legge presentate dal principe o dalle persone di sua fiducia
venivano accettate senza essere discusse. Si assiste, quindi ad una riduzione drastica dei poteri della costituzione repubblicana e
intorno al principe si costruiva una nuova organizzazione statale, che si perfezionò con il passare del tempo.
Alla sfera del diritto costituzionale repubblicano il principato si riagganciava attraverso due poteri: potere tribunizio e l’imperium
proconsolare del principe. Il primo, concesso a vita al principe, gli dava tutti i diritti di un tribuno della plebe: l’inviolabilità, il diritto d
convocare tanto l’assemblea del popolo quanto il senato, il diritto di veto sugli atti di governo di qualsiasi magistrato. Questi diritti
consentivano al principe di intervenire ogni volta che lo ritenesse necessario nella politica della capitale. Il secondo dava al principe il
potere supremo sulle province e sull’esercito, il quale dalla fine del II sec. a.C. , si era trasformato in una truppa di mercenari a lunga
ferma. L’imperium proconsolare non era qualcosa di inconsueto ma poteva apparire un presupposto indispensabile per la
conservazione dell’impero e della pace; poiché il suo campo d’azione riguardava solo le province, il cittadino della capitale poco se ne
interessava, anzi si faceva in modo da non farlo notare.
La stessa relazione autobiografica di Augusto tace su questo argomento, cercando una dissimulazione dell’imperium proconsolare,
tanto da non renderlo chiaro nemmeno agli studiosi moderni. Augusto prese sotto la sua amministrazione quelle province che avevano
una certa importanza da un punto di vista militare, lasciando le altre nelle mani degli organi repubblicani e continuarono ad essere
governate da un proconsole, sotto il controllo del senato: ma il principe poteva, in qualsiasi momento, intervenire nella loro
amministrazione.
Per quanto riguarda l’apparato amministrativo del principe c’è da dire che egli oltre a partecipare all’amministrazione delle province,
prese su di sé anche alcuni compiti relativi alla città di Roma, come il mantenimento di adeguati corpi di polizia e di pompieri e
l’approvvigionamento di acqua e di grano per la capitale. La cassa del principe, da cui venivano prelevate le somme per finanziare tutte
queste branche dell’amministrazione, assorbiva gran parte delle entrate complessive dell’impero, specialmente quelle delle province
amministrate direttamente dal principe. L’amministrazione delle finanze, la corrispondenza tra il principe e i suoi funzionari, il disbrigo
delle numerose petizioni che venivano indirizzate al principe dalla popolazione provinciale, richiedevano un’estesa rete di uffici e alcune
organizzazioni ausiliarie, come una posta statale rapida e sicura. Si formò così un vasto apparato amministrativo che mise da parte gli
organi repubblicani. Le cariche create dal principe non erano onorarie e gratuite come le magistrature repubblicane ma esse venivano
pagate profumatamente e la loro durata in carica si protraeva fino a quando il principe lo riteneva opportuno. Il principe per i compiti

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che rientravano nelle sua competenza, si fece aiutare anche dai due ceti dirigenti: l’aristocrazia senatoria e i cavalieri. Ad un senatore di
rango più elevato amministrava la carica di prefetto urbano con il compito di mantenere l’ordine interno della capitale. Di provenienza
senatoria erano anche i sovrintendenti alle opere pubbliche, agli acquedotti e alle grandi vie di comunicazione. Anche tutti i maggiori
posti di comando dell’esercito erano riservati al ceto senatorio, come anche la maggior parte degli incarichi a governatore nelle province
soggette all’amministrazione del principe. Le province più piccole venivano amministrate da governatori dell’ordine equestre. Per quanto
riguarda la provincia dell’Egitto, importante perché era considerato il granaio dell’impero, Augusto non volle affidare la sua
amministrazione ad un membro della nobiltà senatoria, ma ad uno del ceto equestre; difatti, per proteggerla attuò delle dispozione
eccezionali, ossia i membri dell’ordine senatorio non potevano mettervi piede senza uno speciale permesso del principe. Fino ai primi
decenni del II sec., tutti quegli uffici centrali che funzionavano sotto il diretto controllo del principe vennero affidati ai liberti imperiali. In
origine essi fungevano da organi ausiliari interni, che assistevano il principe nell’attività amministrativa, poi, a partire da Claudio,
acquistarono un’organizzazione più stabile ed autonoma. Il ragioniere del principe si trasformò in una specie di ministro delle finanze
dell’impero; la corrispondenza del principe veniva sbrigata da due uffici separati: ab epistulis e a libellis, a cui si aggiungeva anche un
ufficio speciale per la tenuta dell’archivio imperiale ( a memoria).
Con lo sviluppo dell’amministrazione finanziaria si eliminò anche il sistema dell’appalto delle imposte, determinando un vantaggio, non
solo per le entrate statali, ma anche per i contribuenti. Il controllo costante esercitato dal principe su tutta l’amministrazione dell’impero
favorì la certezza del diritto, riducendo nello stesso tempo la corruzione, anche se non fu del tutto eliminata.
Un problema abbastanza importante riguardava, poi, la successione del principe. Infatti, la morte di esso, determinava ogni volta un
momento più o meno critico per la pace interna dell’impero. Tuttavia il problema della successione venne risolto in modi diversi, a
seconda delle circostanze del caso: ora in via ereditaria, ora con l’elezione del senato, ora con la decisione dell’esercito. L’unico
sistema efficace fu quello della correggenza. Già Augusto aveva chiamato il successore da lui designato a collaborare agli affari di
governo mentre lui era ancora in vita, indicandolo come il futuro principe. Altri casi di correggenza portarono anche a governi congiunti,
in cui i principi sono due con uguali poteri. Poiché l’esperienza insegnava che la trasmissione del principato al discendente di sangue
poteva facilmente portare la persona sbagliata alla guida dell’impero universale, alla fine del I sec. ( a partire da Nerva) si diffuse una
nuova pratica, per cui il principe adottava il migliore dei suoi collaboratori, designandolo come suo successore. Questa procedura dette
all’impero molte delle sue più grandi e nobili sovrani, come Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Era necessario poi che il
nuovo principe ottenesse l’attribuzione dei poteri della tribunicia potestas e dell’imperium proconsolare. La relativa deliberazione
spettava al senato, il quale ritenne opportuno che questo atto fosse ulteriormente confermato da una legge popolare. Per lo meno così
accadde per l’imperatore Vespasiano, condotto al potere da una rivoluzione militare: la legge, riguardante la sua investitura, è giunta
fino a noi, anche se solo parzialmente d è la cosiddetta lex de imperio Vespasiani.
Il principato assicurò all’impero più di due secoli di sviluppo pacifico. Di ciò ne godettero anche le province. Quanto all’Italia, nonostante
tutti i provvedimenti di riforma, non si riuscì a porre rimedio ai dissesti sociali della tarda Repubblica. Con una serie di leggi, Augusto
aveva cercato di dare un nuovo impulso all’etica matrimoniale e nobiliare, di eliminare i pericoli dovuti alla scarsa natalità. Di arrestare
l’intensa infiltrazione di stranieri nella cittadinanza romana. Quanto alla sua politica di insediamenti in Italia si proponeva di sistemare i
veterani delle ultime guerre civili. Questa politica ebbe come risultato un incremento della piccola proprietà contadina. Più tardi Nerva,
Traiano e i loro successori istituirono delle fondazioni per la cura dei ragazzi appartenenti a famiglie indigenti. I capitali di queste
fondazioni furono messi disposizione dei contadini possidenti italici, e servirono a combattere la scarsa natalità e a sostenere
l’economia rurale. Nonostante tutto, però, si ebbe un’ulteriore crescita del latifondo col conseguente aggravarsi dello spopolamento
della penisola. Una politica economica orientata gli imperatori dell’età del principato non l’hanno mai praticata. Essi si preoccupavano
solo di risolvere problemi immediati, come quello dell’approvvigionamento di grano per Roma, ma non curarono i singoli rami
dell’economia. Per questo il quadro complessivo della vita economica sembra basata sul lasciar fare, lasciar andare. Ciò portò ad un
processo che alla lunga doveva spostare il baricentro economico, e poi anche quello politico e spirituale, dall’Italia ad altre zone
dell’impero. L’intera parte occidentale dell’impero fu più o meno romanizzata in un periodo abbastanza breve, grazie alla penetrazione
dei commercianti romani, e alla fondazione di colonie romane. Durante il Principato la romanizzazione fece rapidi progressi e si
ricominciò ad accordare la cittadinanza romana o latina a parecchie persone singole e ad intere comunità. Solo nelle province orientali
la civiltà romana non poté fare conquiste molto rilevanti perché qui dominava la cultura greca; anche se le due civiltà furono sentite ogni
giorno come unità, determinando fra Oriente e Occidente uno sviluppo congiunto. A cominciare dal I sec. d.C. , cominciò la scalata
sociale di alcuni individui appartenenti alle classi più elevate delle province, i quali riuscirono ad arrivare fino al senato romano. Verso la
metà del II sec. , una buona metà di senatori veniva dalle province; lo stesso principato, con Traiano e Adriano, venne assunto da
romani di origine spagnola. Vediamo, ad esempio, che il famoso editto, la constitutio Antoniniana, con cui Antonino Caracolla estese la
cittadinanza romana a tutto l’impero, fu solo la conseguenza del processo di romanizzazione in atto. Questo editto è giunto fino a noi in
un papiro, in cui molte parti mancano, ma si evince che una parte della popolazione dell’impero, i dediticii, pare fosse esclusa dalla
concessione della cittadinanza. Con la constitutio Antoniniana, l’idea di un impero universale sopranazionale aveva trionfato sulla città –
stato romana.

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CAP. 4) Il processo penale
§ 1) Il diritto penale privato delle XII Tavole era sicuramente inadeguato di fronte allo sviluppo che Roma ebbe nel tempo. La crescita
del proletariato urbano e del numero degli schiavi determinò energiche misure per il mantenimento della sicurezza pubblica. Per questo
sorse una severissima giurisdizione di polizia contro gli autori di violenze, gli incendiari, gli avvelenatori e i ladri. Su tutti costoro
pendeva la pena di morte. Erano considerati delitti punibili con la pena di morte anche il fatto di girare armati con intenti criminali e la
compera o vendita, e in generale il possesso, di veleni mortali. Chi cadeva nelle mani della polizia veniva punito d’ufficio; ma il
procedimento poteva essere messo in moto anche dalla denuncia di un privato: in questo caso era compito dell’accusatore fornire la
prova del delitto. Competente era il pretore urbano, in quanto titolare del potere di giurisdizione. Egli affidava il compito di punire gli
schiavi e i criminali appartenenti allo strato più umile della popolazione libera ai tresviri capitales. Questi erano magistrati di rango
inferiore a cui spettavano anche la tutela della pubblica sicurezza nella città, il controllo delle prigioni di stato e l’esecuzione delle
condanne a morte. Se il reo era confesso o colto in flagrante, i tresviri eseguivano la pena capitale senza dibattito giudiziario. Agli
schiavi la confessione veniva estorta con la tortura. Ma s l’accusato contestava il fatto di cui era imputato, era il consiglio del triumviro a
decidere sulla sua colpevolezza o innocenza. Dinanzi al pretore arrivavano solo quei processi che riguardavano i cittadini di un certo
prestigio sociale e non confessi. In questi casi occorreva sempre il giudizio del consiglio. La punizione dell’accusato dichiarato colpevole
era compito del pretore; questi, pur non avendo la facoltà di sostituire la pena di morte con un’altra pena, poteva lasciare che il
condannato fuggisse in esilio e pronunciare contro di lui l’interdizione dell’acqua e del fuoco. Per quanto riguarda i delitti politici che,
durante l’età della repubblica, si svolgevano dinanzi ai comizi e sotto la direzione dei tribuni della plebe, degli edili o dei questori, ben
presto la procedura fu inadeguata ai tempi: l’assemblea popolare non era più formata da gente accorta e ponderata ma era dominata da
masse esposte a flussi demagogici. Inoltre politica e amministrazione erano diventate talmente complicate, che il comune cittadino non
era più in grado di giudicare sul fatto criminoso. Divenne , così, sempre più usuale che il senato affidasse i delitti politici ai consoli o ad
uno dei pretori, in modo che il processo si svolgesse dinanzi al loro consiglio, il quale, essendo composto da senatori, era esperto in
materia. Questi tribunali straordinari furono istituiti anche per giudicare delitti che non potevano essere trattati nel corso normale della
giustizia penale pubblica, per il concorso di un gran numero di persone coinvolte nel reato. Questi tipi di tribunali avevano carattere
d’improvvisazione e si costituivano di volta in volta e la scelta del consiglio giudicante spettava al magistrato presidente o al senato.
Solo per il processo per concussione esistette una speciale lista di giudici predisposta per l’intero anno di carica dei magistrati; da essa
veniva formato il consiglio di volta in volta. Altre corti giudiziarie permanenti di questo tipo furono istituite solo dopo che fu eliminato
l’obbligo di formare i consigli dei tribunali penali esclusivamente con membri del senato, vale a dire, dopo la lex Sempronia iudiciaria di
Gracco. Questa legge permetteva l’accesso al banco dei giudici ai cavalieri.

§ 2) Silla riorganizzò i tribunali permanenti che erano stati creati dalla lex Sempronia, aumentandone anche il numero. Ci furono quindi
tribunali per delitti di alto tradimento e disobbedienza agli organi superiori dello stato, sottrazione di beni dello stato, corruzione

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elettorale, concussione nelle province, omicidio, attentato alla sicurezza pubblica, falsificazione di testamenti o di monete e ingiurie
gravi, inclusa la violazione di domicilio. Altri tribunali, come la quaestio de vi, per qualsiasi tipo di violazione, e la quaestio de adulteriis,
per l’adulterio e la seduzione di donne non maritate di onorata condizione, furono introdotti in epoca successiva, alcuni solo con la
legislazione criminale augustea, che costituì il punto d’arrivo nello sviluppo degli iudicia publica. A capo delle singole questioni c’era
normalmente un pretore. Il processo dinanzi a queste giurie non avveniva d’ufficio ma attraverso una denuncia di un privato. Ciò era
proprio una caratteristica del processo penale pubblico, ossia ogni cittadino di buona reputazione aveva la facoltà di presentare
l’accusa. I motivi che spingevano l’accusatore erano diversi. Accanto alla sete di vendetta della parte lesa, giocavano un ruolo
importante le inimicizie, che in genere non avevano nulla a che vedere con il delitto in questione,l’ambizione politica e specialmente la
brama di denaro: infatti, le leggi criminali stabilivano, per l’accusatore che avesse vinto il processo, premi di notevole valore. In caso di
condanna capitale dell’accusato, all’accusatore spettava una parte del patrimonio confiscato. Senza dubbio molte erano le persone che
esercitavano proprio la professione di accusatore, difatti, i difetti che presentava questo sistema si cercò di eliminarli sottoponendo
l’accusatore, le cui accuse fossero infondate, ad un processo per calunnia, togliendogli la facoltà di sostenere in futuro altre accuse
criminali.
Se il magistrato ammetteva l’accusa, si formava un consiglio e a sorte venivano estratti i nominativi dei giudici della relativa questione.
Avvenuta la scelta, il cui numero fu diverso nei vari periodi ed anche nelle singole questioni, i membri dovevano prestare giuramento. Il
dibattito vero e proprio spettava alle parti: l’accusatore presentava e interrogava i suoi testimoni e l’accusato faceva lo stesso. I giurati
ascoltavano in silenzio. Finita l’arringa da entrambe le parti, il consiglio emanava il suo verdetto scrivendo il voto su tavolette che
venivano deposte in segreto in un’urna. La parità di voti favorevoli e contrari valeva l’assoluzione. Se si verificava un gran numero di
astensioni si procedeva ad un secondo dibattimento. Sulla base della votazione del consiglio il magistrato giurisdizionale annunciava se
l’accusato avevo o no commesso il fatto di cui era stato accusato. In linea di principio, non veniva espressa la condanna ad una pena
perché questa risultava dalla legge su cui si fondava il procedimento. Solo nel caso in cui si trattava di pena pecuniaria c’era bisogno di
una stima della pena da parte dello stesso consiglio, che si riuniva dopo il verdetto di condanna per discutere del valore della lite. Per
quanto riguarda la pena di morte, questa non veniva quasi più applicata in un processo svolto dinanzi ad una quaestio, i quali
generalmente appartenevano ai ceti più elevati; piuttosto il magistrato dava loro la possibilità rifuggire in esilio. Per gli schiavi e i
criminali provenienti dagli strati più bassi della società, venivano di norma messi a morte.

