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I VALTELLINESI DEL S.

GIACOMO

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La Compagnia di S. Maria del Popolo, il S.
Giacomo e il Mal Francese

La Consolazione, il S. Giovanni, ma non solo. C’è un’altra struttura


pubblica dell’Urbe in cui si riscontra la presenza di Valtellinesi nel
Seicento: il S. Giacomo. Una presenza che durò per tutto il secolo.
Fortunatamente, dato il tipo di mali che vi si curavano, con frequentazio-
ni ridotte rispetto ai precedenti.
L’Arciospedale di S.Giacomo in Augusta detto, a partire dal Cinque-
cento, degli Incurabili ha le sue origini nel 1339 come Ospedale di S.
Giacomo grazie alle disposizioni testamentarie del cardinale Pietro
Colonna che, secondo quanto ricorda un’iscrizione in caratteri semigotici
posta nel cortile dell’istituto, con quel titolo intese tramandare la memo-
ria dello zio Giacomo a sua volta cardinale. A tale denominazione fu
aggiunto in Augusta poiché l’edificio veniva a sorgere nelle vicinanze del
Mausoleo di Augusto, trasformato in fortezza proprio dai Colonna. Fu
costruito in quel posto allora lontano dal centro abitato, in mezzo a vigne
e orti, per accogliere i pellegrini diretti a Roma ammalatisi durante il viag-
gio e che, dalla via Cassia o dalla Flaminia, entravano in città attraverso
la Porta del Popolo. Affidato alla Confraternita di S. Maria del Popolo e
posto alle dipendenze del S. Spirito in Sassia, questo nosocomio restò per
tutto il Quattrocento una struttura modesta.
Ai primi del secolo successivo ci fu un salto di qualità.
In quegli anni un male terribile si andava diffondendo in Europa ed
anche nella nostra penisola. Come scrive eloquentemente il De Angelis, “i
colpiti sul principio venivano assaliti da febbre: in seguito manifestavano
sul corpo delle pustole tonde, piene di pus, di odore ripugnante, di colore
verde-nero, che li deformava come lebbrosi, rendendoli insonni e rattrap-
piti nelle membra quanto più erano gagliardi. Gli infelici si ritrovavano
fuggiti da tutti, anche dai parenti. Gli ospedali non davano loro ricetto,
perché la malattia era considerata incurabile, e i miseri girovagavano ele-
mosinando e si affollavano in particolare nelle città maggiori, ove spera-
vano trovare più grandi aiuti” (95). A quei tempi si trattatava di un morbo
“nuovo”, un’infezione che infierì fra le truppe francesi di Carlo VIII
(1494-96), le quali disseminarono il contagio in Italia, soprattutto a
Napoli, dove bivaccarono e trescarono a lungo (96). Questa malattia, che

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in Italia si chiamò il mal francese – mentre in Francia, a salvaguardia del-
l’onore nazionale, assunse l’appellativo di mal di Napoli –, dal poema
Syphilis sive Morbus Gallicus (1530) di Girolamo Fracastoro prese poi il
nome di sifilide o lue venerea. Raggiunse anche Roma, dove per strade e
piazze si assisteva al quotidiano e desolato spettacolo di una gran molti-
tudine et numero di poveri piagati, posti quali in piccoli carretti, quali per
terra, infestissimi al viso et allo odorato di tutto il mondo, secondo quan-
to attesta l’Anonimo compilatore cinquecentesco della Origine et sum-
mario dell’opere pie di Roma (97).
Con spirito di carità unico, il notaio genovese Ettore Vernazza e gli altri
congregati della Compagnia del Divino Amore per venire in aiuto a que-
sti derelitti, dopo aver preso accordi con la Compagnia amministratrice di
S. Maria del Popolo e versato una somma iniziale di 100 ducati, riadatta-
rono il S. Giacomo a poter ricevere i malati di sifilide. Per meglio segui-
re l’opera entrarono a loro volta in quella Confraternita.
Alfine papa Leone X, con la Bolla Salvatoris nostri del 19 luglio 1515,
promosse ufficialmente il piccolo nosocomio ad Arcispedale. Deliberò
altresì che da quel momento prendesse anche il nome da quello dei Poveri
Incurabili: istituzionalmente avrebbe dato ricovero, nutrimento e cura ai
poveri infermi dei due sessi affetti da qualunque male, compreso il morbo
gallico, eccettuata la peste e la lebbra per cui esistevano già apposite strut-
ture. Nello stesso tempo il pontefice innalzò il suo sodalizio ad Arci-
confraternita di S. Maria del Popolo e di S. Giacomo degli Incurabili,
approvandone i nuovi statuti e stabilendo che per il governo della relativa
istituzione ospedaliera si sarebbero dovuti eleggere 4 Guardiani e 12
Consiglieri: metà romani e metà forestieri. Oltre ai consueti privilegi ed
esenzioni provvide inoltre ad un sovvenzionamento annuale di 100 ducati.
L’iniziativa destò un entusiasmo generale in città, a cui seguirono
generosi lasciti ed incessanti elemosine.
Fu così possibile ingrandire l’edificio e creare altri reparti. Uno di que-
sti venne costituito per le donne.
Di come l’ospedale si presenti, alla fine del Cinquecento, possiamo
rendercene conto dal già citato Manoscritto Inedito dell’Anno 1592 della
Biblioteca Nazionale di Roma:
L’hospitale di S. Jacomo riceve solamente malfranciosati, piagati ed
altri simili d’infermità incurabile. Ha due corridoi dove ordinariamente

