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Sull’ethos dei giuristi

La prolusione del Prof. Böckenförde

“Che cos’è l’ethos dei giuristi?” Con questa domanda dal tono socratico, il Prof. Ernst-
Wolfgang Böckenförde ha aperto la prolusione del 3 Novembre 2009, durante
l’inaugurazione dell’anno accademico 2009-2010 nell’Università Cattolica. Il
professore, uno dei massimi studiosi europei di storia del diritto e di diritto
costituzionale, nel suo intervento ha cercato proprio di indagare l’ontologia di una
parola che spesso viene confusa con l’etica. Tra le due parole intercorre “una
parentela linguistica, eppure quanto al loro significato, sono distinte.”

L’ethos è essenzialmente e etimologicamente un modo di agire, un costume, una


prassi, non necessariamente subordinata a principi etici, anche se spesso è “intessuto
di elementi propri dell’etica nella misura in cui principi e istanze normative diretti a
guidare i comportamenti trovano proprio nell’ethos e attraverso di esso
concretizzazioni e applicazioni più puntuali.”

Nell’antica Grecia l’ethos è legato alla perizia, e all’aretè, virtù che vengono acquisite
con l’apprendimento e l’abitudine, in ogni caso a Roma per la prima volta nasce come
figura autonoma il giurista, ovvero il professionista del diritto. Dopo aver ricostruito
l’origine di questa categoria, i cui precursori furono appunti i pontefices, custodi di
formule sacre e giuramenti, Böckenförde ha poi illustrato le funzioni principali di
questo officium così come veniva svolto in età repubblicana.

Il giurista romano era sì una grande tecnico, ma non solo. Pur evitando valutazioni de
iure condendo sul diritto vigente riuscì ad influenzarne l’applicazione e
l’interpretazione a tal punto da valorizzare all’interno dell’ordinamento principi di forte
contenuto etico- normativo. “Concetti come exceptio doli, restitutio in integrum, dolo
petit qui petit quod statim redditurus, audiatur et altera pars, le idee di bonus vir e di
probo pater familias ed anche il ricorso ai mores e al mos maiorum assunsero
rilevanza giuridica ed ebbero accesso allo ius civile.”

I giuristi medievali della scuola di Bologna riscoprirono il diritto romano del Corpus
Iuris e lo diffusero in tutta Europa. Anche se il diritto romano era spesso applicato dalle
corti come diritto sussidiario rispetto alle consuetudini feudali, agli statuti locali, agli
atti normativi regi, costituiva comunque il parametro di interpretazione di tutte queste
altri fonti. In quell’epoca storica Il diritto romano era un linguaggio comune a tutti i
giuristi. Le massime contenute nel Corpus Iuris e l’ethos in esso incarnato
“svilupparono forza capace di plasmare nuovi ordinamenti” in tutti quei paesi in cui
venne recepito il diritto romano.

In seguito sorse la scuola dei legisti. Primi “portatori di una formazione non
ecclesiastica e non teologica … operarono da consiglieri o al servizio di signori
secolari, in particolare dei Re di Francia che essi sostennero nel confronto con le
pretese di dominio temporale del Papa e della Chiesa e con le aspirazioni di autonomia
dei signori feudali locali.” Furono lori i sostenitori di una legislazione sovrana uniforme,
razionale, capace di superare il pluralismo delle fonti feudali e di garantire un ordine
interno di pace e unità.
La pace che i legisti individuavano come obiettivo primario per un uno Stato era un
concetto di ordine formale, inteso quindi come assenza di guerre, e quindi anche come
tolleranza di minoranze religiose. Per questa idea di pace svincolata dalla verità essi
furono ben presto indicati “come spregiatori della religione e uomini senza fede ai
quali importava soltanto la politica e il potere.”

Con la loro opera iniziò e giunse a compimento quel processo di sovrapposizione fra
legge statale e diritto. Successivamente l’approfondimento di una riflessione sul diritto
naturale quale base per ogni legislazione positiva ha fatto avvertire nei legislatori la
necessità di adattare meglio il diritto ad istanze se non etiche quanto meno di
ragionevolezza. Nelle stesse codificazioni furono infatti inserite clausole generali come
quelle di buona fede e buon costume cariche di significati sociali ed in qualche misura
etici.

Qual è dunque il rapporto fra un diritto vigente ed uno naturale, inevitabilmente


impregnato di implicazioni morali, e attualmente in che modo il giurista è tenuto a
confrontare il diritto positivo con questo parametro? Rispondendo a queste due
domande, il prof. Böckenförde ha spiegato che il diritto naturale non è assumibile
come un secondo diritto applicabile, ma è un criterio di valutazione di quello positivo,
oltre che di riforma di quest’ultimo.

Concludendo la sua lectio magistralis, Böckenförde, già giudice del Tribunale


Costituzionale Federale Tedesco, ha poi indicato la modalità con cui è possibile
adeguare un diritto vigente a quello naturale. Se infatti il diritto vivente è “una
mediazione dialettica fra etica normativa presente e politica”, come disse Julien
Freund, sociologo e scienziato della politica francese, il diritto naturale riuscirà a
plasmare quello postivo, soltanto se il diritto naturale abiterà nell’etica normativa
presente, cioè se “i contenuti e le sollecitazioni del diritto naturale” verranno tradotte
“in linguaggio secolare” e quindi sottoposte al “criterio della generalizzabilità.”

Compito del giurista è dunque riconoscere l’interazione fra politica ed etica normativa
all’interno di una comunità e attraverso questa mediazione difendere il diritto ed
attuarlo nel lavoro quotidiano di applicazione del diritto.

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