§ 3) Augusto non soppresse le corti giurate ma le riorganizzò, e ne aumentò il numero. Esse continuarono ad essere gli organi della
giurisdizione penale ordinaria. Augusto, però, nello stesso tempo riformò tutto il sistema di polizia e la giurisdizione che vi era connessa,
nominando capo della città a tempo indeterminato un senatore di rango consolare e creando un contingente di polizia alloggiato in
caserma, le cohortes vigilum. Il praefectum urbi e il comandante dei vigiles presero il posto dei tresviri capitales come titolari della
giurisdizione di polizia. Anche fuori della città di Roma Augusto prese provvedimenti per combattere la delinquenza, specialmente il
banditismo. Aveva cosparso il paese di basi militari. E’ lecito pensare che il nuovo sistema di polizia creato da Augusto abbia significato
non solo un passo avanti decisivo nella lotta alla delinquenza, ma anche un miglioramento dell’amministrazione della giustizia penale.
La giurisdizione, infatti, non si trovava più nelle mani di magistrati giovani che, cambiando ogni anno, non avevano il tempo di
accumulare esperienza, ma essa veniva esercitata da persone competenti e con una carica più lunga, che permetteva una maggiore
stabilità nell’amministrazione della giustizia. Infine il tribunale del prefetto non era un tribunale speciale, il quale giudicava solo
determinati delitti, ma poteva giudicare anche qualsiasi crimine diretto a turbare la sicurezza e l’ordine pubblico. Per queste ragioni,
appare comprensibile che la giurisdizione penale straordinaria del praefectum urbi, cominci a soppiantare quella ordinaria delle corti
giurate. Il tribunale che, invece, si occupò della questione dell’adulterio ebbe vita più lunga degli altri, in quanto la materia trattata usciva
dall’ambito delle competenze del praefectum urbi, al quale spettavano solo funzioni di polizia. Anche il senato e il principe fungevano da
organi di giustizia penale. Il senato svolgeva la giurisdizione criminale solo nell’ambito del senato stesso, mentre le funzioni
giurisdizionali del principe riguardavano prettamente le province e l’esercito. Tali poteri venivano esercitati da suoi delegati. Se egli,
però, si trovava in una di queste province, aveva la facoltà di assumere personalmente le funzioni di magistrato giurisdizionale. Anche
gli abitanti delle province potevano rivolgersi direttamente al principe, contro le decisioni dei suoi rappresentanti. E’ dubbio se il principe
avesse il diritto di giurisdizione anche in Roma. Certo è che egli poteva esercitare una specie di controllo sull’amministrazione della
giustizia, come titolare della tribunicia potestas. In ogni caso è certo che Augusto abbia esercitato assai spesso funzioni giurisdizionali.
Tuttavia, pare che egli si sia in generale astenuto dall’intervenire nella giurisdizione ordinaria, civile e penale, da lui riformata. Il compito
di provvedere alle appelationes, fu delegato a consolari, che venivano investiti di quell’incarico per 1 anno. Tiberio fu ancora più discreto
di Augusto nell’esercizio della giurisdizione. Solo con gli imperatori successivi sembra che la giurisdizione imperiale abbia cominciato a
svilupparsi in tutta la sua pienezza. Essa raggiunse il massimo nel periodo da Adriano a Settimio Severo. L’imperatore poteva portare
dinanzi al suo tribunale qualsiasi lite.
Sui particolari del procedimento dinanzi ai tribunali penali straordinari dell’età imperiale siamo informati in modo frammentario.
Sicuramente si poteva mettere in moto d’ufficio, anche se la cosa più usuale era che si partisse dall’accusa di un privato. Il dibattimento
era condotto in modo più rigoroso ma anche con criteri più elastici che non dinanzi ai tribunali giurati. Anche per quanto riguarda le pene

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che il presidente poteva infliggere al reo confesso o dichiarato colpevole dal consiglio, la giurisdizione penale straordinaria dell’età
imperiale godeva di una maggiore libertà di movimento che non il processo dinanzi ai tribunali giurati. Mentre quest’ultimo rimaneva
ancorato alle leggi criminali repubblicane ed augustee, che prescrivevano pene pecuniarie o la pena capitale, i funzionari della
giurisdizione penale straordinaria potevano disporre anche che il reo confesso fosse assegnato ad una scuola di gladiatori o
condannarlo ai lavori forzati. Questa pena, però, veniva inflitta solo a persone di basso ceto. Lo stesso vale per la pena di morte, che i
tribunali straordinari facevano eseguire raramente nei confronti dei cittadini alto locati. Per questi la pena capitale consisteva nella
deportazione in un’isola, con o senza custodia; in casi meno gravi ci si limitava alla relegazione, cioè all’espulsione da Roma e dall’Italia
o eventualmente dalla provincia in cui il condannato aveva la residenza. Relegazione o deportazione presero il posto della fuga in esilio
consentita dal magistrato. Ila procedura straordinaria era più efficace e, nel complesso anche più giusta di quella ordinaria,
specialmente nei confronti dell’uomo comune che poco aveva beneficiato del processo dinanzi alle corti giurate, ma che subiva,
comunque, pene più dure rispetto a coloro che appartenevano ai ceti più elevati.

CAP. 5) Gli sviluppi del diritto privato

§ 1) Dal III sec. a.C. , Roma partecipava attivamente al traffico commerciale del mondo ellenistico. Commercianti italici si spinsero ben
presto fino ai paesi orientali e mercanti stranieri arrivavano a Roma e nell’Italia romana sempre più numerosi. Si determinò ben presto il
problema di come regolamentare i rapporti giuridici con gli stranieri. A Roma, come in tutto il mondo antico, vigeva come principio
fondamentale quello della personalità del diritto. Ogni comunità aveva un diritto che valeva solo per i cittadini di quella comunità e non
per gli stranieri. Lo straniero che non avesse ottenuto una equiparazione con il cittadino doveva avvalersi dell’aiuto di un cittadino, il suo
ospite. Mentre l’Oriente aveva superato questa condizione di isolamento giuridico, mediante la formazione di un comune diritto
commerciale ellenico, basato sulla stretta affinità esistente fra tutti gli ordinamenti giuridici greci, la posizione dell’antico diritto romano
era rigido, poco duttile e incapace di adattarsi alle mutate esigenze dei tempi. Mentre nel mondo ellenistico si faceva uso della forma
scritta per i negozi giuridici più importanti, il diritto romano si basava su precise formule orali, e mentre il diritto commerciale ellenistico si
era sviluppato in modo libero attraverso i rapporti fra i membri di comunità diverse, lo ius civile romano rimase chiuso agli stranieri. Con
l’intensificarsi dei traffici commerciali, anche Roma fu costretta ad attuare una tutela dello straniero; infatti fu istituita la figura del pretore
degli stranieri, o praetor peregrinus, del quale non si conosce praticamente nulla della sua giurisdizione. Tuttavia bisogna supporre che
egli abbia avuto un ruolo importante sia per la liberalizzazione del procedimento giudiziario dal formalismo delle XII Tavole, sia per il
riconoscimento di alcuni contratti obbligatori conclusi in modo non formale, come la compravendita, la locazione di cose d’opera, ecc.
questi erano contratti che potevano essere conclusi anche da coloro che non avevano la cittadinanza romana. La loro forza obbligatoria
si fondava non sullo ius civile, il diritto proprio dei romani, ma sullo ius gentium. Con questa espressione si indicavano quei contratti che
erano riconosciuti da tutti i popoli e potevano perciò essere validamente stipulati non solo fra romani, ma anche fra stranieri e fra romani
e stranieri. Il concetto di ius gentium si estendeva anche ad altri campi dell’ordinamento giuridico ed in particolare al diritto privato.
Poiché si sapeva che la compravendita, la locazione d’opera o di servizi, il prestito e altri contratti simili venivano conclusi ed adempiuti
anche presso altri popoli, si era portati a credere che il vincolo da essi derivante si basasse su principi giuridici ugualmente validi in ogni
luogo. E’ chiaro che alla base di questa teoria non c’era una conoscenza approfondita degli ordinamenti giuridici stranieri; del resto i
romani, nonostante che la pratica giuridica e la vita economica subirono delle trasformazioni a causa dei traffici internazionali e del
diritto ellenistico, non si preoccuparono mai di attuare una vera recezione delle norme giuridiche straniere nel diritto romano. Tale
trasformazione determinò solo lo stimolo a produrre nuove norme che si basavano, comunque, sullo ius civile.

§ 2) Con l’espandersi dell’impero crebbe anche il campo di applicazione del diritto romano, pertanto lo ius civile veniva applicato
ovunque si trovassero cittadini romani sparsi sul territorio dell’impero. I sudditi conservavano il loro diritto indigeno, ed era questo che
veniva applicato se essi litigavano dinanzi ai propri tribunali. Se, però, i sudditi, volontariamente o perché vi fossero costretti, cercavano
di far valere i loro diritti dinanzi ad un tribunale romano, il processo si svolgeva secondo le norme romane e, nell’ambito del diritto
commerciale, le norme giuridiche erano quelle dello ius gentium. Le ragioni erano date dal fatto che i romani non conoscevano il diritto
indigeno e non avevano mai mostrato interesse nel conoscerlo. Nel momento in cui la cittadinanza romana venne estesa
generosamente in molte zone dell’impero, il diritto romano fu l’unico vigente in Italia e nelle province. Quando infine la constitutio
Antoniniana ammise nella comunità cittadina la massa della popolazione dell’impero che fino a quel momento ne era stata esclusa, tutto
l’imperium Romanus, diventò un territorio giuridicamente unitario, in cui fu applicato indifferentemente sia lo ius civile che lo ius gentium.
I ritrovamenti papirologici in Egitto hanno dimostrato, però, che in questa regione come anche in altre zone delle province è esistita una
tradizione giuridica che si basava sull’ordinamento giuridico preromano, risultante da elementi greci ed egiziani. Ciò lo si evince anche
da un attento esame delle leggi imperiali del III sec. d.C. , le quali consistono nei cosiddetti rescritti, cioè in quei pareri giuridici che gli
imperatori in singoli casi concreti hanno fornito su richiesta sia di privati che di giudici o di funzionari. In moltissimi di questi rescritti, gli
imperatori impongono l’osservanza dei principi del diritto romano e delle decisioni che ne scaturiscono. Ciò significa che la vita giuridica
della parte greca dell’impero continua ad essere dominata, anche dopo la constitutio Antoniniana, dal diritto indigeno. La constitutio

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Antoniniana, in effetti, aveva solo cambiato lo status politico di tutti quelli che fino a quel momento erano stati dei sudditi; ma continuava
ad esistere un’autonomia amministrativa ed anche una giurisdizione proprie, per cui il diritto romano era estraneo ai tribunali locali.
Anche gli scribi continuarono ad usare i loro formulari, cercando al massimo di adattarli alle esigenze del diritto romano. Quindi il diritto
romano veniva applicato solo là dove c’erano uomini che lo conoscevano; ma in Oriente, questo accadeva solo nel tribunale del
governatore. Un esempio abbastanza noto è quello del campo delle obbligazioni, dove il diritto romano non conosceva il concetto della
libertà contrattuale, ma ammetteva solo alcuni tipi di contratto, come la stipulatio, che consisteva in uno scambio orale di domanda e
risposta tra le parti. Essa aveva carattere formale, perciò poteva essere applicata alla compravendita, alla donazione, ecc. della
stipulatio, i notai ellenistici, capirono solo che qualsiasi negozio era valido se c’era stato uno scambio di domanda e risposta tra le parti.
Nelle province, però, operarono dei giuristi romani, che, con ogni probabilità, svolgevano la loro attività solo in quei luoghi ove trovava
applicazione il diritto romano, come il tribunale del governatore. Solo quando sorsero scuole giuridiche locali, in cui si insegnava il diritto
romano, questo iniziò a trovare applicazione concreta. Comunque, molto più facile fu il processo di romanizzazione in Occidente, dove i
romani non trovarono alcuna resistenza significativa, anzi il latino diventò la lingua ufficiale di tutta la parte occidentale dell’impero, di
conseguenza il diritto romano riuscì ad attecchire più in profondità rispetto alla parte orientale dell’impero.

§ 3) L’antico ius civile si fondava sulle legge delle XII Tavole, sulla loro interpretazione e sulle leggi popolari ad esse posteriori. Le
innovazioni alle leggi del tempo furono minime, quelle più significative si ebbero nell’ultima epoca repubblicana, sotto la guida dei
magistrati giurisdizionali: in Roma dai due pretori incaricati dell’amministrazione della giustizia civile. Le nuove norme scaturite
dall’attività giurisdizionale di questi magistrati si contrapposero come diritto magistratuale (ius honorarium) allo ius civile. La maggior
parte del diritto onorario valeva anche per i rapporti con gli stranieri, ed era quindi contemporaneamente anche ius gentium. Si hanno
così due concetti, lo ius civile e lo ius honorarium, che si intersecavano. Il primo atteneva alla sfera personale di applicabilità delle
norme giuridiche, il secondo alla fonte da cui esse scaturivano. La giurisdizione magistratuale rappresentò l’elemento dominante nello
sviluppo giuridico romano. Poi comparvero altri elementi che la soppiantarono. Uno di questi fu la legislazione imperiale, che in un primo
momento fu camuffata, poi uscì allo scoperto e si assunse da sola il compito dello sviluppo del diritto romano. L’azione di tutti questi
fattori si riflette sulla struttura stessa dell’ordinamento giuridico romano. Dal momento in cui la giurisdizione magistratuale divenne il
principale modo di formazione del diritto, il diritto romano si trasformò in un complesso di strati giuridici diversi, ciascuno con
caratteristiche più o meno spiccate. Quando la giurisprudenza classica iniziò la sua opera, trovò uno ius honorarium libero, progredito e
in continua evoluzione e uno ius civile rigoroso e rigido nei suoi fondamenti. Essi si contrapponevano come nel diritto inglese, dove il
common law si contrappone alla equità, che scaturisce dalla prassi della corte del Cancelliere. Quando, nel corso del III sec. d.C., ci fu il
tracollo culturale, le due masse giuridiche confluirono in un unico diritto giurisprudenziale: ius civile e ius honorarium erano concetti
ormai scomparsi, e ciò che ora si vedeva era il prodotto della loro elaborazione da parte dei giuristi classici. Intanto si era formato un
terzo strato, il diritto imperiale. Se in quel tempo esso non poteva essere rappresentato con chiarezza, nel periodo tardo si trasformò in
un complesso unitario di norme con caratteristiche proprie, in contrapposizione con il diritto giurisprudenziale. Il coesistere di strati
giuridici diversi, strettamente collegati fra loro, ma conservando una struttura propria, era il risultato di una crescita naturale. In breve il
diritto romano è un ordinamento giuridico dal carattere storico purché lo si prenda come realmente è stato. Se lo si analizza attraverso
la scienza moderna, in particolare la teoria tedesca del XIX sec., si riflette ben poco della struttura tipica dell’antico diritto romano.

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CAP. 6) La giurisdizione civile e il diritto magistratuale
§ 1) I supremi magistrati, i consoli, a partire dalle leges Liciniae Sextiae non esercitarono più la giurisdizione, ma la lasciarono al
pretore. Durante la repubblica e il principato, la pretura era dunque la magistratura giurisdizionale vera e propria. A parte la speciale
competenza degli edili curuli nelle liti di mercato, ad essa toccava tutta l’amministrazione della giustizia sia civile che penale, a Roma e
nell’Italia romana. C’erano però degli organi giudiziari ausiliari che servivano ad alleggerire il lavoro del pretore. Il tribunale di polizia dei
tresviri capitales, ad esempio, sbrigava gran parte dei processi criminali che si svolgevano a Roma. Dal 242 a.C. questi compiti furono
ripartiti tra due pretori: il praetor urbanus, a cui era affidata la giurisdizione tra cittadini romani e il praetor peregrinus competente per i
processi fra stranieri o fra stranieri e cittadini romani. Un aumento del numero dei magistrati si ebbe solo quando ai pretori prima
impiegati come governatori delle province fu affidata la presidenza dei tribunali giurati (quaestiones). A partire dal quel momento la
competenza del pretore urbano e del pretore pellegrino di limitò essenzialmente all’amministrazione della giustizia civile. Nelle province
era il governatore, o come suo rappresentante il questore, che esercitava la giurisdizione sia civile che criminale tra cittadini romani, o
anche tra peregrini.

§ 2) I romani designarono con l’espressione ius dicere, e col termine iurisdictio che da essa deriva,l’attività del magistrato
giurisdizionale, il quale non emanava di persona la sentenza, ma aveva semplicemente il compito di condurre o introdurre il processo.
Erano i giurati a pronunciare la sentenza. La più antica forma di tribunale romano fu costituita probabilmente da un collegio di giurati,
presieduto dallo stesso magistrato o da un suo rappresentante. Questa forma di tribunale si è conservata fino all’età del principato, nel
processo penale. Ma anche in quello privato esisteva una corte giurata di questo tipo: era il tribunale dei 100 uomini (centumviri). Ma
nella tarda repubblica la maggior parte dei processi civili non si svolgeva più dinanzi ai centumviri, ma davanti a singoli giudici e, in
alcuni casi davanti ad arbitri o dai cosiddetti recuperatores, i quali senza la guida di un magistrato. Quest’ultimo aveva solo il compito di
dirigere un procedimento introduttivo rispetto al processo vero e proprio , in cui doveva decidere se ammettere o no l’azione e nominare
il giudice dinanzi a cui si sarebbe decisa la lite. La netta divisione del processo in due fasi: una introduttiva alla presenza del magistrato
e l’altra vera e propria in cui si trattava la lite dinanzi al giudice, si affermò come una caratteristica particolare del processo civile
romano. I giudici e gli arbitri che il magistrato designava in iure a decidere la lite erano dei privati, i quali dovevano pronunciare la
sentenza solo in quel determinato processo per cui erano stati nominati. Non si trattava di semplici arbitri dal momento che, pur
essendo proposti dalle parti, erano investiti del loro incarico dal magistrato. In questo senso il potere giurisdizionale del magistrato
costituiva la base anche del procedimento apud iudicem, cioè il vero e proprio processo: esso conferiva alla sentenza del giudice
l’autorità statale. Tale processo fu dominato dal rigido formalismo delle legis actiones e le parti dovevano dichiarare davanti al
magistrato le ragioni in conflitto, secondo formulari ancorati alle leggi delle XII Tavole. Tutto questo cambiò quando apparve un’altra
forma di procedimento in iure, in cui le parti svolgevano un dibattito libero dinanzi al magistrato. Nella nuova procedura le parti potevano
far valere anche pretese ed eccezioni che non erano comprese in nessuno dei pochi formulari delle legis actiones; ed anche il
magistrato non era più vincolato ed era in grado di fondare la sua decisione circa la nomina di un giudice su un oggettiva valutazione
delle ragioni addotte dalle parti. In tal modo il magistrato, pur continuando a svolgere una funzione preparatoria del processo, venne ad
occupare di fatto una posizione chiave nel corso dell’intero procedimento. Al termine della fase in iure il magistrato emanava oralmente
il decreto riguardante la concessione di un giudice e il compito di condannare il convenuto se si verificavano certi presupposti o di
assolverlo. Era poi compito delle parti fissare in un documento il testo del decreto magistratuale. A tale scopo esse chiamano dei
testimoni , i quali dovevano poi garantire con il loro sigillo le scritture preparate dalle parti. Proprio in base a questa chiamata di
testimoni, tutta la fase conclusiva del procedimento in iure prese il nome di litis contestatio (attestazione della lite). Grazie a Gaio, il
giurista del II sec. d.C. , possiamo conoscere la storia del processo civile romano e cogliere la caratteristica di questo, cioè litigare
mediante formule processuali. Rifacendosi a lui la scienza moderna parla di processo formulare, che introdusse lo sganciamento della
fase in iure dai formulari orali, fondati sulle legis actiones. Tale processo si estese anche ai contratti non formali di compravendita, di
locazione di cose o di opera o di servizi, di società e di mandato, i quali nella procedura delle legis actiones non potevano trovare tutela.
Quando, nel III o agli inizi del II secolo a.C. , si avvertì l’esigenza di riconoscere forza obbligatoria a questi contratti, si affermò una