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stanno tutti l’infermi: uno per gli homini et l’altro per le donne, che vi è
fra mezzo solamente il muro che li divide per largo. Quello degli homini
è lungo passi 95, largo 14, dove stanno 72 letti, 36 per banda, di lun-
ghezza di due braccia et un quarto, et di larghezza un braccio et tre quar-
ti. Questi letti ordinariamente stanno sempre pieni, si bene adesso ve ne
sono sei et otto vuoti. Quando poi sono più infermi, si fanno più fila
davanti a quelli. Quello delle donne è lungo passi 45 et largo 14, ove sono
letti 36, 18 per banda, della medesima misura di quelle (file) degli homi-
ni, le quali sono tutte piene ordinariamente. Et quando vi sono più infer-
me, medesimamente si fanno nuove file.
Gl’inservienti dell’hospitale sono 8, i quali fanno le cose necessarie
per gl’infermi. Nell’hospitale delle donne vi si trovano 6 o 7 donne; c’è
un medico et vien di fora, che ha 6 scudi il mese di provosione, et un ceru-
sico che ha 12 scudi il mese. Vi è poi un sostituto del cerusico che allog-
gia nell’hospitale, il quale ha le spese et 14 iulij il mese. C’è la spetieria
con uno spetiale et un garzone. C’è uno che fa le unzioni, servitiali, dà
medicine et consimili. C’è uno scopatore, guardarobba, spenditore, dis-
pensiere, droghiere, fornaio, portaspesa che tiene un cavallo per portare
le robbe. Ci sono 3 cappellani che dicono messa in detto hospitale, rac-
comandano l’anima, danno l’olio santo et altri sacramenti et hanno 2
scudi al mese con le spese per uno. Tutti questi alloggiano entro l’hospi-
tale…
…sono poi gl’infrascripti che stanno fuora: l’archivista che tiene cura
di tutte le scritture dell’hospitale, nota gl’infermi che ci vengono et quel-
li che partono et nota tutti li lassiti et cose simili. C’è il ricercatore, com-
putista, camerlengo il quale tiene i denari. C’è poi un Procuratore, giu-
dice, avvocato, quali con il detto camerlengo et 4 Guardiani, de’ quali
uno bisogna che sia prelato, vengono ogni settimana una volta a detto
hospitale a far congregatione per l’intendere come passano le cose et pro-
cedere alli bisogni quando si da l’ acqua di Legno, che è ogni due anni…
(98)
L’Acqua di Legno di cui parla il nostro Anonimo era l’unica, e costo-
sissima, cura ritenuta allora efficace per i colpiti da sifilide ed anche per
tutta una serie di altri mali. Così che la maggior parte della gente, non
potendo permettersela a proprie spese, aspettava che fosse l’ospedale ogni
due anni ad elargirla.