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nuova procedura: il pretore concedeva uno iudicium con una formula che autorizzava il giudice a giudicare non secondo il diritto
legislativo, ma secondo il principio della buona fede contrattuale. Il principio della buona fede era solo uno dei tanti mezzi per
approntare una formula, dei quali il pretore si serviva per estendere la tutela giuridica oltre la cerchia dei rapporti riconosciuti dallo ius
civile. A volte, egli applicava proprio il diritto civile a quelle fattispecie che non rientravano in esso. Quindi ordinava al giudice di
procedere come se ci fossero i presupposti dell’azione civile, che in realtà mancavano. I tal modo le azioni penali di furto o di
danneggiamento furono estese anche agli stranieri che avessero commesso un furto o l’avessero subito. Il praetor peregrinus,
competente per questi casi, concedeva e ordinava al giudice di decidere come se entrambe le parti possedessero la cittadinanza
romana. Prima che venisse creata questa formula processuale lo straniero che avesse comme3sso un furto era esposto alla reazione
incontrollata del cittadino derubato, mentre lo straniero derubato si trovava senza protezione. In presenza di una formula così costruita,
il giudice non doveva più esaminare la pretese dell’attore in base ai principi dello ius civile o secondo il metro della buona fede, ma
doveva semplicemente indagare se i presupposti di fatto della condanna corrispondessero a verità. In questi casi era il magistrato
stesso che decideva sulla questione di diritto, cioè sulla questione se e con quali presupposti la pretesa dell’attore meritasse tutela
giuridica. Alla fine, la procedura formulare s’impose anche nell’ambito dei rapporti contemplati dall’antico diritto civile. La riforma
giudiziaria di Augusto segnò la vittoria definitiva del processo formulare sulle legis actiones; le formule orali di queste leggi furono
impiegate solo in casi eccezionali, in particolare nel procedimento dinanzi al tribunale dei centumviri. L’estensione del processo
formulare alla sfera dei rapporti dell’antico diritto civile ebbe come conseguenza che l’attività innovatrice dei magistrati giurisdizionali si
fece sentire anche in questo campo. Eventuali obiezioni del convenuto, di cui nella procedura delle legis actiones non si poteva tenere
conto, venivano ora considerate includendo nella formula processuale una eccezione. Contro le decisioni del magistrato giurisdizionale
non c’era altro mezzo che l’intercessio di un altro magistrato di rango uguale o superiore, o dei tribuni della plebe, la cui funzione
principale era appunto quella di difendere il cittadino dalle ingiustizie. L’intercessione doveva essere dichiarata sul momento,
personalmente al magistrato contro il cui decreto essa si dirigeva. Perciò la parte che si sentiva trattata in modo ingiusto, soleva
chiamare in aiuto un tribuno della plebe. L’intercessio aveva luogo dopo un esame delle circostanze, nel quale anche il magistrato
giusdicente aveva l’opportunità di esporre i motivi della propria decisione. Essa aveva l’effetto di rendere invalido il decreto; ma nessuno
poteva costringere il magistrato a prendere un’altra decisione al posto di quella annullata. Chi volesse raggiungere tale scopo doveva
tentare la sorte con un altro magistrato competente, e col successore di colui al quale si era rivolto senza successo.

§ 3) Gli editti erano annunzi magistratuali che potevano avere un contenuto ed una portata diversi: alcuni erano comunicazioni o
ordinanze del tutto occasionali, la cui efficacia cessava con il venir meno del motivo che le aveva provocate; altri erano proclami che
rimanevano in vigore per tutto il periodo di carica del magistrato edicente. A questo secondo gruppo cioè agli editti di durata annuale
(edita perpetua), appartenevano anche gli editti giurisdizionali: infatti i pretori, gli edili, i governatori delle province, e molto
probabilmente anche i questori aggregati a questi ultimi, all’inizio del loro anno di carica erano soliti esporre pubblicamente, su una
tavola di legno imbiancato, i principi a cui pensavano di attenersi nella loro attività giurisdizionale e i formulari su cui intendevano
basarsi nella concessione delle formule processuali. Il magistrato, a partire da una lex Cornelia del 67 a.C. , fu vincolato al proprio
editto. Tuttavia anche dopo questa legge egli conservò la facoltà di concedere caso per caso nuovi rimedi giuridici che non fossero
ancora previsti nell’editto. Il magistrato appena entrato in carica prendeva come modello, l’editto del suo predecessore, apportandovi
solo delle modifiche e delle aggiunte che riteneva necessarie. In tal modo si formò un nucleo fisso di norme edittali, che veniva
ripubblicato anno per anno. Col tempo gli editti divennero un immagine abbastanza completa della pratica giurisdizionale, una
codificazione del diritto onorario che aveva rispetto ad un codice il vantaggio di essere capace di ulteriore sviluppo, appunto per il fatto,
che ogni anno il magistrato in carica aveva la possibilità di eliminare dall’editto quanto vi era di antiquato e di introdurvi nuovi rimedi
giuridici, che poi potevano diventare elementi fissi dell’editto stesso. Salvio Giuliano, uno dei giuristi romani più grandi, ebbe da Adriano
l’incarico di provvedere ad una redazione definitiva; questa fu poi ratificata da un senatoconsulto, e da quel momento avrebbe potuto
essere modificata solo dal principe. La giurisdizione dei magistrati perse così il suo valore creativo e lo sviluppo del diritto romano
rimase affidato alla giurisprudenza e alla legislazione imperiale. Negli editti c’era, inoltre, un certo numero di ordini e di divieti del
magistrato che servivano al mantenimento della pace giuridica e dell’ordine pubblico; infine essi contenevano le formule delle
exceptiones e i formulari dei contratti che dovevano o potevano essere conclusi tra le parti nel corso del processo. A parte ciò, la nostra
conoscenza degli editti giurisdizionali è assai lacunosa. Solo l’editto del praetor urbanus ci è noto con una certa precisione, attraverso i
lunghi frammenti dei commentari all’editto composti dai giuristi dell’età imperiale e conservati nel Digesto giustinianeo.

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§ 4) Lo ius honorarium si distingueva dallo ius civile delle XII Tavole per la sua veste processuale: diritti ed obblighi vi appaiono
sempre nella forma di possibilità di agire o di sollevare eccezioni e di altri rimedi processuali. In linea generale, il diritto onorario non
costituiva una massa giuridica separata dal diritto civile. Al contrario, esso si riallacciava direttamente a norme civilistiche integrandole,
limitandole, estendendole o trasformandole. Solo eccezionalmente diritto civile e diritto onorario si trovavano in contrapposizione, come
nel campo della proprietà e del diritto ereditario. Qui si arrivò ad una duplicazione dei concetti: alla proprietà di diritto civile, si
contrappose l’appartenenza al patrimonio del diritto onorario; all’eredità riconosciuta dal primo, il possesso dei beni del defunto
concesso dal secondo. Così, a Roma, la proprietà di una stessa cosa può spettare a due persone differenti, secondo che si abbia
riguardo all’uno o all’altro ordinamento.

CAP. 7) La scienza giuridica e il diritto giurisprudenziale


§ 1) La storia della giurisprudenza romana comincia con i pontifices, il collegio sacerdotale che fu un fattore importante per lo sviluppo
del diritto delle XII Tavole. I pontifices ebbero il controllo non solo delle regole riguardanti i rapporti della comunità con gli dei, ma anche
delle formule valide per i rapporti fra i membri della comunità stessa. Secondo la prospettiva arcaica, tanto nella preghiera agli dei
quanto nei rapporti giuridici fra gli uomini, ciò che solo importava era l’impiego delle parole esatte: solo chi conosceva la formula giusta
era in grado di invocare efficacemente la divinità, di vincolare o sciogliere da un legame un individuo. Il sapere dei pontifices era
segreto: il tesoro di formule che si conservava nell’archivio del collegio fu per molto tempo accessibile solo ai suoi membri.
Successivamente, però, le raccolte di formule dell’archivio pontificale furono pubblicate ed alcuni membri del collegio iniziarono a dare i
loro pareri giuridici pubblicamente, cioè davanti a tutti. Ciò ruppe il monopolio dei pontifices e si aprì la via allo sviluppo di una
giurisprudenza libera. I rappresentanti di tale giurisprudenza si dedicavano principalmente a dare pareri su questioni di diritto. Essi
svolgevano questa attività gratuitamente; infatti la giurisprudenza non diventò mai una professione esercitata al fine di guadagnarsi il
pane: essa rimase un’attività riservata a persone abbienti ed influenti. Ciò che dalla sua attività il giureconsulto si attendeva non era la
ricchezza, ma la crescita del proprio prestigio sociale, che gli avrebbe garantito una brillante carriera politica. Tra coloro che si
rivolgevano al giureconsulto non c’erano solo i privati, ma anche gli organi preposti all’amministrazione della giustizia, cioè i magistrati
giusdicenti e i giurati investiti della decisione della lite. Gli uni e gli altri erano costretti a ricorrere ai giuristi, dal momento che le
conoscenze giuridiche di cui disponevano erano molto scarse. Dare responsi corrispondeva alla principale attività del giurista, anche se
si aggiungevano anche le altre forme di attività giurisprudenziale, compresa quella particolare funzione che consisteva nel comporre i
formulari negoziali e processuali. Formulari di questo genere riguardavano la compravendita e la locazione di opere e servizi, che sono
stati conservati in un libro sulla coltivazione dei campi il cui autore, Catone il vecchio, fu celebrato dai posteri non solo come grande

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statista ma anche come eminente conoscitore del diritto. All’attività di consulenza del giurista romano era strettamente connesso
l’insegnamento del diritto. Certamente nell’epoca più antica esso aveva ancora il carattere di un’istruzione pratica: il giurista era
circondato da discepoli, i quali ascoltavano i suoi pareri.

§ 2) La giurisprudenza conservò la sua indole, che le derivava dalla tradizione del collegio pontificale, anche quando Roma cadde sotto
l’influsso dello spirito greco. La filosofia e la retorica greche diventarono elementi costitutivi della cultura romana, anche se esse non
intaccarono in modo significativo il campo del diritto. La giurisprudenza romana continuò ad essere un qualcosa di specificatamente
romano. Tuttavia è fuor di dubbio che il pensiero greco e i suoi metodi abbiano influito in vario modo sul dispiegarsi della
giurisprudenza. Però, solo nel breve manuale elementare scritto da Gaio intorno alla metà del II sec. d.C. ,troviamo un’articolazione
sistematica che fu certamente suggerita dall’esempio di opere greche. Ai giuristi era certamente familiare la teoria del diritto naturale
che Cicerone aveva introdotta nella letteratura romana e che risaliva ad Aristotele. E’ probabile che questa teoria abbia influito sulla
creazione dello ius gentium, e che si debba proprio ad essa se si parlava talvolta di possesso meramente naturale o di obbligazione
meramente naturale. Ma la dottrina del diritto naturale compare in modo esplicito solo con i giuristi della fine del II e degli inizi del III sec.
d.C. ; e anche qui essa non è altro che un rapido preambolo. Alquanto più profondo fu l’influsso esercitato dalle concezioni fisiche dei
filosofi greci sulla dottrina dei giuristi romani riguardo all’identità e alla trasformazione delle cose. Su questo punto si impiegarono i
concetti greci per risolvere problemi giuridici concreti, in particolare per decidere a chi, nel caso di accessione o commistione di cose
appartenenti a diversi proprietari, spettasse la proprietà sul prodotto dell’accessione. In effetti, si presume che i giuristi tardo-
repubblicani abbiano appreso dai greci l’arte dell’argomentazione dialettica. Questa tesi appare corretta se si tiene conto
dell’importanza fondamentale che ha avuto il modello greco in quasi tutti gli altri campi della vita culturale romana. Ma dimostrarla in
modo inconfutabile è impossibile, soprattutto perché sappiamo troppo poco dei giuristi più antichi. Come hanno mostrato indagini
recenti, i giuristi romani non hanno mai seguito, nell’interpretazione di leggi e negozi giuridici, una dottrina unitaria. Essi hanno adottato
sempre metodi diversi, alcuni dei quali risalivano ad un’antica tradizione della loro disciplina. Ciò vale, ad esempio, per la tecnica di
ampliare o restringere il campo di applicazione di norme legislative attribuendo al legislatore un uso linguistico che si discostava da
quello normale accanto a questa tecnica incontriamo anche la netta contrapposizione fra testo e significato di una legge.
Nell’interpretazione dei negozi giuridici furono mantenuti gli antichi rigidi principi; questo valse soprattutto per i negozi formali, mentre
per i rapporti giuridici non formali, governati dal principio della buona fede, fu seguita un’interpretazione più libera. Nell’ultimo sec. della
repubblica, cambia la fisionomia sociale della giurisprudenza: l’aristocrazia senatoria passa in secondo piano; la maggior parte dei
giuristi proviene dall’ordine equestre e molti vi rimangono per tutta la vita, segno che l’attività di consulenza giuridica, non offre più
vantaggi per la carriera politica. Inoltre, molti giuristi di quest’epoca non sono neppure romani per nascita, ma provengono da piccole
città italiche, che in parte erano state accolte nella cittadinanza romana solo alla fine della guerra sociale. I due maggiori giuristi del
tempo provenivano, però, da antiche famiglie della nobiltà romana e arrivarono fino al consolato. Entrambi appartengono all’epoca in cui
a Roma opera l’influsso della cultura greca. Il più anziano è Mucio Scevola, che sarebbe stato il primo ad ordinare il diritto per generi,
nel senso che egli attuò una sistemazione completa del diritto. Egli, cioè, amava distinguere diversi tipi di rapporti giuridici dallo stesso
nome; per esempio, 5 tipi di tutela e almeno 3 tipi di possesso. In questo si può vedere la sua conoscenza della dottrina greca. Nella
causa ereditaria di Manio Curio egli sostenne tuttavia il punto di vista della stretta interpretazione letterale contro le argomentazioni del
rettore. La sua esposizione dello ius civile rimase per lungo tempo il trattato fondamentale per questa parte dell’ordinamento giuridico,
ed era ancora commentata intorno alla metà del II sec. d.C. Servio Sulpicio Rufo, coetaneo e amico di Cicerone, proveniva da una
famiglia patrizia, che aveva già da tempo persa la sua importanza politica. Egli ricevette a Rodi una solida preparazione nella retorica
greca alla scuola di Apollonio-Molone, e in un primo tempo esercitò l’oratoria forense. Solo più tardi si dedicò alla giurisprudenza. Tra i
suoi maestri c’era anche Aquilio Gallo, noto tra l’altro come l’artefice dei rimedi giuridici contro il comportamento malizioso o contrario
alla buona fede. Se si deve credere a Cicerone, egli fu il primo che introdusse nella giurisprudenza il metodo scientifico. Degno di nota è
un commento all’editto pretorio da lui scritto e che ha segnato l’inizio all’interesse della letteratura giuridica per lo ius honorarium. Già un
suo allievo, Ofilio, uno di quei giuristi che rimasero sempre nell’ordine equestre, scrisse sull’editto un’opera più estesa. Da quel
momento lo ius honorarium divenne per i giuristi romani un campo di lavoro altrettanto importante quanto lo ius civile. Ofilio e gli altri
discepoli di Servio appartengono ad una generazione di giuristi la cui attività si svolse negli anni tra la fine della Repubblica e il
Principato augusteo. Essi segnarono il passaggio dalla giurisprudenza repubblicana al periodo classico della giurisprudenza romana.

§ 3) Il periodo di massimo splendore della giurisprudenza romana corrisponde al II sec. d.C. , in una fase della storia romana in cui
l’impero, pur godendo di un alto grado di benessere materiale, la vita intellettuale presentava in quasi tutti i campi sintomi di
invecchiamento. Nel complesso, appare chiaro che la giurisprudenza fu favorita dal principato. Già Augusto si sforzò di ottenere la
collaborazione dei magistrati giuristi dell’epoca, ma egli non fu ricambiato da quelli che nutrivano sentimenti repubblicani. Per esempio,
pare che Cascellio, il quale già si era messo in luce sfavorevolmente per il suo ostruzionismo giuridico e per la sua lingua tagliente,

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rifiutasse il consolato offertogli da Augusto. Labeone, il più grande giurista contemporaneo, si irrigidì per tutta la vita in un’opposizione
abbastanza scoperta. Tuttavia Trebazio Testa, che era stato molto vicino a Cesare, lo ritroviamo come consigliere di Augusto in una
decisione di grande importanza politico-giuridica. Tra i più giovani fu il rivale di Labeone, Ateio Capitone, che si mise a disposizione del
nuovo regime. Dl resto, si deve ad Augusto un provvedimento che instaurò per lungo tempo un legame tra il principe e i giuristi,
influendo in maniera decisiva sul carattere della giurisprudenza classica. Un’interpretazione rigorosa di un passo citato di Pomponio
induce alla conclusione che l’attività consultiva pubblica doveva essere riservata solo ai giuristi autorizzati dal principe. Dallo stesso
passo di Pomponio apprendiamo che il famoso Masurio Sabino fu il primo giurista dell’ordine equestre che ottenne lo ius respondendi.
Da ciò dobbiamo desumere che Augusto permise l’esercizio dell’attività respondente solo ai senatori. Ma anche più tardi sembra che la
concessione dello ius respondendi a persone di rango equestre rappresentasse un caso abbastanza eccezionale. La stragrande
maggioranza dei giuristi, infatti, appartenne al ceto senatorio, anche se nell’ultimo secolo della Repubblica, aveva perso gran parte del
suo predominio nel campo della giurisprudenza a vantaggio dei cavalieri. Ciò ha determinato, però, un fatto negativo, messo in
evidenza da Cicerone quando si lamentava del fatto che l’ampliarsi della giurisprudenza al di là della cerchia senatoria aveva chiamato
alla ribalta molti incompetenti, molti arrivisti e ciarlatani, i quali con la loro attività di respondenti e di consulenti delle parti avevano
portato solo disordine nella pratica giuridica. Augusto cercò di porre rimedio a questi danni, dando a un ristretto numero di giuristi la
facoltà esclusiva di esercitare pubblicamente la pratica del responso e di influire in modo determinante sui tribunali. La limitazione dello
ius respondendi a una ristretta cerchia di insigni giuristi assicurò a questi consulenti autorizzati un’influenza straordinaria. Lo ius
respondendi non rimase l’unico legame tra l’imperatore e la giurisprudenza. A partire dalla fine del I sec. d.C. , troviamo numerosi
giuristi di rango senatorio in posti direttivi dell’amministrazione imperiale. Alcuni esempi possono mostrare quanto fosse ampia e varia la
sfera d’azione che si veniva aprendo in questo campo. Prisco, uno dei giuristi più importanti tra la fine del I e l’inizio del II sec.,
comandò, al servizio dell’imperatore, due legioni, occupò il posto di legato giurisdizionale in Britannia e quello di governatore nella
Germania superiore e in Siria. La carriera del celebre Salvio Giuliano non è da meno. Tra i giuristi della fine del II e dell’inizio del III,
quasi tutti appartenenti all’ordine equestre, incontriamo Carvidio Scevola e Modestino nell’ufficio di capo della polizia di Roma, Emilio
Papiniano, Giulio Paolo e Ulpiano nella carica di prefetto della guardia, la più alta ed influente tra quelle riservate ai cavalieri e che a
quell’epoca includeva già tra i suoi compiti, oltre al comando militare, le funzioni di consigliere giuridico del principe e di giudice
superiore. I giuristi, quindi, della fine del II e inizio del III sec. hanno avuto un ruolo di primo piano tra i consiglieri dell’imperatore. A
partire da Antonino Pio esistettero addirittura posti di consigliere stabili e remunerati, i quali venivano affidati a giuristi di rango equestre.
Per quanto riguarda la produzione letteraria dei giuristi classici, il primo posto è da attribuire alle grandi raccolte di pareri dati dai giuristi
forniti dello ius respondendi (Responsa, Digesto) e le opere affini di carattere casistica; vengono poi i commenti allo ius civile e agli editti
dei magistrati giurisdizionali. Minore importanza hanno le monografie. Tutte queste opere sono essenzialmente di natura pratica, nate
dalla prassi e scritte per la prassi: non si deve cercare in esse una trattazione teorica dell’ordinamento giuridico, né sistematica. Solo nei
manuali per principianti (Istitutiones) e in opere elementari affini, si trovano spunti teorici: libri che nel quadro complessivo della
letteratura giuridica classica, hanno un posto abbastanza modesto. In quest’arte i giuristi classici sono rimasti insuperati. Essi
maneggiavano con straordinaria sicurezza i metodi della deduzione logica, la tecnica dei formulari processuali e i complicati
meccanismi giuridici che derivavano dalla coesistenza di istituti vecchi e nuovi, civili e onorari, elastici o rigidi, evitando sempre le
espressioni moralistiche e in generale tutto ciò che poteva risuonare vuoto e superfluo. Il metodo di lavoro della giurisprudenza romana
non lasciava spazio al dispiegarsi delle caratteristiche individuali. Tutti i giuristi classici applicavano più o meno gli stessi metodi,
avevano lo stesso stile di pensiero, differenziandosi, così, solo per la qualità della loro opera . anche la lingua presenta un carattere
molto unitario distaccandosi nettamente dalla varietà di temperamenti e di mode stilistiche che distingue la letteratura non giuridica della
stessa epoca. Anche ad un conoscitore esperto riuscirebbe, quindi, difficile datare con una certa precisione un frammento della
letteratura giuridica classica. Perciò si tende a suddividere il periodo classico in varie fasi:il periodo protoclassico, che va da Augusto
fino a quasi alla fine della dinastia flavia; il periodo medio-classico, che va da Nerva a Marco Aurelio; ed infine il periodo di tarda
fioritura, che coincide con la dinastia dei severi.

• Periodo protoclassico: caratteristico in questo periodo è il rapporto tra la giurisprudenza e il principato: un rapporto
assicurato solo dallo ius respondendi. Il giurista qui continua ad essere un privato e la sua scienza una nobile passione al
servizio del ben comune. Anche al punto di vista del metodo non si possono scorgere differenze sostanziali rispetto all’età
tardo-repubblicana; si potrebbe dire più che altro che nel primo periodo classico è ancora vivo l’influsso della scienza greca.
Proprio all’inizio del periodo, incontriamo una delle figure più significative della giurisprudenza romana: Labeone, il quale ci ha
lasciato numerose opere, attraverso le quali ha esercitato un influsso profondo e duraturo come forse nessun altro. Ciò vale
principalmente per i suoi commentari agli editti del pretore urbano e del pretore peregrino, le cui tracce si incontrano
numerose ancora nei commentari tardo-classici. Al contrario, il suo rivale Capitone non fu molto fecondo dal punto di vista
letterario. Alla rivalità tra Labeone e Capitone si riallaccia il sorgere di due diverse scuole giuridiche. I seguaci della prima
scuola furono chiamati Sabiniani, dal nome del giurista Masurio Sabino; l’altra scuola è quella dei Proculiani, dal nome di
Proculo. Queste due scuole non erano degli istituti didattici, ma piuttosto delle associazioni di giuristi e di aspiranti giuristi,
ognuna delle quali coltivava una determinata tradizione dottrinale. Esse avevano una certa organizzazione, che si avvicinava

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alle scuole greche. Per quanto numerosi possano essere i punti di attrito tra Sabiniani Proculiani, si tratta di questioni
particolari, di carattere concreto. Quanto all’atteggiamento scientifico di fondo e al metodo di lavoro, sembra che tra le due
scuole non ci fosse alcuna differenza. D’altronde non c’è da meravigliarsi, visto che un disaccordo nasce solo da concezioni
generali giuridico-filosofiche, e tali concezioni non corrispondono affatto alla mentalità concreta dei giuristi romani. I giuristi più
insigni del periodo successivo a Labeone e Capitone sono: Masurio Sabino, che era di origini modeste, tanto da aver bisogno
dell’aiuto materiale dei suoi discepoli; Cassio Longino, di nascita illustre; Proculo , sulle cui vicende personali no sappiamo
nulla. Accanto a questi merita di essere menzionato Cocceio Nerva, che pare sia stato capo della scuola proculiani prima di
Proculo. Il più influente di questi giuristi fu Sabino: il suo breve profilo del diritto civile acquistò un’autorità quasi legislativa,
come sintesi fondamentale di questa parte centrale del sistema giuridico privato romano: dopo quasi due secoli, esso serviva
ancora da base testuale per i grandi commentari civilistici dei giuristi tardo-classici.

• Periodo medio-classico: si caratterizza per il legame sempre più stretto tra la giurisprudenza e l’amministrazione imperiale.
Si apriva così per i giuristi un nuovo, vasto campo di attività pratica. Ei frammenti superstiti della letteratura medio-classica si
nota chiaramente una maggiore accentuazione della prassi. La forma letteraria più importante è ormai la raccolta di singole
decisioni di carattere pratico, che abbracciano tutta la sfera del diritto privato: sotto il nome di Responsa (pareri), Epistulae
(lettere, cioè consigli giuridici dati per via epistolare), Quaestiones (problemi giuridici) o Digesta (da digerire: ossia ordinare,
quindi decisioni ordinate), queste opere contenevano, accanto ad alcune osservazioni di principio, un’enorme quantità di
singole questioni pratiche, nella cui trattazione si rivela l’arte della giurisprudenza romana. All’inizio del periodo medio-
classico si trovano due giuristi che meritano di essere menzionati: Tizio Aristone e Giavoleno Prisco. La loro attività si svolse
per la maggior parte nell’età dei Flavi, ma continuò fino al regno di Traiano. Mentre Aristone sembra che si sia dedicato ad
una intensa attività di consulente e avvocato; Giavoleno rivestì una lunga serie di importanti cariche pubbliche. I loro scritti
consisteranno soprattutto nella rielaborazione di giuristi più antichi, come Labeone, Sabino e Cassio. Altrettanto brillante fu la
carriera di Nerazio Prisco, il quale acquistò un tale prestigio che si diceva fosse stato prescelto in un primo momento da
Traiano come suo successore. Nelle sue opere si manifesta chiaramente la predilezione per l’esame del caso concreto. Il
regno di Adriano segna un momento culminante nella storia della giurisprudenza romana. I maggiori giuristi sono Giuvenzio
Celso e Salvio Giuliano. Celso fu un uomo di particolare intelligenza e acume. Notevole è la sua tendenza alle formulazioni di
tipo aforistico, e certamente non è un caso che proprio da lui ci vengano alcune tra le più note massime dei giuristi romani.
L’opera più importante di Celso sono i suoi Digesta, che comprendevano 39 libri di contenuto casistica. Salvio Giuliano
occupò sotto Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio una lunga serie di cariche senatorie, e risedette per un certo tempo
anche a Colonia come governatore della Germania inferiore. Discepolo di Giavoleno, ancora giovane, acquistò un tale
prestigio che Adriano gli raddoppiò lo stipendio di questore e gli affidò l’incarico di curare una redazione definitiva degli editti
giurisdizionali. Rispetto a Celso, Giuliano ha uno stile più freddo e disadorno, ma di grande chiarezza ed eleganza. Con
estrema naturalezza e maestria egli espone e risolve anche i casi più difficili. Come scrittore oltre ad opere minori, ci ha
lasciato 90 libri di Digesta. Lo stesso metodo spiccatamente casistica di Celso e Giuliano, lo ritroviamo in Ulpio Marcello, il
quale fece parte del concilium di Antonino Pio e di Marco Aurelio e, come gli altri due, compose un’ampia opera intitolata
Digesta. Si ritrova anche in Cervidio Scevola, appartenente all’ordine equestre, praefectus vigilum, in seguito forse anche
praefectum pretorio e comunque membro del concilium di Marco Aurelio. Dalla vasta attività di consulente, che Scevola
esercitò derivarono tre raccolte di materiale casistico; di queste sembra che egli abbia redatto personalmente solo le
Quaestiones, mentre i Digesta e i Responsa furono pubblicati solo molto tempo dopo la sua morte. La corrente dominante del
periodo medio-classico trasse la sua forza specialmente dalla pratica del responso, e attraverso la trattazione ingegnosa ed
originale del caso singolo portò il diritto a un estremo grado di raffinatezza, accanto a tale pratica si aggiunse un filone
secondario, che si proponeva di sistemare e disaminare il materiale accumulato dai giuristi precedenti, e di produrre opere
espositive di carattere generale, scritte in modo elementare e facilmente accessibile. I maggiori rappresentanti di questo filone
sono Sesto Pomponio e Gaio. Di entrambi sappiamo pochissimo. Entrambi probabilmente non hanno avuto lo ius
respondendi e non hanno rivestito cariche pubbliche. Essi probabilmente svolsero soprattutto l’attività di insegnanti del diritto.
Pomponio, contemporaneo di Giuliano, occupa , insieme con lui, il primo posto fra i giuristi romani per quanto riguarda la mole
di produzione letteraria. In tre grandi opere di commento, ad Edictum, ad Mucium e ad Sabinum, egli raccolse i risultati della
giurisprudenza classica fino alla sua epoca. Anche Gaio scrisse dei commentari: tra questi l’unico a noi noto è l’Editto
provinciale, cioè il testo edittale pubblicato dai governatori nelle province, il quale, probabilmente, era stato in larga misura
unificato e adattato al modello degli editti emanati a Roma. Egli scisse inoltre un commentario alle XII Tavole. Molto più
importanti è il suo manuale per principianti in 4 libri, le Istitutiones. Quest’opera ebbe uno straordinario favore specialmente in
epoca post-classica , e fu perciò largamente usata anche dai legislatori tardo-romani. Le Istituzioni di Gaio hanno un grande
valore storico, in particolare la nostra conoscenza del processo civile più antico e di quello classico dipende quasi
esclusivamente da quest’opera. Gaio, però, non è annoverato tra le figure più significative della giurisprudenza romana,

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infatti egli non è mai stato citato né dai suoi contemporanei né da giuristi del tardo periodo classico. Il suo pregio maggiore sta
i una forma di esposizione gradevole e chiara.

• Periodo tardo-classico: i maggiori giuristi appartengono adesso all’ordine dei cavalieri; essi ricoprono cariche equestri,
arrivando non di rado, all’ufficio di prefetto della guardia (praefectus pretorio), tra le cui mansioni acquistano importanza
sempre maggiore l’amministrazione della giustizia e la consulenza giuridica dell’imperatore. Nel lavoro scientifico dei giuristi
tardo-classici, la tendenza volta prevalentemente a raccogliere e a rielaborare il materiale costituito dalle decisioni dei giuristi
più antichi, passa in primo piano. Tuttavia ancora una volta la capacità creativa della giurisprudenza romana trova
espressione convincente nella personalità del primo e più grande fra i giuristi tardo-classici, Emilio Papiniano. Sulla sua
origine non si sa nulla di sicuro. Il suo stile, non sempre comprensibile per il fitto addensarsi dei concetti, è una prova della
sua origine provinciale. Incontriamo Papiniano dapprima come capo della cancelleria imperiale a libellis; egli fu poi praefectus
praetorio; mentre occupava questa carica fu messo a morte per aver disapprovato l’assassinio perpetrato da Caracalla del
proprio fratello. Come i grandi giuristi del medio periodo classico, Papiniano scrisse principalmente raccolte di decisioni a
carattere casistico. Con Giulio Paolo e Domizio Ulpiano comincia ad imporsi lo spirito tardo-classico, tutto orientato alla
raccolta e alla cernita del materiale casistico del primo e medio periodo classico. Ulpiano e Paolo arrivarono entrambi alla
carica di prefetto del pretorio. Nonostante la loro autonomia di giudizio non ebbero nessun impulso per lo sviluppo ulteriore
del diritto romano. Paolo e Ulpiano scrissero soprattutto vasti commentari in cui venivano trattati in modo esauriente il diritto
civile e lo ius honorarium; così mentre Paolo scrisse 78 libri ad Edictum, Ulpiano compose un commentario di 81 libri, e se il
commento ad Sabinum di Paolo comprendeva solo 16 libri, quello di Ulpiano ne contava 51. Tuttavia tra i due era senza
dubbio Paolo lo spirito più indipendente, e certo non è un caso che proprio tra i suoi scritti si trovino anche due opere
composte nello stile della casistica del medio periodo classico (Quaestiones e Responsa), mentre nella produzione di Ulpiano
prevalgono le trattazioni monografiche di singole materie e gli scritti elementari. Dopo l’epoca di Paolo e Ulpiano c’è una
generazione di giuristi classici che non comprende figure significative: possiamo citare solo un allievo di Ulpiano, Modestino.
Successivamente si ebbero una serie di autori anonimi, nelle cui mani l’eredità classica smarrì la sua ricchezza,
trasformandosi in una semplice conoscenza elementare. Il rapido declino della giurisprudenza classica è da attribuire alle
condizioni politiche e culturali del III sec. d.C.

§ 4) Tra tutte le forze che contribuirono a plasmare il diritto romano, la giurisprudenza è senza dubbio la più possente. Fu l’arte
interpretativi degli antichi sacerdoti giuristi che adattò il diritto delle XIITavole alle esigenza di un’epoca più avanzata; dietro alle nuove
creazioni della prassi Pretoria, e probabilmente dietro anche alla legislazione popolare repubblicana nel campo del diritto privato e
processuale, c’era l’esperto consiglio dei giuristi; in modo analogo, durante il principato, sia la legislazione senatoria sia l’attività
normativa imperiale ricevettero il loro impulso e la loro fisionomia dai giuristi classici. Tuttavia possiamo definire diritto giurisprudenziale
in senso stretto solo quelle norme giuridiche che furono create dai giuristi direttamente, senza la mediazione dei magistrati
giurisdizionali o del legislatore. Queste norme, però, non recano alcun segno caratteristico della loro origine. Esse si presentano come
una mera interpretazione di norme giuridiche vigenti. Da ciò si deduce che i romani non abbiano mai fatto del diritto giurisprudenziale
una categoria autonoma, contrapposta allo ius civile e allo ius honorarium, benché essi menzionino espressamente tra le fonti del diritto
l’autorità dei giurisperiti. Il diritto giurisprudenziale era da loro considerato come parte dello ius civile, secondo una concezione che
aveva una sua ragione di essere sul finire della Repubblica, ma che mal si adattava all’epoca classica: perché, essendo cessato lo
sviluppo autonomo del diritto onorario, l’ulteriore progresso di questo ramo del diritto era nelle mani dei giuristi al pari di quello del diritto
civile, sicché il diritto giurisprudenziale del periodo classico veniva ad essere strettamente collegato a tutt’e due queste sfere giuridiche.
Ebbe inizio così una fusione delle due masse giuridiche, il cui diritto giurisprudenziale , essendo in rapporto con entrambe, fungeva da
collante.