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Da qui l’incredibile afflusso di poveri disperati, che da tutta la peniso-
la ed anche dal resto d’Europa calavano sull’ospedale. Una volta a prin-
cipio di maggio, prosegue a farci sapere l’Anonimo, arrivano a 1000 e più
letti et allora le donne stanno in due corridoi detti disopra, et li homini
stanno in due altri corridoi a man dritta a questi, in altro appartamento,
i quali sono lunghi ciascuno di essi quanto li due sopradetti, e lunghi alla
medesima proportione. I due corridoi detti di sopra ove stanno gli homi-
ni quando si dà l’acqua di legno, sono lunghi ciascuno di essi passi 125
et larghi 12.
Presenze Valtellinesi nella prima metà del secolo
All’inizio del Seicento, il munifico e lungimirante cardinale Salviati –
lo stesso dell’Ospedale delle Celate di S. Rocco a Ripetta – fece costrui-
re la chiesa di S. Giacomo, tuttora esistente, ed ampliò l’Arciospedale
dotandolo anche di una farmacia e di alloggi sia per i medici che per il
personale.
Tra il primo ed il secondo decennio del secolo, quando cominciamo a
trovare ricoverati anche dei Valtellinesi, i mali più comunemente indicati
che riguardano gli infermi sono per gli uomini: piaghe alle gambe o per
la vita, mal al membro, tinconi, male in bocca, fistola, postema, rogna,
rognaccia… e, in casi alquanto sporadici, male franzese; per le donne:
mal di sotto o alla natura, piaghe alle gambe, alla schiena…(99).
Rispetto agli uomini, le donne sono circa un terzo. Quelle in grado di farlo
filano il lino, che si raccoglie alla questua per l’ospedale.
Di ciascun ricoverato nei registri del nosocomio viene segnato il nome,
il luogo di origine o provenienza, la distinta del vestiario con lo stato di
conservazione e il numero del letto occupato. Si indica solitamente anche
la malattia. Quando il degente è dimesso, se ne annota il giorno: un dato,
questo, a volte tralasciato. Se muore, in margine al registro si segna una
croce e la data del decesso. Per il S. Giacomo la mortalità si aggira sul 10
per cento dei ricoverati. Questi, in un anno, superano le 1000 unità.
Naturalmente senza contare quelli che si presentano per la cura
dell’Acqua del Legno, che sono in genere altrettanti.
Quanto ai nostri convalligiani, le condizioni dei vestiti e soprattutto
quelle loro personali, riscontrate dai ricoveri (88d) riportati nel Libro

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degli Infermi dell’Ospedale di S. Giacomo per gli Anni 1616-1617, ci
lasciano ancora una volta attoniti:

GIOVAN MARIA MENOLO 8 febbraio 1616


da Voltolina si ricovera;
si dice malato alla gamba letto 30
ferraiolo di mezza lana negro, giubbone e
casacca di saia rotti, camisciola rossa rotta,
camicia, calzoni di saia, calzetti di saia pauo-
nata rotti, cappello e una scarsella.

18 giugno
torna a ricoverarsi.

Per questo degente ed altri non compare la data di quando lasciano l’o-
spedale. Inoltre, per il convalligiano, sotto a quanto abbiamo riportato c’è
la scritta: Benedetto.

PIETRO di Jacomo 21 marzo 1616


da Voltolina si ricovera;
si dice malato alle gambe letto 29
ferraiolo e giubbone di saia, camiciola, cami-
cia, calzoni turchini, calzette e cappello, con
giulij 9.

si dice malato alla coscia 18 aprile 1616


torna a ricoverarsi;
letto 34
ferarolo negro di saja, gipone verde di saja,
calzoni turchini, camisciola rossa, camiscia,
calzette et capello.

Un aspetto così simpaticamente multicolore dell’abbigliamento è


caratteristico negli abitanti della Costiera dei Cech.

GIOVANNI TABELLI 6 luglio 1616


dalla Voltolina si ricovera;
si dice malato alle gambe letto 51
camicia di saia e sua roba straccia.

MARTINO fachino da Voltolino 6 aprile 1617


si dice malato alle gambe si ricovera;

217
letto 51
casacca bigia, calzoni di tela bianca, camicia e
cappello.

3 giugno 1617
torna a ricoverarsi.

ROUINO di Pietro della Voltolina 8 maggio 1617


si dice malato alle gambe si ricovera;
letto 28
borrocho fatiscente, calzoni istesso, camicia,
calzette di panno e cappello.

DOMENICO di Giouanni 2 agosto 1617


della Uoltolina si ricovera;
si dice malato alle gambe letto 44
giubbone di tela, casacca e calzoni di mezza
lana, camicia, calzettacce e cappello.