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CAP. 8) Il diritto imperiale

§ 1) Nel quadro della costituzione del principato, all’imperatore non spettava alcun potere legislativo. Augusto scelse, durante la sua
legislazione riformatrice, la votazione popolare. Così sotto Augusto fu emanato un considerevole numero di importanti leggi popolari
riguardanti l’ordinamento giudiziario e il diritto processuale, il diritto penale e il diritto privato. Anche sotto gli imperatori successivi fino a
Claudio, molte furono le leggi popolari, ma di minore importanza. Dopo, la legislazione popolare scomparve e al suo posto subentrò la
legislazione del senato. La legislazione popolare non fu mai abolita, ma semplicemente si estinse perché ormai aveva fatto il suo
tempo. Il senatoconsulto, in verità non stabiliva norme vincolanti e valevoli per il futuro; ma nel periodo tardo-repubblicano, esso aveva
preso decisioni su materie che in realtà dovevano essere regolare da una legge popolare. Questo spiega il fatto che, già all’epoca di
Cicerone, il senatoconsulto sia a volte menzionato accanto alla legge popolare come fonte del diritto. Per un certo periodo il senato e
l’assemblea popolare esercitarono entrambi la funzione legislativa, l’uno accanto all’altra, anche se la forma della votazione popolare fu
riservata alle leggi più importanti. E’ verosimile quindi che quando la legislazione popolare cadde in disuso, il valore legislativo dei
senatoconsulti era ormai riconosciuto. Un numero non indifferente di senatoconsulti trasformò il diritto ereditario, e poi anche singoli
settori del diritto delle persone e del diritto delle obbligazioni. Come le leggi popolari prendevano il nome dai magistrati che le
proponevano, così anche i senatoconsulti dell’età imperiale venivano di solito designati col nome del magistrato la cui proposta aveva
provocato la decisione del senato. La libertà di decisione del senato fu soffocata dalla posizione dell’imperatore, sicché le leggi
senatorie si trasformarono in semplici manifestazioni della volontà imperiale. Così già nella seconda metà del II secolo si cominciò a
citare il messaggio imperiale di cui veniva data lettura durante la seduta del senato.

§ 2) Il valore legislativo delle costituzioni imperiali si basava sul principio secondo cui il principe, con la lex de imperio, avrebbe ricevuto
il suo potere dal popolo, quindi le sue decisioni si baserebbero indirettamente sulla volontà popolare. Tra le varie forme dell’attività
normativa svolta dall’imperatore, quella che più corrisponde al modello magistratuale è l’editto. Come titolare dei poteri magistratuali, il
principe rivendicò a se la facoltà di emanare gli editti. Poiché questi poteri erano vitalizi, anche gli editti imperiali rimanevano in vigore
per tutto il periodo di governo del loro autore; ma mentre gli editti dei magistrati annuali repubblicani perdevano la loro validità, finito il
periodo di carica del magistrato stesso, quelli dell’imperatore continuavano a rimanere in vigore anche dopo la fine del suo regno,
sempre che essi non fossero poi abrogati dal suo successore. L’editto era la forma usuale per tutte le comunicazioni al pubblico. Essi
toccano questioni di diritto privato e penale, l’ordinamento giudiziario e gli affari dell’amministrazione provinciale, rapporti giuridici
inerenti agli acquedotti o ai possessori fondiari dello stato, privilegi e concessioni di cittadinanza. Agli editti si contrappongono i
mandata, che sono istruzioni di servizio interne del principe ai suoi funzionari. In origine essi erano indirizzati personalmente ad ogni
singolo funzionario, ma ben presto vennero redatti in un testo identico per ogni branca amministrativa. I mandati comprendevano non
solo i principi generali riguardanti la condotta da tenere nel periodo di carica, ma anche un numero considerevole di singole prescrizioni
di diritto processuale e materiale, specie nel campo del diritto penale. Anche nelle decisioni contenute nella corrispondenza imperiale si
riconobbe valore di legge. Si devono distinguere: la lettera imperiale (epistola) e la risposta stilata dal principe in calce alla richiesta
(subscriptio). L’epistula fu adoperata principalmente nei rapporti con i funzionari, con le comunità e le assemblee provinciali, ed in
generale con tutte le personalità o gli enti più importanti; in essa il principe si manteneva nello stretto stile epistolare in uso fra privati,
per questo era impossibile fare una netta distinzione tra la sua corrispondenza privata e quella ufficiale. Le richieste inoltrate da persone
di condizione inferiore venivano sbrigate mediante subscriptio: questa consisteva in un parere posto in calce alla richiesta, il quale non

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veniva recapitato personalmente all’interessato ma semplicemente affisso in pubblico, in modo che anch’egli potesse prenderne
conoscenza. Il contenuto dei rescritti, invece, era più vario degli editti. I rescritti acquistarono importanza da quando anche i privati
poterono rivolgersi direttamente all’imperatore per un parere su questioni controverse. I rescritti emanati in risposta a tali petizioni non
erano delle sentenze: essi presupponevano sempre che la situazione di fatto esposta dal richiedente fosse esatta, lasciando al giudice
competente il compito di stabilire se questi presupposti esistevano realmente; se così era, il giudice era vincolato al parere imperiale, ed
anzi la decisione contenuta nel rescritto costituiva un precedente vincolante anche per i casi futuri. ‘uso dei rescritti si sviluppò con la
stretta collaborazione della giurisprudenza, i cui maggiori rappresentanti vi contribuirono in qualità di funzionari o consiglieri
dell’imperatore e furono molte volte i veri autori delle decisioni imperiali. I giuristi cominciarono a citare in notevole quantità i rescritti
imperiali ed anche a farne delle raccolte. Della più antica di queste opere di cui abbiamo testimonianza è la raccolta di costituzioni in 20
libri fatta da Papirio Giusto, di cui solo pochi frammenti ne troviamo nel Digesto giustinianeo. La maggior parte dei rescritti a noi noti ci è
stata tramandata attraverso il Codex Iustinianus e deriva da raccolte del periodo dioclezianeo; inoltre, alcuni rescritti si sono conservati
anche in iscrizioni e in papiri. Accanto ai rescritti, notevole importanza ebbero come fonte di diritto anche i decreta imperiali. Questi
erano vere e proprie decisioni giudiziarie, pronunziate a conclusione di un dibattimento orale dinanzi al tribunale dell’imperatore.

§ 3) L’azione del diritto imperiale non fu così profonda e sovvertitrice come quella della giurisdizione tardo-repubblicana. L’ordinamento
giuridico non fu più riformato, se non in punti singoli, anche se talora molto importanti; ma specialmente nel campo del diritto ereditario,
le innovazioni imperiali determinarono il sorgere di un gruppo completamente autonomo di nuove norme giuridiche, il diritto dei
fedecommessi. Del resto, il diritto imperiale mancò per molto tempo di una veste unitaria, continuando a presentarsi nelle varie forme in
cui si esprimeva la produzione giuridica dell’imperatore. Il diritto imperiale non fu considerato come un settore autonomo
dell’ordinamento giuridico, bensì, come il diritto giurisprudenziale, una parte dello ius civile.

L’EPOCA TARDO-ROMANA
CAP. 9) Stato, società e amministrazione della giustizia nel tardo impero

§ 1) All’inizio del III sec. d.C. , la magistratura e il senato avevano perso qualsiasi importanza politica. Il principato era sentito come
un’istituzione indispensabile che da Settimio Severo in poi mostrava ormai il suo vero volto di monarchia assoluta fondata sul potere
militare. La sua organizzazione amministrativa si era consolidata ed aveva acquistato dimensioni sempre più vaste. Nello stato e nella
cultura continua a dominare il modello romano, ma i suoi rappresentanti non provengono più dall’Italia, bensì dalle province. Persino il
senato romano è composto in maggioranza da provinciali, tra i quali gli appartenenti alla parte orientale dell’impero diventano sempre
più numerosi. La supremazia economica dell’Italia è ormai scomparsa; la stessa Roma non è più un centro di potere economico. Già
verso la fine del II sec. notiamo che il gettito fiscale riusciva a stento a far fronte ai costi dell’amministrazione e del dispendioso esercito
mercenario, al punto che oneri straordinari erano sufficienti ad infliggere un duro colpo alla prosperità dell’impero. Nelle stesso periodo

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le finanze di numerose comunità si trovavano in un tale dissesto che gli imperatori furono costretti a interferire nell’amministrazione
municipale, nominando speciali commissari governativi. Con questo stato di dissesto si assiste al fenomeno per cui, gradualmente, si
trasformano le cariche e i consigli municipali in uffici obbligatori imposti nell’interesse dell’amministrazione fiscale dello stato. A causa
del generale declino della prosperità economica e della difficile situazione finanziaria di numerose città, l’impero fu costretto a rendere
gli organi dell’amministrazione cittadina personalmente responsabili del gettito delle imposte. Questa responsabilità nei confronti delle
autorità tributarie, insieme alle enormi spese a beneficio delle comunità, costituiva una grave minaccia al benessere dello strato più
elevato della popolazione provinciale. La carica onorifica si trasformò in una carica obbligatoria e l’autonomia amministrativa delle
innumerevoli comunità cittadine dell’impero cominciò a decadere. Questi fenomeni segnano il primo passo della crisi, in seguito alla
quale l’impero entrerà nell’ultimo capitolo della sua storia. Questa crisi raggiunse però il suo apice nella seconda metà del III sec., in
periodo di anarchia politica ed economica, denso di gravi catastrofi. Mentre l’esercito si erigeva a padrone assoluto dello stato
acclamando imperatori tratti dalle sue file, e mentre continue rivolte militari impedivano l’avvento di un governo ordinato, i popoli vicini
irrompevano da ogni lato nell’impero devastando ampie zone del suo territorio. La popolazione contadina stremata dai tributi straordinari
in natura destinati al mantenimento dell’esercito, tentava di sottrarsi con la fuga a questa pressione insostenibili; così vasti terreni fertili
restavano nell’abbandono, mentre anche il commercio e la produzione industriale languivano. Il bisogno di denaro e la mancanza di
metalli preziosi indussero gli imperatori a svilire ripetutamente la moneta, ma ciò ebbe come conseguenza il rincaro dei prezzi. In alcune
zone dell’impero scoppiarono rivolte delle masse popolari oppresse e si ebbero perfino movimenti separatistici.

§ 2) L’assetto statale instaurato da Diocleziano, e poi sviluppato da Costantino il Grande era ormai una monarchia assoluta, dotata di
un proprio apparato burocratico e caratterizzata da una spietata limitazione della libertà personale a vantaggio degli interessi dello stato.
L’impero era adesso un organismo cosmopolita con duplice cultura, greca e romana, in cui l’equilibrio si spostò ben presto a favore
dell’Oriente greco. Già Diocleziano risedette per lo più a Nicomedia, in Asia minore. Costantino fondò poi in Oriente, la seconda
capitale, Costantinopoli. Delle antiche magistrature romane il consolato era una mera decorazione concessa a personalità benemerite;
le magistrature minori svolgevano un ruolo solo a Roma, nell’ambito della vita cittadina, ma anche in questo spazio avevano perduto
ogni funzione amministrativa e giurisdizionale a favore del prefetto urbano nominato dall’imperatore. Il senato non godeva ormai delle
ben che minima influenza; fra tutti i sudditi dell’impero, i suoi membri costituivano lo strato più elevato, al quale appartenevano oltre i
nobili romani anche i capi della burocrazia e dell’esercito; questi ultimi ebbero un peso determinante nel nuovo senato creato da
Costantino nella capitale d’oriente. La popolazione dell’impero non si divideva più in cittadini romani e non, ma in ceti professionali,
separati l’uno dall’altro da barriere che diventavano sempre più insormontabili. Ad ognuno di questi ceti venivano imposti degli oneri
particolari e anche i figli dovevano di regola rimanere nel ceto dei loro padri. Così per ovviare alla decadenza dell’agricoltura, causata
dalla fuga dei piccoli contadini, gli affittuatari furono trasformati in coltivatori semiliberi ereditariamente legati alla terra. Gli artigiani, che
si erano riuniti in corporazioni, divennero operai legati in via ereditaria al lavoro in industrie statali o controllate dallo stato. Un ceto
ereditario gravato di oneri pesanti era quello formato dai membri dei consigli municipali, che costituivano lo strato più elevato della
popolazione cittadina: essi erano responsabili per il gettito di tutte le imposte gravanti sul territorio della città. Ceti privilegiati erano
l’esercito, la burocrazia e il clero. L’imperatore si era circondato di un fasto sempre maggiore. Ora egli appariva in pubblico solo nella
vaste di porpora ricamata d’oro e portava il diadema, una fascia di stoffa guarnita di perle, che era l’antico simbolo orientale della dignità
regia. Un minuzioso cerimoniale di corte regolava ogni movimento in sua presenza, in particolare prescrivendo a chi gli si avvicinasse di
prostrarsi dinanzi a lui fino a terra. Da tutto ciò traspare chiaramente che l’imperatore non era più il primo cittadino della comunità
romana, ma il signore assoluto. Ad esprimere questa differenza con il principato, la moderna storiografia ha derivato dal termine
dominus, signore, il concetto di dominato, designando così questa forma tardo-romana del potere imperiale. Sotto Diocleziano il culto
dell’imperatore era ormai ufficialmente una delle componenti essenziali della sua posizione di potere. In seguito il cristianesimo ne
provocò la scomparsa, e al suo posto subentrò la concezione del sovrano per grazia di Dio. All’amministrazione dell’impero, che era
separata dal comando militare, provvedeva una estesa burocrazia con numerose gradazioni di rango e un sistema di avanzamenti
regolato. Poiché sotto gli imperatori del III sec. i militari avevano acquisito una posizione particolarmente privilegiata, occupando anche
dei posti dell’amministrazione, la burocrazia civile del periodo tardo-imperiale condivise tutti i privilegi della condizione di soldato, e le
sue mansioni vennero designati con il termine di militia (servizio di guerra). Come le entrate dello stato si basavano principalmente sui
tributi in natura (annona), così gli stipendi dei funzionari consistettero in un primo momento in beni in natura, successivamente si usò
calcolare il corrispondente valore monetario e di pagarli quindi in denaro. Un esteso sistema di sportule serviva ad aumentare le entrate
di molti funzionari, contribuendo, insieme con il commercio di quasi tutte le cariche, alla degradazione morale della burocrazia, che si
manifestava in estorsioni e in vessazioni di ogni sorta ai danni della popolazione indifesa. Si cercò di combattere questi fenomeni di
corruzione con un complicato sistema di informatori, ma spesso se ne ricavavano nuovi soprusi: infatti gli ispettori inviati
dall’amministrazione centrale, a loro volta approfittavano di questa loro posizione di potere per procurarsi vantaggi personali. I più alti
funzionari civili erano i prefetti del pretorio, che all’epoca del tardo dominato erano 4, due per la parte orientale, due per quella
occidentale dell’impero. Essi erano i rappresentanti dell’imperatore, specie nell’ambito della giustizia; inoltre soprintendevano alle
imposte in natura e non avevano nessun potere militare. I praefecti praetorio formavano il vertice dell’amministrazione territoriale, che si

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articolava, oltre che in prefetture, in vicariati e in numerose province. Sia i prefetti che i vicari e i governatori provinciali erano assistiti da
grossi uffici, ai cui capi veniva affidato dall’amministrazione centrale, anche il compito di sorvegliare i propri superiori. Ai vertici del
governo centrale vero e proprio si trovavano: il soprintendente alle cancellerie imperiali, da cui dipendevano diversi uffici preposti al
disbrigo della corrispondenza imperiale: il tesoriere imperiale; l’amministratore capo dei dominii imperiali e il quaestor sacripalatii, una
specie di ministro della giustizia. I capi dei 4 principali dicasteri facevano anche parte del consistorium, il consiglio di stato
dell’imperatore, che era composto in massima parte da consiglieri. Esso ungeva principalmente da tribunale imperiale e si riuniva il più
delle volte, in assenza dell’imperatore. Le sue decisioni dovevano però essere da lui ratificate. Una carica abbastanza importante era
quella del gran ciambellano dell’imperatore, che doveva provvedere all’amministrazione del palazzo imperiale ed era di regola un
eunuco. Una caratteristica del diritto pubblico tardo-romano fu la divisione del potere imperiale tra più imperatori. Autore di questa
istituzione fu Diocleziano, il quale si proponeva sia di rendere più efficiente l’amministrazione dell’impero che di evitare future lotte per la
successione. Questo sistema, per cui ognuna delle due parti dell’impero, occidentale e orientale, doveva essere governata da un
imperatore di rango superiore (Augustus) ed uno di sott’ordine (Caesar), in modo che il secondo succedesse poi al primo e si
scegliesse di volta in volta un collega più giovane. Ma la spaccatura dell’impero in una metà occidentale, latina, e in una metà orientale,
greca, diventò dopo un fatto stabile, perché nelle due parti agivano ormai delle spinte interne verso la separazione: in oriente la civiltà
greca acquistò subito la supremazia assoluta, l’occidente rimase per lingua e cultura latino. In oriente il commercio e l’economia erano
fiorenti, mentre l’occidente regrediva, in quanto i grandi proprietari terrieri avevano nelle loro mani quasi tutti i posti direttivi
dell’amministrazione imperiale i destini delle due parti dell’impero si spararono: l’occidente diventò preda dei barbari e l’oriente continuò
la sua esistenza ancora per un millennio.