TOMASSO dalla Voltolina 28 novembre 1617


si ricovera;
letto 24
calzoni tutto stracci et omnia.

La mancanza dei cognomi e di altri dati non riguarda soltanto i


Valtellinesi, ma tutti i ricoverati. Questo si riscontra soprattutto nei primi
decenni del secolo. Dagli abiti dei nostri convalligiani siamo convinti che
siano stati dei facchini. Anche il ricorrente malato alle gambe è purtroppo
una loro peculiarità.

Una cura mirabolante


Il dover preparare ogni due anni l’Acqua del Legno era per l’Ospedale
una vera e propria impresa. Un qualcosa di talmente particolare che sareb-
be un peccato non parlarne. Tra l’altro, fino al 1636, ne usufruirono anche
i nostri convalligiani.
Nella sua approfondita e interessantissima opera sul S. Giacomo (100),
il Vanti sottolinea innanzitutto come la spesa per questa cura così specia-
le richiedesse ogni volta una somma non indifferente: dai 3 ai 4.000 scudi.
Un costo che tuttavia si accollavano generosamente il Cardinale

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Protettore, i Guardiani e i Visitatori della Compagnia solitamente nobili e
ricchi, il Pontefice stesso, i Cardinali, gli Ufficiali della Camera
Apostolica, nonché vari Prelati e Gentiluomini.
Raccolto il denaro bisognava provvedere per il fabbisogno, in media,
di 5.000 libre – 1 libbra a Roma equivaleva a 339 grammi – della miglior
qualità del Santissimo Legno Americano: il guiacan o guaiaco, pianta ad
alto fusto dell’America Centrale, Antille, Colombia e Venezuela, che ser-
viva per il decotto o infuso. La droga, conosciuta dagli Indiani da tempi
remotissimi, è costituita dal legno durissimo, pesante bruno o verde
bruno. Il legno sfregato ha grato odore, ma il sapore è acre e aromatico;
esso è impregnato dalle resine di guaiaco cui deve il colore, il sapore e la
proprietà terapeutica: questa è costituita dagli acidi guaiacico, guaiaci-
nico, guaiacolico (101).
Mentre ci si procurava il Legno, si doveva rimettere in piena efficien-
za le corsie dell’ospedale: riparare i letti e, soprattutto, provvedere al per-
fetto funzionamento degli infissi, finestre e porte, affinchè chiudessero
bene. Esisteva infatti il pregiudizio che l’aria costituisse un pericolo o,
comunque, tornasse di danno alla cura.
Un altro grosso problema consisteva nell’arrivare ad una disponibilità
di ben 1.000 letti. Anche perché, oltre a questi, occorrevano altrettanti
pagliericci e materassa. E naturalmente migliaia di coperte, lenzuola, sal-
viette per i frequenti cambi. C’era quindi il guardaroba per i poveri rico-
verati: camicie per uomini e donne, berrettini da notte per i primi e cuffie
per le altre; nonché vesti rosse tanto per gli infermi che per i servi e quel-
le turchine per i medici.
C’era poi da pensare alla dispensa. Dare da mangiare ad almeno 1.000
persone due pasti quotidiani non era proprio facile. Anche perché non si
trattava di un giorno o due. La cura, che per ciascuno durava una quindi-
cina di giorni, si ripeteva per una durata complessiva di 30-40 giorni. In
aggiunta va considerato che essa comportava una dieta rigorosamente pre-
stabilita. L’enorme dispensa doveva perciò essere provvista in conformi-
tà. Tra gli alimenti essenziali correlativi alla cura c’erano la passerina e il
biscotto, che si razionavano scrupolosamente. Per cui era indispensabile
una provvista di almeno 8.000 libbre di passerina e 4.000 di biscotto. Non
appena acquisita, due fornai cominciavano a preparare biscotto in conti-
nuazione.