§ 3) L’amministrazione della giustizia era la più importante funzione delle autorità civile del tardo impero. Dopo che furono scomparse
le corti giurate repubblicane e la giurisdizione del pretore, rimase solo la cognizione dei funzionari: un tipo di procedura che nel suo
svolgimento dinanzi ad un funzionario giudicante rivela analogie col moderno sistema giudiziario. Competenti come giudici di prima
istanza erano il praefectus urbi a Roma e a Costantinopoli e i governatori nelle province. Tutti costoro potevano affidare il processo,
però, a un giudice inferiore, la cui sentenza poteva essere impugnata mediante appello al giudice che lo aveva delegato. Anche la
sentenza del governatore era sempre appellabile; la parte soccombente poteva ricorrere contro di essa al vicario o al prefetto pretorio.
Le decisioni del vicario potevano poi essere impugnate dinanzi al tribunale imperiale, mentre quelle del prefetto pretorio, che
amministrava la giustizia per conto dell’imperatore, erano inattaccabili. Nel processo civile, le formule processuali avevano perduto il
loro significato già con la scomparsa del procedimento bipartito. E’ probabile che esse fossero ancora utilizzate in un primo momento,
successivamente l’azione doveva intentare per iscritto e si doveva indicare esattamente la pretesa, che ne era l’oggetto. Se il giudice
ammetteva l’azione, il documento in cui essa era formulata veniva trasmesso al convenuto attraverso l’attore o d’ufficio. Il convenuto
replicava con uno scritto difensivo. Se egli non compariva in giudizio per il dibattimento orale, si pronunciava una sentenza in
contumacia. Il dibattiti giudiziario veniva accuratamente verbalizzato, la sentenza, pronunciata a voce, veniva poi redatta per iscritto e
consegnata alle parti; ella sua esecuzione si occupava un funzionario esecutivo. Per tutti gli atti dell’ufficio che assisteva il giudice, le
parti dovevano pagare delle sportule. Presso ogni tribunale c’era un numero determinato di avvocati autorizzati, dei anche togati che
erano in possesso di una preparazione retorica, alla quale non si accompagnava necessariamente una formazione giuridica. L’uso della
scuola di diritto per prepararsi alla professione di avvocato si venne generalizzando solo intorno alla metà dl IV sec. e solo nella parte
orientale dell’impero. La disposizione con cui l’imperatore Leone stabilì che, per essere autorizzati all’esercizio dell’avvocatura,
occorreva la testimonianza giurata di un maestro di diritto sulle conoscenze giuridiche del candidato, si riferiva probabilmente solo agli
avvocati che esercitavano presso il tribunale del prefetto pretorio. Tuttavia l’iter processuale, a causa delle sportule e degli onorari degli
avvocati, risultava molto costoso: solo gente facoltosa poteva permettersi un processo di appello. La burocratizzazione della procedura
e l’eccessiva larghezza nel fissare i termini facevano sì che il corso del processo fosse assai lungo e complicato. La corruzione non era,
a quanto pare, un fenomeno raro, specie nei tribunali dei governatori. E’ probabile che proprio questi motivi rendessero particolarmente
ben accetta la giurisdizione arbitrale dei vescovi.

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CAP. 10) Lo sviluppo del diritto tardo-imperiale fino a Giustiniano

§ 1) Il tramonto della giurisprudenza classica si compì intorno alla metà del III sec. d.C. Una delle cause di questo tramonto può essere
dovuta al diffondersi, specialmente sotto i Severi, della pratica dei rescritti imperiali che soffocò a poco a poco il libero esercizio
dell’attività di consulenza da parte dei giuristi. Al giurista rimaneva ancora il servizio di stato e i rescritti dell’epoca dioclezianea provano
in effetti che la tradizione dell’arte giuridica classica si conservò fino alle soglie del IV sec. Il giurista non era più il consigliere che
trattava il sovrano quasi da pari a pari, ma solo un docile strumento della volontà imperiale. Con la crisi del principato, termina anche il
periodo creativo della giurisprudenza romana. Fino alla seconda metà del V sec. , i destini della giurisprudenza s’immergono nelle
tenebre dell’anonimato più totale; infatti tutto ciò che possediamo della produzione letteraria della giurisprudenza postclassica è
anonimo. Le più recenti ricerche sulla storia delle fonti giuridiche romane e sullo sviluppo interno del diritto postclassico ci consentono
di tracciare la storia della giurisprudenza tra la fine dell’età classica e la compilazione giustinianea.
La giurisprudenza degli ultimi decenni del III secolo fino alla metà del IV era ancora in stretto contatto con l’eredità letteraria dei classici.
Nelle scuole di diritto furono studiati e interpretati i grandi commentari di Paolo e Ulpiano. Ma essi non erano più compresi pienamente
nello spirito della tradizione classica, perché non esistevano più i presupposti per una simile comprensione. Il lavoro dei giuristi
scolastici del primo periodo classico lasciò le sue tracce nei manoscritti degli autori classici. E’ probabile che nell’epoca diocleziano-
costantiniana ci siano state nuove edizioni, per esempio del commentario ad Edictum di Ulpiano e che quindi proprio per questo i
frammenti ulpianei contenuti nel Digesto di Giustiniano ci presentano spesso non il testo originale ma una versione in cui sono
mischiate idee postclassiche. A parte questo lavoro d’interpretazione delle grandi opere classiche, la scienza scolastica di questo
periodo produsse soprattutto brevi scritti elementari: alcuni erano rifacimenti di manuali classici, altri erano compilazioni a cui la lettura
delle opere classiche aveva fornito i materiali. La maggior parte di questi scritti circolava sotto il nome di autori classici; solo la moderna
critica li ha attribuiti al periodo postclassico. A questo gruppo appartengono le cosiddette Regulae Ulpiani, che rivelano però un’affinità
stretta con le Istituzioni di Gaio. esse ci sono pervenute attraverso un manoscritto della Biblioteca Vaticana, vale a dire al di fuori della
compilazione di Giustiniano. Un rifacimento delle Istituzioni gasane erano le Res cottidianee (diritto della vita di ogni giorno) o Aurea
( regole d’oro), che circolavano come scritto originale di Gaio e di cui abbiamo solo qualche frammento nel Digesto giustinianeo. Da
questi compendi di carattere elementare va distinto un altro gruppo di opere letterarie della stessa epoca, le quali non sono impiegate
per costituire un discorso unitario, ma sono riprodotti come citazioni, indicando per ciascuno di essi il nome dell’autore e la fonte di
provenienza. E’ la stessa tecnica seguita in quasi tutte le codificazioni del V e del VI secolo, in particolare nel Digesto e nel Codice di
Giustiniano. oltre a due raccolte di costituzioni risalenti al periodo di Diocleziano, conosciamo altre due opere di questo tipo, che
contengono citazioni dalla letteratura giuridica tardo-classica. Entrambe ci sono state tramandate al di fuori della compilazione
giustinianea. La raccolta di esceri di Papiniano, Paolo, Ulpiano e della legislazione imperiale, conosciuta col nome di Fragmenta
Vaticana perché conservata in forma frammentaria in un manoscritto della Biblioteca Vaticana, doveva essere un’opera assai ampia.
Presumibilmente essa era destinata a sostituire nell’insegnamento gli originali classici, che erano rari, costosi e poco maneggevoli. Può
darsi però che fosse adoperata anche dai pratici, per i quali procurarsi gli originali classici doveva essere in molti casi più difficoltoso
che per la scuola. A scopi analoghi serviva con ogni probabilità la cosiddetta Collatio legum Mosaicarum et Romanarum. Questa piccola
opera rivela un carattere molto singolare: i testi tratti da Gaio, Paolo, Ulpiano, Modestino e dalle leggi imperiali vengono messi a
confronto con norme della legislazione mosaica, allo scopo di dimostrare la conformità del diritto romano alle prescrizioni della Bibbia. Il
tardo rielaboratore dell’opera si proponeva di dare un contributo alla propaganda in favore della fede cristiana, o forse anche di
giustificare dinanzi alla nuova religione ufficiale il diritto dei giuristi e degli imperatori pagani.
Nel successivo corso del IV secolo, il livello della giurisprudenza sembra abbassarsi rapidamente. La conoscenza delle grandi opere
tardo-classiche andò in larga misura perduta: ormai di tutta la letteratura classica si conoscevano per lo più solo le Istituzioni di Gaio. Un
certo interesse fu rivolto inoltre alle leggi imperiali e alle opere elementari del primo periodo postclassico, specialmente alle Pauli
sententiae, che furono abbreviate e adattate alla condizioni dell’epoca. L’arte giuridica classica però rimase solo nella teoria perché la
pratica si allontanò quasi del tutto da quei principi che erano scaturiti dalla sottile riflessione di un grande passato. Al posto del raffinato
diritto classico subentrò un diritto volgare, il quale aveva smarrito la prospettiva processualistica del diritto classico e per quanto
riguarda i contratti era svanita la differenza tra possesso, proprietà e diritti reali su cosa altrui; la compravendita aveva perso il suo

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carattere di negozio obbligatorio ed era diventata un semplice modo di acquisto della proprietà. Ristretta era anche la cerchia di coloro
che erano in grado di padroneggiare le complicate regole dell’arte giuridica classica. Già sotto Costantino il diritto volgare cominciò a
penetrare nella legislazione imperiale; invece nella letteratura giuridica dell’epoca postclassica troviamo il diritto volgare solo nelle opere
occidentali del V secolo, e specialmente nelle chiose alle Pauli Sententiae e alle raccolte postclassiche di costituzioni. Queste chiose
furono inserite in forma abbreviata nel codice emanato per i suoi sudditi romani dal re visigoto Alarico II. Dello spirito del diritto classico
sono rimaste, in questa cosiddetta Interpretatio visigotica, ben poche tracce. Anche la legislazione della parte orientale dell’impero fu
influenzata dal pensiero proprio del diritto volgare; ma c’è da evidenziare che il diritto autoctono non era mai stato soppiantato
completamente da quello romano; e poiché il diritto volgare e quello ellenistico avevano sotto certi aspetti una struttura simile, riesce
difficile distinguere tra queste due componenti della vita giuridica orientale.
Con lo sviluppo della scienza scolastica nella parte orientale dell’impero, si determinò un ritorno al diritto classico. Artefice di questo
sviluppo fu la scuola giuridica di Berito in Fenicia (Beirut). Questa città era diventata una colonia di cittadini romani e, come tale, era
vissuta, a differenza del mondo ellenistico-orientale, secondo il diritto romano. Durante il V secolo la scuola di diritto di Berito era una
vera e propria facoltà giuridica, con un piano di studi fisso, suddiviso in corsi annuali ed avente come oggetto lo studio delle costituzioni
e della letteratura giuridica classica. Una seconda scuola di diritto dello stesso genere fu fondata nel 425 d.C., per iniziativa dello stato,
a Costantinopoli. Il metodo di lavoro di queste scuole orientali ricorda molto quelle delle università italiane del medioevo.
L’insegnamento si basava sui testi classici e sulle raccolte di costituzione, il cui contenuto veniva esaminato e spiegato passo per
passo. Le opere dei giuristi giustinianei e postgiustinianei ci permettono di trarre alcune conclusioni per le forme letterarie dei loro
predecessori: si componevano commentari alle opere classiche e brevi indicazioni di contenuto, forse anche collezioni di fonti
riguardanti problemi singoli e altre trattazioni monografiche. I giuristi di Berito e Costantinopoli hanno un grande merito: quello di aver
ritrovato per primi, dopo lo squallore dei secoli precedenti, la via verso lo studio e l’intelligenza dei classici.

§ 2) Le grandi raccolte di costituzioni del tardo Impero ci hanno conservato un’enorme quantità di leggi imperiali post classiche. Se tra
le leggi superstiti di Diocleziano stanno ancora in primo piano i rescritti di contenuto privatistico e di tendenza conservatrice, da
Constantino in poi prevalgono le leges generales, ricche di innovazioni; il loro interesse si rivolge all’amministrazione, all’organizzazione
economica e sociale e al diritto penale. Tuttavia anche alcune parti del diritto privato, specialmente il diritto familiare, hanno subito,
grazie a queste leggi, numerose trasformazioni, che si spiegano alla luce di influssi greco-orientali e cristiani. Tali influssi non sono
riusciti, però, ad intaccare profondamente il diritto romano tradizionale. Le costituzioni da Costantino in poi sono dominate dal diritto
volgare, il cui stile è sgradevole per il lettore di oggi, e ancor più per il giurista educato alla brevità e alla precisione. La legislazione
imperiale postclassica col suo fiscalismo, con la sua mancanza di stabilità giuridico-politica, con le sue indiscriminate minacce di
sanzioni, ci appare come il prodotto di una cultura giuridica in decadenza.

§ 3) Il diritto giurisprudenziale contenuto nella letteratura giuridica classica e la legislazione imperiale costituivano in teoria
l’ordinamento giuridico del periodo post classico. Di fatto però la maggior parte dei giuristi e degli avvocati non avevano facile accesso a
queste fonti. Perfino i commentari dei giuristi tardo-classici si potevano trovare solo in pochi luoghi, mentre per le costituzioni imperiali
mancava una forma ufficiale di divulgazione e di raccolta. Chi aveva accesso agli archivi imperiali poteva prenderne visione e
trascriverle; ma per la maggior parte delle persone erano accessibili le costituzioni che erano state raccolte e rielaborate negli scritti dei
giuristi. In ogni modo, a parte queste difficoltà tecniche, c’era anche il fatto che nessuno più era in grado di dominare intellettualmente
questa enorme massa di fonti. Perfino le scuole di diritto mostrarono fin dal primo periodo postclassico di non essere più all’altezza di
questo compito, e fecero sempre più ricorso ad opere elementari. La prassi poi precipitò in modo ancora più rapido verso i rudimentali
livelli del diritto volgare. Comunque sia, il contenuto delle opere dei giuristi classici era il diritto vigente, e poteva quindi essere in
qualsiasi momento applicato nei processi. Secondo un’usanza che fu sempre diffusa nel mondo antico, era compito dell’avvocato
mostrare al giudice le norme giuridiche favorevoli alla parte da lui rappresentata. Un avvocato accorto poteva quindi addurre in qualsiasi
momento citazioni tratte dalla letteratura giuridica o dalle costituzioni imperiali, e pretendere che il giudice ne tenesse conto. Se le parti
si richiamavano a fonti che erano in contrasto tra loro, egli veniva a trovarsi nell’imbarazzo di dover decidere quale opinione seguire.
Solo sullo sfondo di questa situazione diventa comprensibile un gruppo di leggi del IV e V secolo, che si suole indicare col nome di leggi
delle citazioni. Esse stabilivano quali opere della giurisprudenza potevano essere citate nei tribunali e in che modo dovevano essere
valutate. Le due leggi più antiche decidevano solo questioni singole che erano state dibattute nella prassi. La prima tolse validità alle
note critiche ai Responsa e alle Quaestiones di Papiniano, tramandate sotto i nomi di Paolo e Ulpiano. La seconda confermò l’autorità
di tutte le opere di Paolo, comprese le Sententiae, che circolavano sotto il nome di questo autore. Circa un secolo dopo fu promulgata la
più ampia tra le leggi delle citazioni, una costituzione di Teodosio II e Valentiniano III del 426 d.C. Essa delimitava la cerchia dei giuristi
che, in un processo, potevano essere citati come autorità dello ius, introducendo per loro una specie di meccanismo di votazione:
avevano validità nei tribunali tutte le opere di Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino e Gaio. Infine erano valide le opere dei giuristi più
antichi citati da questi 5, ma solo le loro affermazioni venivano comprovate in modo attendibile mediante il confronto di più manoscritti.
Nel caso che in una questione di diritto le autorità riconosciute fossero di parere diverso, decideva la maggioranza di essa e a parità di

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suffragi, il parere di Papiniano. Alla fine della costituzione è ancora una volta sancita la validità delle Sententiae di Paolo. Sembra
invece che le Sententiae di Paolo, facilmente comprensibili e maneggevoli per la loro modestia, avessero in questo secolo un’enorme
diffusione; del resto, una prova di ciò è nel fatto che proprio quest’opera fu oggetto di quella Interpretatio che sarà poi recepita nel diritto
romano-visigotico. Pochi anni dopo questa strana legge, Teodosio II concepì il grandioso progetto di creare un codice con il vasto
materiale dello ius e delle leges. Un codice che la commissione nominata dall’imperatore a questo scopo non riuscì a concludere.
Soltanto una seconda commissione portò a termine in 2 anni un’opera che doveva essere solo un lavoro preparatorio rispetto a quel
codice vero e proprio, cioè la raccolta delle costituzioni imperiali da Costantino in poi. Quest’opera, il Codex Theodosianus, rappresenta
la continuazione di due raccolte private di costituzioni composte negli anni di Diocleziano. La più antica di esse, il Codex Gregorianus,
conteneva costituzioni da Adriano fino a Docleziano; la più recente, e meno ampia, il Codex Hermogenianus, conteneva solo
costituzioni dioclezianee. Gli autori delle due raccolte, Gregorio ed Ermogeniano, ebbero la possibilità di usare gli archivi imperiali. Di
questi due codici sopravvivono direttamente solo scarsi frammenti. In modo ben più completo ci è pervenuto il Codex Theodosianus,
che rappresenta, nell’ambito del diritto romano, un nuovo tipo di fonte: con esso comincia infatti la serie delle codificazioni tardo-
romane. Pubblicato dapprima nella parte orientale dell’impero, il Codex Theodosianus fu adottato poi anche dall’imperatore d’occidente
Valentiniano III. La voluminosa opera si divide in 16 libri, ogni libro a sua volta, in un certo numero di titoli, ciascuno dedicato ad una
determinata materia e comprendente le rispettive costituzioni in ordine cronologico. La disposizione dei titoli si attiene alla struttura delle
grandi opere casistiche dell’epoca classica. Ma anche in questo profilo il modello diretto fu palesemente costituito dai codici gregoriano
ed ermogeniano. Le leggi imperiali successive al codex theodosianus sono state più volte raccolte sia in occidente sia nella parte
orientale dell’impero. Mentre però le raccolte orientali sono andate perdute, quelle occidentali si sono conservate. Esse contengono
costituzioni degli anni dal 438 al 468 d.C.