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E gli acquisti non finivano qui: per la preparazione del Legno Santo
occorrevano anche 100 libbre di scorza; nonché altre droghe da usare,
secondo i casi e i bisogni degli infermi, prima durante e dopo il decotto.
E così, a complemento di questa incredibile cura dell’Acqua di Legno,
avanti con altri acquisti: cassia caierina, adraganti, turbetti fini, euforbio,
pepe lungo, reubarbaro, grana tintura, agarico fino, calamo aromatico,
oppoponago, tussia alessandrina, serapino, castoro, bedelio, mirra, aloe,
mirabolani indi e cetrini, coloquintida, biacca, minio, incenso, verdera-
me, armoniaco, canfora, sobesten, coralli rossi e bianchi, pilatro, cannel-
la, laudano, allume.
Il Vanti ci fa poi sapere che “per la preparazione dello sciroppo e
dell’Acqua del Legno Santo viene particolarmente incaricato un chirurgo,
che ha a sua disposizione 8 servitori. Pochi giorni innanzi l’inizio della
cura, 2 tornitori cominciano a preparare la rasura del legno: più è minuta
e più rende; man mano che la rasura cade dal torno si ripone in bidoni,
ben calcata e accuratamente coperta. Lo sciroppo e l’acqua devono esse-
re preparati un giorno per l’altro. E cioè il giorno che precede l’uso.
L’Ospedale dispone, a questo scopo, di sette grandi caldaie murate, alle
quali – secondo il bisogno – se ne possono aggiungere delle altre. Al
momento opportuno si riempiono d’acqua fino al limite più alto, segnato
su un bastone posto nel mezzo. In ciascuna caldaia, a seconda della gran-
dezza e quindi della quantità d’acqua, s’immerge un sacchetto di rasura in
quantità esattamente calcolata; poi un secondo sacchetto con la scorza
nella proporzione d’un sesto della rasura. Il tutto si fa bollire finchè l’ac-
qua si riduce alla misura più bassa, segnata sul bastone, fisso al centro
della caldaia. Le sette caldaie, di varia grandezza, contengono tutte insie-
me tant’acqua da cuocere al contempo – volendo – 443 libbre di rasura e
70 incirca di scorza di Legno Santo.
Per portare lo sciroppo e l’acqua nelle corsie si usano delle grandi
cocome e brocche, che si mettono a riscaldare prima di versarne il conte-
nuto, nel boccaletto e nella scodella di ciascun infermo.
La cura dell’Acqua è aiutata da una temperatura elevata. Perciò il
Maestro di Casa deve provvedere in tempo legna, carbone, foconi di ferro,
da portare nelle stanze bene accesi, e scaldaletti da mettere sotto le coper-
te ai più bisognosi. Occorrono per solito 22 foconi di ferro per le corsie e
80 scaldaletti. Poiché la cura ha pure effetto lassativo e diuretico, soprat-

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tutto quand’è medicata con droghe a questo fine, perciò si provvedono
cassette e pitali in numero sufficiente. A molti infermi, durante la cura, si
pratica il salasso. Si calcola dunque che possano occorrere ogni volta
15.000 piumaccioli per levare sangue e 3.000 bende.
Tanto fervore di preparativi richiede una corrispondente mano d’ope-
ra. Il Maestro di Casa è perciò autorizzato a raddoppiare il numero dei
servi; perché di solito son 9 e vengono portati a 18. In aiuto negli altri ser-
vizi son dati altri 8 inservienti. Nel reparto donne, le serve da 3 sono por-
tate a 6.
Al termine della cura, il personale aggiunto è dimesso. Ciascun servo
riceve 6 giuli al mese, vitto e alloggio. Al personale stabile si dà, per gra-
tificazione, un salario mensile raddoppiato. Tenuto conto delle straordina-
rie fatiche, il personale tra un pasto e l’altro riceve anche la merenda.”
Quando finalmente tutto è pronto, “il Maestro di Casa, dopo averne
dato avviso ai Guardiani, tra il primo e il 15 di maggio, fa affiggere alle
porte delle Chiese e ai luoghi pubblici usuali, Gli Editti. E’ un foglio di
modeste proporzioni con lo stemma dell’Ospedale: un ovale con l’imma-
gine di S. Giacomo, col bordone del pellegrino, nel centro: in alto la
Madonna col santo bambino, e in basso un infermo semignudo, piagato,
entro la tipica cariola.

Si notifica - dice l’Editto – d’ordine dell’Illustrissimi Signori Guar-


diani dell’ Archihospedale di S. Giacomo de gl’ Incurabili, a tutti
che vorranno venire a pigliare l’ Acqua del Legno: come alli … di
maggio (giugno) a hore 18 … e … alli … detto si riceveranno gli
huomini, et alli … detto si riceveranno le donne: portando però la
fede, d’essersi al presente confessati et comunicati.