§ 4) Alla fine del V secolo tutta la parte occidentale dell’impero si trovava nelle mani dei re guerrieri germanici, i quali governavano in
base ad un proprio potere autonomo. I due elementi della popolazione rimasero in genere separati dal punto di vista giuridico: i Germani
vivevano secondo il diritto della propria stirpe, e la popolazione romana secondo il diritto romano. Così il principio della personalità del
diritto acquistò un rinnovato valore pratico in terra romana. Per la parte romana della popolazione, la conseguenza fu che continuarono
ad esistere le difficoltà nell’applicare il proprio diritto giurisprudenziale e legislativo; anzi queste difficoltà aumentarono per l’ulteriore
declino delle energie spirituali negli stati germanici, i quali avevano ormai reciso ogni legame col resto dell’impero e regredivano a un
livello economico sempre più primitivo. In quest’epoca si avvertì l’esigenza di una sintesi breve e chiara del diritto romano. Ciò spiega il
fatto che anche dopo la fine dl dominio romano siano sorte in occidente delle compilazioni ufficiali di diritto romano. Le opere di questo
tipo che sono giunte fino a noi provengono tutte dal regno dei Visigoti, il cui centro era allora il sud-ovest della Gallia, e da quello dei
Burgundi, nella regione del Rodano. Nel regno dei Visigoti ebbe origine il cosiddetto Edictum Theoderici. Durante il regno di Teodorico
II, l’impero d’occidente esisteva ancora e il potere imperiale era rappresentato in Gallia dal prefetto pretorio Galliarum. Proprio da un
titolare di questa prefettura, Magno di Barbona, pare sia stato emanato l’Edictum. Ciò è perfettamente credibile perché fino alla
dissoluzione dell’impero d’occidente i Visigoti rimasero dal punto di vista giuridico dei mercenari stranieri a cui era stato concesso di
stabilirsi su suolo romano: ai loro re non spettavano diritti sovrani. L’Edictum Theoderici era destinato a valere non solo per la
popolazione romana ma anche per i Goti. Il suo contenuto è di diritto romano: il materiale per i 155 brevi capitoli è ricavato dalle leggi
imperiali dei tre codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, e dalle Sententiae di Paolo. Ma invece del testo originale di queste fonti
viene spesso adoperata una loro parafrasi volgarizzata, forse proprio quella Interpretatio che incontreremo nella Lex Romana
Visigothorum. Un’altra compilazione di origine visigotica, che ci è pervenuta in forma frammentaria, fu redatta dal re Eurico intorno al
475 e viene chiamata Codex Euricianus. Questo codice, destinato ai Goti, fu senza dubbio opera di giuristi romani, e il suo contenuto è
costituito da diritto volgare romano. Il Codex Euricianus non servì solo come base per le successive codificazioni dei re visigoti; ma
influì anche sul diritto dei Franchi, dei Burgundi, degli Alemanni e dei Bavari. Nel 506, il re Alarico II fece compilare e pubblicare un
codice per i suoi sudditi romani, la Lex Romana Visigothorum. L’impulso a realizzare l’opera venne dalla minaccia incombente di una
guerra con i Franchi. Essa costituì un tentativo di rafforzare l’intesa con la popolazione romana e con la Chiesa cattolica. Con un lavoro
affrettato furono disposte l’una dopo l’altra le fonti che erano allora più familiari alle scuole e ai tribunali della Gallia meridionale: il codice
Teodosiano, accanto alle Novelle posteodosiane, un rifacimento in due oli libri delle istituzioni di Gaio, un estratto delle Sententiae di
Paolo, alcune costituzioni prese dai codici Gregoriano ed Ermogeniano, e da ultimo un breve responso di Papiniano. Rozza ed
inadeguata come opera legislativa, la Lex Romana Visigothorum ha svolto una funzione di notevole importanza nella storia giuridica
dell’Europa sud-occidentale durante il Medioevo. Anche nel regno dei Burgundi fu promulgato un codice per la popolazione romana.
Base di questa Lex Romana Burgundionum fu lo stesso gruppo di opere che servì per la Lex Romana Visigothorum. Ma queste fonti
sono qui fuse in un testo unitario, che si allontana da quello dei suoi modelli e che si basa su interpretationes uguali o molto vicine a
quelle che accompagnano il testo della legge romano-visigotica. Il codice burgundico è più fortemente impregnato di diritto volgare.
Inoltre esso non ha avuto alcun significato rilevante per la storia giuridica del Medioevo.

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CAP. 11) La codificazione di Giustiniano
§ 1) Nella parte orientale dell’impero, come abbiamo visto, si stava considerando nuovamente la letteratura giuridica classica. Si
ricominciò a leggere e a capire i commentari di Paolo e Ulpiano, le raccolte di responsa e quaestiones della fine del II e inizio del III
secolo, e soprattutto le opere di Papiniano. Allo stesso modo la prassi ricominciò a fare un uso assiduo delle ampie opere dei tardo-
classici. Queste contenevano una quantità immensa di casi problemi e, soprattutto, innumerevoli contraddizioni e questioni
controverse. Si può dunque pensare che questa rinascita del diritto classico in oriente sia servita a colmare le lacune della pratica,
rendendo urgente un intervento del legislatore per selezionare tutta la tradizione giuridica. E’ logico che un’opera legislativa del genere
poteva essere realizzata in oriente, solo sulla base di tutte quelle fonti acquisite nuovamente grazie all’attività delle scuole giuridiche.
Ma accanto a tutto questo, hanno avuto importanza anche la personalità di Giustiniano, il particolare carattere e le tendenze politiche e
culturali del suo governo. Giustiniano fu un grande sovrano, un uomo di grande energia e di ardui propositi. Egli si sentiva chiamato a
restaurare l’antico splendore dell’imperium Romanum. All’adempimento di questo compito furono rivolte la sua politica estera, la sua
attività edilizia, la sua pratica religiosa, che mirava all’eliminazione di ogni divisione dogmatica e ad un saldo controllo della Chiesa da
parte dell’imperatore, e infine la sua opera legislativa.

§ 2) Sullo svolgimento del lavoro codificatorio siamo informati da una serie di costituzioni, con le quali Giustiniano dispone l’esecuzione
dell’opera, nomina i collaboratori, fissa le linee direttive della loro attività ed infine pubblica le varie parti della codificazione. Queste
costituzioni sono delle premesse alle singole parti. Esse ci danno solo indicazioni generali sullo svolgimento del lavoro in seno alle
commissioni o sui metodi adottati per lo spoglio di tutta la letteratura giuridica classica e delle costituzioni imperiali. Tra gli uomini di cui
Giustiniano si servì, il primo posto è occupato da Triboniano. Sulla sua personalità si sa ben poco. In un primo tempo, negli anni 528 e
529, egli, magister officiorum, fece parte della commissione che preparava una nuova raccolta delle leggi imperiali e in questo lavoro si
distinse a tal punto, che gli fu conferita la carica di ministro della giustizia e gli fu affidata da allora in poi la direzione dell’opera
codificatoria. Egli non si limitò solo alla direzione: anche le successive codificazioni parziali sono merito suo. La decisione che a quanto
pare prese l’imperatore dopo il completamento del primo Codex Iustinianus, di apprestare un florilegio ufficiale della letteratura giuridica
classica, vale a dire il grande progetto del Digesto, fu certamente ispirata da lui. Anche la scelta dei collaboratori fu rimessa
dall’imperatore nelle mani di Triboniano. Mentre all’inizio furono chiamati a collaborare solo alti funzionari, nelle parti successive
dell’opera ebbero un ruolo decisivo alcuni professori di diritto delle 2 scuole di Berito e Costantinopoli; ad essi si aggiunsero avvocati dei
tribunali della capitale. Queste sostituzioni possono spiegare il perché il centro di gravità dell’intera opera si sia spostato dalle
costituzioni imperiali al diritto giurisprudenziale. Quanto ai due professori di diritto maggiormente impegnati nell’opera, Teofilo di
Costantinopoli e Doroteo di Berito, possediamo la prova della loro competenza giuridica in alcuni frammenti di commentari alla

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codificazione giustinianea; di un terzo; Anatolio, professore della scuola di Berito, Giustiniano ci dice solo che già suo padre e suo
nonno erano giuristi famosi. Le varie fasi della codificazione:
• Essa ebbe inizio il 13 febbraio del 528, quando Giustiniano nominò una commissione di 10 membri, tutti funzionari
dell’amministrazione centrale, tra i quali anche Triboniano e Teofilo, professore della scuola giuridica di Costantinopoli e al
tempo stesso membro del consiglio imperiale. Egli affidò loro l’incarico di comporre, sulla base dei codici Gregoriano,
Ermogeniano e Teodosiano, e delle costituzioni promulgate successivamente, una nuova raccolta di leggi imperiali. Le leggi
sorpassate dovevano essere escluse, le contraddizioni eliminate e i testi ridotti al loro contenuto rilevante. L’opera fu
terminata in un anno e nel 529 fu pubblicata con la costituzione Summa. Da questo momento perdevano validità i codici
precedenti e tutte le leggi imperiali che non erano state incluse nel Codex Iustinianus, a meno che esse non contenessero
speciali privilegi. Esso rimase in vigore solo pochi anni, per cui non ci è pervenuto: possediamo solo un frammento ritrovato in
un papiro egiziano.
• Il 15 dicembre del 530, la costituzione Deo autore dette il via ai lavori di una nuova raccolta del diritto giurisprudenziale.
Triboniano ottenne la presidenza e i pieni poteri nella scelta dei collaboratori. Egli chiamò a partecipare all’opera il magister
officiorum, che a quell’epoca era anche ministro del tesoro, 4 professori, 2 della scuola di Berito e 2 di quella di
Costantinopoli, e 11 avvocati del Tribunale del praefectus praetorio orientis. La gigantesca impresa che doveva occupare 10
anni, procedette così speditamente che il risultato poté essere pubblicato dopo 3 anni. L’opera divisa in 50 libri fu chiamata
Digesta. Il Digesto entrò in vigore nel 533 e da questo momento in poi gli originali dei giuristi classici e le opere elementari
postclassiche scomparvero sia dall’insegnamento che dalla prassi giudiziaria dell’impero d’Oriente. Ancor prima della
pubblicazione del Digesto era stato pubblicato un manuale ufficiale destinato all’insegnamento elementare del diritto. Esso
era tratto dalle Istituzioni di Gaio e da altre opere elementari di epoca classica e postclassica e era intitolato, anch’esso,
Istitutiones. I suoi autori furono i professori di diritto Teofilo e Doroteo; Triboniano fu incaricato anche questa volta della
direzione dei lavori. Sebbene fosse destinata all’insegnamento del diritto, anche quest’opera ebbe efficacia legislativa a
partire dallo stesso giorno del Digesto. Al pari delle Istituzioni di Gaio, il nuovo testo si divideva in 4 libri. Durante la
compilazione del Digesto, ci si era imbattuti in parecchie controversie fra i giuristi classici e in concezioni antiquate o inique.
Molti di questi ostacoli vennero eliminati mediante omissioni, aggiunte o modificazioni apportate agli originali classici; mentre
altre questioni furono risolte con leggi specifiche. A questo fine Giustiniano emanò numerose costituzioni riformatrici. Altre
decisioni di questa specie si erano già avute tra la pubblicazione del codice del 529 e l’inizio della compilazione del Digesto,
ed erano state riunite in una raccolta chiamata Quinquaginta decisiones. Si pensò di rifondere queste leggi riformatrici nel
codice del 529 e di adattare in generale tutto il codice, che era la parte più vecchia della codificazione, al nuovo stato del
diritto. Triboniano, insieme a Doroteo e 3 avvocati, portò a termine questo compito con tale rapidità che il Codex Iustinianus
potè essere pubblicato nel novembre del 534, entrando in vigore nello stesso anno. Il codice si divide in 12 libri, a loro volta
divisi in titoli, i quali trattano ciascuno una determinata materia giuridica. La costituzione più antica di tutto il codice risale ad
Adriano, le più recenti sono del 534.
Codice, Digesto e Istituzioni, pur mancando di un titolo comune, in quanto la designazione Corpus iuris civilis risale all’età
moderna, costituivano, nelle intenzioni del legislatore, una codificazione unitaria. Data la natura casistica e l’enorme mole del
materiale rielaborato, e la rapidità con cui l’impresa fu condotta a termine, non potevano mancare numerosi difetti. Dovunque la
codificazione di Giustiniano ha avuto vigore di legge, la scienza giuridica si è vista costretta a risolvere sul piano interpretativo le
innumerevoli contraddizioni le quali, per la moderna ricerca, costituiscono degli utilissimi punti di partenza per la comprensione
dello sviluppo giuridico pregiustinianeo e in particolare del diritto classico.

§ 3) Il Digesto è la principale fonte delle nostre conoscenze sul periodo classico del diritto romano. Il legislatore giustinianeo ha
raccolto perfino alcuni frammenti dei giuristi repubblicani, da Mucio Scevola in poi; così il Digesto ci offre una sezione di tutto lo
sviluppo della giurisprudenza romana sino alla fine del periodo classico.
Nel 1820, Friedrich Bluhme osservò che, all’interno di ciascun titolo del Digesto, i brani tratti da determinati gruppi di opere
giurisprudenziali classiche figurano solitamente l’uno accanto all’altro. Il numero di un primo gruppo è formato dai commentari allo
ius civile degli autori tardo-classici, i libri ad Sabinum di Ulpiano e di Paolo: perciò questo gruppo viene chiamato massa sabiniani.
Un secondo gruppo di escerti, la cosiddetta massa edittale, è incentrato sui commentari ad Edictum dei giuristi medio e tardo-
classici, e un terzo sulle raccolte di responsa e di quaestiones di Papiniano, Paolo e Ulpiano: quest’ultimo gruppo è chiamato
massa papinianea, perché in esso i frammenti di Papiniano sono di regola collocati al primo posto. Infine alcuni titoli del Digesto
figura anche un quarto, più piccolo, gruppo di frammenti tratti da opere di carattere vario, la cosiddetta appendice. Queste
osservazioni indussero Bluhme a formulare l’ipotesi che la commissione del Digesto fosse divisa in tre sottocommissioni ognuna
incaricata di occuparsi di una determinata parte della letteratura giuridica classica, cioè ad una delle tre masse principali; e che alla
fine le masse di escerti allestite dalle tre sottocommissioni fossero disposte l’una dietro l’altra. L’appendice, invece, si compone di
un certo numero di opere giurisprudenziali che furono ritrovate solo nel corso del lavoro di compilazione, e che vennero quindi

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escerpite solo in un secondo tempo. Un’approfondita indagine sull’ordine in cui i frammenti si succedono all’interno delle singole
masse ha portato ad alcune ipotesi: la parte principale del lavoro fu sbrigata da 6 dei 17 componenti la commissione,
probabilmente dallo stesso Triboniano, dal magister officiorum Costantino e dai 4 professori di diritto. Questi, divisi in coppie,
formarono le tre sottocommissioni, mentre gli 11 avvocati le coordinavano a seconda delle necessità. Per far sì che il lavoro
procedesse con lo stesso ritmo, le opere da escerpire in ciascuna sottocommissione furono divise in gruppi e, all’interno di ogni
gruppo, ripartite tra i due commissari stabili in porzioni con ugual numero di libri. Ciascuno di loro quindi svolgeva per proprio conto
il suo lavoro e pare che ognuno potesse decidere cosa escerpire e cosa tralasciare. Un simile metodo di lavoro portò a risultati
piuttosto disuguali, però, spiega bene in che modo si sia riusciti a disporre dell’enorme quantità di materiale costituita dalla
letteratura giuridica. Se i risultati di questa indagine sono esatti, svaniscono i dubbi sull’affermazione di Giustiniano secondo la
quale i suoi commissari avrebbero personalmente letto per intero tutte le opere classiche disponibili, estrapolando quanto era
essenziale e utilizzabile. Cade così anche la tesi secondo la quale prima della codificazione giustinianea doveva esistere un
predigesto, cioè una o più opere in cui sarebbe stato riunito in modo più o meno completo il materiale dei Digesta. Possibile resta
solo l’ipotesi che i membri della commissione giustinianea, e tra questi specialmente i professori di diritto, si siano lasciati
influenzare, nello scegliere i frammenti, e forse anche nel rielaborarli, dal lavoro di commento svolto dalle scuole giuridiche.
Lo stesso Giustiniano ci informa che la sua commissione legislativa apportò numerose modifiche al testo degli originali classici, per
adattarlo alle esigenze dei tempi e agli scopi della codificazione. I grandi giuristi dell’età umanistica si sono sforzati di scoprire
queste interpolazioni (falsificazioni) dei compilatori e di rendere più accessibile il puro diritto dell’epoca classica. È chiaro che là
dove la codificazione di Giustiniano è stata studiata come fonte immediata del diritto non si è data molta attenzione alle
interpolazioni; perché per la prassi era importante solo il testo legislativo giustinianeo e non il testo degli originali classici su cui
quello si fondava. In Italia la caccia alle interpolazioni diventò ben presto il centro di ogni lavoro scientifico sul diritto romano. Essa
venne condotta con l’aiuto di criteri linguistici (filologici) e contenutistici (giuridici). Una parte delle ipotesi di interpolazione, che
sono state formulate a partire dalla fine del secolo scorso, si rivela insostenibile ad un controllo critico; altre, che sono credibili, non
giustificano le conclusioni storiche che ad esse si è voluto ricollegare. Nonostante tutti gli errori, la strada intrapresa con la critica
interpolazionistica non è stata una strada sbagliata. Grazie ad essa la ricerca romanistica ha superato quella visione puramente
concettuale-sistematica per basarsi su impostazioni storiche. Rispetto all’antica ricerca interpolazionistica le direttive e i metodi
della critica sono cambiati, diventando più penetranti, più complessi e più cauti. Oggi si pensa che gli scritti dei giuristi classici
siano pervenuti a questa commissione in una forma già alterata da omissioni, aggiunte, cioè come ci appaiono in quei pochi
frammenti di opere tardo-classiche che ci sono stati tramandati. L’entità di queste alterazioni è dibattuta, ma su un punto si è
concordi: esse erano rivolte solo a spiegare e svolgere il pensiero degli autori classici. Inoltre, nella critica interpolazionistica si è
preteso troppo dallo stile e dalla correttezza grammaticale dei testi classici, commettendo l’errore di assumere come metro di
giudizio la latinità del periodo aureo, se non addirittura le regole della moderna grammatica. I giuristi classici erano semplicemente
uomini del loro tempo, che adoperavano i vocaboli in uso e certamente non erano molto scrupolosi nell’evitare tutte le licenze e le
improprietà grammaticali e stilistiche diffuse tra i loro contemporanei. In presenza di una produzione giuridica come quella di un
Paolo o di un Ulpiano bisogna senz’altro aspettarsi di trovare nel testo originale qualche trascuratezza nell’espressione.

§ 4) La pubblicazione del Codex repetitae praelectionis concluse la grande opera codificatoria di Giustiniano, ma non significò la
fine delle sue riforme legislative. Al contrario, l’imperatore intervenne con numerose leggi singole riformando importanti branche
del diritto privato, soprattutto nell’ambito del diritto di famiglia e del diritto ereditario. Le Novelle giustinianee furono redatte in lingua
greca. Il greco era da sempre la lingua d’uso corrente nella parte orientale dell’impero. Ma all’epoca di Giustiniano anche le
supreme autorità dell’impero cominciavano a perdere la capacità di parlare e scrivere latino. Solo il fatto che nelle scuole di diritto,
e probabilmente anche nei tribunali superiori, si era abituati a servirsi degli scritti classici e delle costituzioni nel testo latino
originale, riesce a spiegare perché la grande codificazione di Giustiniano si sia mantenuta fedele al latino. Ora si rompeva con
questa tradizione. Quella minoranza di Novelle, che ancora fu pubblicata in latino, o si rivolgeva alle lontane province occidentali
dell’impero, nelle quali si parlava latino, o riguardava il funzionamento interno degli uffici centrali, o infine si riferiva a determinate
costituzioni più antiche redatte in latino. Solo poche Novelle furono pubblicate in entrambe le lingue. A parte le raccolte speciali di
leggi imperiali riguardanti il diritto ecclesiastico, possediamo 4 collezioni di Novelle. La più antica è un rifacimento abbreviato in
lingua latina di 124 leggi degli anni 535-555 composto da un certo Giuliano, professore di diritto a Costantinopoli. Una seconda
collezione latina di 134 Novelle riaffiorò solo intorno al 1100 nella scuola giuridica di Bologna, e poiché allora si credette che essa
fornisse il testo originale delle Novelle, la si chiamò Authenticum. In realtà solo le Novelle latine vi si tro0vano nel loro testo
originario, mentre le greche sono riportate in una traduzione latina alquanto scorretta. Anche questa collezione vide la luce nel VI
secolo nella scuola di Costantinopoli. Ma la raccolta che presentava tutte le Novelle nel testo originale, cioè quelle greche in greco
e quelle latine in latino, fu conosciuta in occidente solo quando studiosi e manoscritti greci presero la via dell’Italia, dando un
impulso decisivo allo studio del greco e allo sviluppo dell’umanesimo in generale. Tuttavia i manoscritti di questa collezione
riportavano solo le Novelle pubblicate in greco: quelle latine ormai erano state tralasciate o sostituite da estratti in greco. Perciò la

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collezione viene chiamata Collezione greca delle Novelle. Quando era ancora completa, essa conteneva 168 testi: fra questi però,
oltre alle Novelle di Giustiniano, si trovano anche alcune costituzioni dei suoi successori Giustino II e Tiberio II, mentre altri 3 testi
non sono leggi imperiali, bensì editti emanati da prefetti del pretorio. Il contenuto di questa raccolta prova che essa deve essere
stata condotta a termine al più presto sotto Tiberio II. Uno dei manoscritti della collezione greca contiene infine 13 Novelle di
Giustiniano sotto il titolo Edicta Iustiniani.

EPILOGO
Diritto romano e tradizione romanistica
• In Oriente
Con la caduta, nel 476 d.C., dell’ultimo imperatore romano d’occidente finisce l’età antica e comincia il Medioevo. Assai prima che
finisse l’impero d’occidente era cominciato il declino della civiltà romana, e con la cristianizzazione dell’impero, con l’evolversi delle
condizioni economiche e sociali, con l’afflusso costante di elementi che appartenevano a popolazioni germaniche, si erano venute
costituendo le basi su cui si sarebbe poi eretto il mondo del primo Medioevo. Anche dopo il tramonto dell’impero rimasero vivi
l’amministrazione e il diritto di Roma, pur se in una forma che sia andava facendo sempre più primitiva. L’idea dell’Imperium
Romanus si conservò così possente, che ancora dopo secoli essa fu in grado di improntare di sé l’assetto statale dell’occidente,
influenzando per lungo tempo il corso della storia europea. In oriente l’antica tradizione romana perdurava con forza e continuità
ancora maggiori. Qui l’impero sopravvisse come realtà concreta sino alla fine del Medioevo, e perciò anche il diritto romano rimase
in vigore in quanto parte costitutiva di un ordinamento statale vivente. Anche qui il VI secolo rientra in un periodo di transizione.
Giustiniano si proponeva di restaurare l’imperium romanum e fu, perciò, il fondatore dello stato bizantino, il quale non era più uno
stato romano. I tatti non romani si evidenziavano nella definitiva rinuncia al latino e nella netta rottura con la tradizione del diritto
romano. Effettivamente non si poteva più guardare alla tradizione romana in un impero che parlava greco e che era ancora
ancorato alle concezioni giuridiche greco-orientali. Già la presenza del latino rendeva il suo impiego difficile, anche se si poteva
porre rimedio attraverso le traduzioni. Inoltre il contenuto del testo legislativo poteva essere applicato solo là dove ci fossero
giudici e avvocati provenienti dalle due scuole giuridiche, ma ciò era diventato difficile. Non c’è dunque da stupirsi se nei papiri
egiziani del VI secolo troviamo il persistere del tradizionale mondo giuridico greco-egizio. L’influsso della legislazione giustinianea
sulla prassi giuridica non si fece sentire dovunque. Probabilmente essa si impose solo nei tribunali della capitale, in quelli delle
supreme autorità provinciali e forse anche nelle grandi città di provincia.
Giustiniano aveva vietato qualsiasi opera o commento al Digesto. Erano consentite solo traduzioni letterali in greco e raccolte di
passi paralleli. Ma era ancora vivo l’imperatore, che questo divieto venne già trasgredito. Accanto a traduzioni letterali apparvero
anche indici riassuntivi ed esplicativi, e note di commento; a cui si aggiunsero più tardi anche trattazioni monografiche su singoli
argomenti. Questa letteratura giuridica posteriore alla codificazione giustinianea ci è nota principalmente per un’opera legislativa
molto più tarda, i Basilici, e attraverso i commentari connessi con questo codice.
I Basilici sono un rifacimento greco in 60 libri della codificazione giustinianea, realizzato sotto Leone il Saggio. In essi ogni singolo
titolo raccoglie i frammenti del Digesto e le costituzioni del Codice che trattano lo stesso argomento, le relative Novelle e gli estratti
delle Istituzioni. Per la compilazione di questo codice furono adoperati delle somme greche risalenti alla prima età bizantina. I brani
dei Basilici che derivano dal Digesto sono tratti da un indice compilato da un autore sconosciuto e che gli stessi Bizantini
chiamavano l’Anonimo. Per il Codex ci si servì dell’indice di Taleleo. I passi delle Istituzioni infine furono tratti da una parafrasi
greca. Solo per le Novelle fu adoperato il testo greco originale. Lo stesso testo dei Basilici si componeva dunque, quasi
integralmente, di scritti nati nelle scuole di diritto della prima età bizantina. Altre parti della produzione letteraria di queste scuole
furono poi collegate ad esso con la tecnica del commentario a catena, come i usava nella teologia bizantina: ogni passo dei
Basilici veniva illustrato con una catena di brani escerpiti da opere relative al Digesto o al Codice, che erano state scritte sotto
Giustiniano o subito dopo di lui. Questi antichi scolii non contengono solo un breve sommario in greco dei modelli giustinianei, ma
anche spiegazioni e riferimenti di vario genere; essi hanno perciò un considerevole valore per la comprensione della codificazione
giustinianea. Inoltre, poiché due dei loro autori (Doroteo e Teofilo) erano stati membri della commissione legislativa di Giustiniano
ed avevano quindi conosciuto il preesistente stato del diritto, è possibile incontrare in questi scolii perfino tracce isolate del diritto
pregiustinianeo. Accanto agli antichi scolii il commento ai Basilici comprende anche note più recenti, riferite direttamente al testo
stesso dei Basilici e redatte in un periodo che si spinge fino al XIII secolo. L’apparato di scolii ai Basilici ci fornisce una
rappresentazione della storia della giurisprudenza bizantina. Il livello di tale giurisprudenza non fu mai uniforme e i giuristi bizantini
non raggiunsero mai la grandezza di quelli occidentali. La tendenza alla semplificazione e alla volgarizzazione del diritto in oriente
fu solo rallentata dall’opera delle scuole giuridiche e dalla grandiosa codificazione di Giustiniano. E’ molto dubbio che il ritorno del

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diritto giustinianeo, che si espresse attraverso i Basilici, abbia avuto un influsso profondo sulla prassi. Il punto finale di questo
sviluppo fu un manuale che esponeva tutto il diritto in 6 libri, redatto verso il 1345 da un certo Costantino Armenopulo, giudice di
Tessalonica. Il diritto giustinianeo sopravvisse alla dominazione turca in modo atrofizzato; sicché anche nella Grecia moderna il
diritto romano fu quello vigente fin quando, nel 1941, non venne introdotto un codice civile che si riallaccia alla tradizione locale del
diritto romano, ma risulta influenzato dalla dottrina civilistici tedesca.

• In Occidente
In occidente dominò per tutto l’alto Medioevo il diritto romano volgare, specialmente sulla base della Lex Romana Visigothorum. In
Italia la conoscenza del Codice, delle Istituzioni e delle Novelle non andò mai perduta, mentre per tutto l’alto Medioevo non
s’incontra traccia di una conoscenza del Digesto. Sorprende lo straordinario impulso che ebbero gli studi di diritto romano sul finire
dell’XI. Senza dubbio questa reviviscenza fu collegata strettamente alla scoperta del Digesto. Il rigoglio intellettuale collegato alla
precoce fioritura economica delle città italiane alla vigilia delle Crociate, il tirocinio logico dovuto alla teologia scolastica, la
presenza, nell’Italia settentrionale, di una scuola di diritto longobardo furono i motivi che spiegano la rinascita del diritto romano
alla fine dell’XI secolo. Ruolo fondamentale ebbe il bolognese Irnerio, al quale si collega il glorioso sviluppo della scuola giuridica di
Bologna, che fu, insieme alla scuola teologica di Parigi, la più antica università dell’occidente. Ad essa si aggiunsero poi una serie
di scuole analoghe sia nell’Italia settentrionale e centrale, sia nella Francia meridionale. Irnerio e i suoi successori fino al XIII
secolo usavano il metodo esegetico. Nelle loro lezioni essi spiegavano il testo del Corpus iuris titolo per titolo e frase per frase. La
forma letteraria corrispondente a questo metodo didattico è la glossa, cioè una spiegazione contenuta in concise annotazioni che
si ricollegano a singole parole del testo. Spunto iniziale della glossa è infatti il semplice chiarimento di una parola. L’assiduo lavoro
dei glossatori investì ogni parte della codificazione giustinianea, costruendo intorno ad essa interi apparati di glosse. Questa fitta
trama di annotazioni stabiliva i collegamenti indispensabili per la lettura e la comprensione della massa di materiale e portava alla
luce le contraddizioni, anche se solo per proporre subito dopo un’interpretazione che le eliminasse. Ciò che stupisce in questi
giuristi è la loro straordinaria capacità mnemonica, per cui essi erano in grado di trovare senza un grande dispendio di tempo un
passo del Digesto citato soltanto con la rubrica del titolo e le parole iniziali. Dalla forma letteraria in cui si espressero, usiamo
chiamare questi giuristi Glossatori. Essi scrissero però anche opere di altro genere: brevi riassunti del contenuto, spiegazioni di
singoli passi delle fonti con l’aiuto di casi giuridici immaginari, trattazioni monografiche di singoli temi, in particolare sul processo, e
così via. Ancora prima della metà del XIII secolo il professore Accursio, riunì tutto il lavoro compiuto dalle passate generazioni di
Glossatori relativo al Corpus iuris, formando un’opera canonica, prova che il compito di penetrare e padroneggiare la codificazione
giustinianea era stato assolto. Nel frattempo il Corpus iuris era entrato anche nella pratica giuridica dell’Italia, ma le norme
incontrarono un ambiente diverso e spesso esso non poteva dare una risposta immediata: era necessario che il diritto della
codificazione giustinianea fosse adattato alle esigenze di quei tempi. I giuristi italiani riuscirono ad assolvere a questo compito. E’
chiaro che per un lavoro del genere la glossa, per la sua brevità, non poteva rappresentare più la forma letteraria adeguata. Ad
essa si sostituirono degli ampi commentari alle varie parti della compilazione di Giustiniano e spesso l’argomentazione si basava
più sulla glossa di Accursio che sul testo vero e proprio di Giustiniano. In considerazione della caratteristica forma letteraria si parla
oggi di scuola dei Commentatori. Nelle generazioni che seguirono di commentari ne furono scritti pochi, anzi gli umanisti del XVI
secolo avevano poca stima dei Commentatori. Essi giudicavano priva di gusto la loro esposizione lunga, prolissa, inframmezzata
di innumerevoli citazioni. Oggi si riconosce che i Commentari svolsero un’opera innovatrice, elaborando i principi che sono serviti
da guida nella formazione di nuove sfere giuridiche. Essi hanno gettato le basi del diritto privato internazionale, del diritto
commerciale e della teoria giuridica della moneta. L’influenza dei Commentatori si fece sentire non solo in Italia ma anche in
Francia, in Germania e in Spagna. Da questa grande famiglia giuridica rimase esclusa l’area anglosassone; infatti l’Inghilterra era
stata raggiunta , in un primo momento, dagli influssi del diritto romano, successivamente si chiuse ad essi, in quanto esisteva un
ceto di giuristi, organizzato in corporazioni, che respingeva il diritto straniero. E’ stato appunto questo ceto che ha conferito al
diritto anglosassone quelle caratteristiche tipiche, che lo contraddistingue dal mondo giuridico continentale. In Germania le norme
giuridiche indigene furono spazzate via dal diritto straniero. Il diritto tedesco sopravvisse solo in aree abbastanza estese come il
territorio sassone. Proprio partendo da questo territorio, alcune materie giuridiche sono state riconquistate dal diritto nazionale.
Oggetto della recezione fu il diritto della codificazione giustinianea nella particolare forma che gli avevano dato i Commentatori;
poi, il diritto canonico, che si basava sulle fonti giuridiche della Chiesa; infine il diritto feudale longobardo. Si trattava di un
miscuglio di norme giuridiche, in cui tuttavia il diritto romano costituiva senz’altro il nucleo essenziale. Da un punto di vista
cronologico il processo di recezione si svolse negli ultimi decenni del XV e nel XVI secolo. Dato il frazionamento politico e giuridico
della Germania, esso si compì nei vari luoghi in periodi e modi diversi. I contemporanei non intesero appieno come questo
sviluppo significasse una frattura radicale con la vita giuridica precedente. Ai loro occhi il Sacro Romano Impero della nazione
tedesca rappresentava la continuazione dell’antico impero romano, e il diritto del Corpus iuris giustinianeo appariva perciò come il
suo diritto. Invece, nel diritto autoctono della Germania si tendeva a vedere il prodotto di uno sviluppo secondario e in parte
anomalo. Umanesimo e diffusione della giurisprudenza dotta non furono infatti che manifestazioni parziali di un unico processo: il

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formarsi cioè di una cultura secolare che si ispirava al modello dell’antichità classica e che subentrò al mondo culturale del
Medioevo, dominato dalle tradizioni della Chiesa e riservato al clero. Se così l’Umanesimo contribuì in un certo senso a preparare
il terreno al diffondersi della giurisprudenza dotta e del diritto romano, esso entrò in contrasto con i metodi adoperati da questa
scienza nella teoria e nella pratica del diritto. Ai raffinati conoscitori degli antichi classici non poteva andare a genio né il linguaggio
ampolloso né la sottigliezza scolastica e il carattere astorico del metodo interpretativo dei Commentatori e dei loro discepoli.
L’orientamento umanistico non poté imporsi realmente né in Italia, dove saldissima era la tradizione dei Commentatori, né in
Germania. Sua vera patria divenne la Francia dove l’università di Bourges portò all’apice dello splendore la giurisprudenza
umanistica. Tuttavia tale giurisprudenza non ebbe lunga durata. Molte figure rappresentative di questo indirizzo aderirono poi alla
Riforma. Solo in Olanda i rifugiati francesi riuscirono a creare una tradizione umanistica duratura. Non si può fare a meno di
accennare al rinnovato impulso che ha caratterizzato la ricerca romanistica dalla fine del 700. Punto di avvio fu questa volata la
Germania, e la personalità di Friedrich Carl von Savigny. Nella sua personalità coesistevano classicismo e romanticismo. Per
Savigny il diritto si sviluppa a poco a poco, in modo quasi impercettibile, grazie alla trama invisibilmente tessuta dallo spirito del
popolo. Savigny intese il diritto come un fenomeno storico. Da Savigny discendono le correnti fondamentali che dominarono lo
sviluppo della scienza del diritto romano in Germania durante il XIX secolo. Tra esse la corrente sistematica ebbe la prevalenza su
quella storica. Il diritto romano sia nell’insegnamento che nella pratica fu al centro del pensiero civilistici. Oggi l’attenzione non è
più rivolta principalmente all’elaborazione di questo diritto in un sistema logico concluso, ma alla conoscenza del suo sviluppo
storico, che ci dà un’immagine unica dell’essenza storica del diritto. Presupposto di una simile prospettiva è non solo la
conoscenza delle linee di sviluppo storico-giuridiche, ma anche la loro interpretazione sulla base dell’ambiente politico, sociale,
economico ed intellettuale. Caposaldo è l’opera di Theodor Mommsen. Di formazione giurista egli ha impostato su nuove basi tutti
i rami della scienza dell’antichità romana, indicando i loro compiti comuni.

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