“Il giorno che precede l’inizio della cura, tutto dev’essere in perfetto
ordine. Ogni letto così preparato: un pagliericcio, un materasso, un capez-
zale, un lenzuolo di tre veli, una coperta, una veste rossa, una salvietta, un
berrettino o una cuffia, una camicia, un boccale, una scodella. Si chiudo-
no ermeticamente le finestre più alte e meno alla mano, incollando strisce
di carta lungo le commessure e tappando con diligenza ogni buco. Le lam-
pade si forniscono d’olio e si sospendono al loro posto. In ogni corsia

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devono esser pronti i gabbioni o custodie di ferro, dove s’introdurranno a
suo tempo i foconi accesi. Sei per ciascuna nelle due nuove grandi corsie
sovrapposte costruite dal Salviati. Tre nella corsia piccola e sette in quel-
la delle donne, ch’è più fredda e umida.
Fuori dell’Ospedale, tutt’intorno, per un buon tratto, vien fissato al
suolo uno steccato per impedire che la folla, facendo ressa all’ingresso,
ostacoli il buon ordine, durante l’accettazione dei malati. Del resto è pre-
visto che questa sola disposizione non basta e perciò il Maestro di Casa
deve avvisare il Capitano degli Svizzeri perché mandi, per il primo gior-
no, una metà dei suoi soldati per la guardia e il buon ordine all’entrata
dell’Ospedale. L’altra metà il giorno dopo. I soldati si fermano al S.
Giacomo fino al termine della cura vigilando, notte e giorno, tutte le
entrate, i cortili e le adiacenze.
Il protomedico-fisico dell’Ospedale, visita diligentemente i malati che
sono in casa, uomini e donne, e giudica quali abbiano bisogno o possano
trar profitto dalla cura dell’Acqua. Gli altri vengono provvisoriamente
dimessi per dar posto a quelli che arriveranno in gran numero d’ogni
parte. I pochi che, per la loro gravità, non possono essere dimessi sono
riuniti nella piccola corsia detta l’Ospedaletto.
Roma presenta in occasione della cura al S. Giacomo un aspetto inso-
lito. Le adiacenze dell’Arcispedale sono animatissime. Il giorno che si dà
principio al rimedio, e i trenta o quaranta ch’esso dura, in particolare i
giorni in cui gli ammalati vengono ammessi, dalle prime ore del mattino
una folla tumultuante fa ressa contro lo steccato e nonostante le prudenti
disposizioni prese e, di volta in volta meglio predisposte, c’è sempre qual-
che disordine da lamentare per l’intemperanza di qualcuno.
I due primi giorni si ricevono gli uomini, il terzo le donne. Gli uomini
sono sempre in numero maggiore.”
“Il giorno e l’ora convenuti comincia IL RICEVIMENTO DEI
MALATI. Tutto il personale è puntualmente al proprio posto.
L’accettazione si fa nelle prime ore del pomeriggio, tra le 18 e le 21: e
cioè dalle 13 alle 16, al computo attuale. All’ingresso stanno i Guardiani
dell’Ospedale, che danno ordine di fare passare per primi gli stroppiati. A
ciascun infermo non si chiede che l’attestato d’essersi, per l’occasione,
confessato e comunicato. Non occorrono raccomandazioni: basta essere
poveri e infermi.

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I Guardiani riempiono per ciascun infermo una scheda, contrassegnata
dallo stemma dell’Ospedale in rosso: segnano in essa il nome, il cogno-
me, patria dell’infermo e la corsia alla quale lo destinano. I bisognosi di
maggior assistenza sono riuniti nella corsia più comoda, dove saranno
meglio assistiti. Vengono affidati a quattro religiosi Ministri degli Infermi,
primi compagni di San Camillo.
Accompagnato da uno dei gentiluomini, che si prestano a quest’opera
di carità, al letto che gli è stato designato, l’infermo è aiutato da un servo
a spogliarsi; mentre il gentiluomo segna, in altra scheda bianca, gli effet-
ti di vestiario del malato. Fatto di essi un fagotto, vi appunta il bollettino
o scheda, e lo consegna al guardaroba.
Entrato l’ammalato nel letto, il medico-fisico con lo speziale passano a
vederlo e visitarlo ordinandogli, oltre la cura del Legno, quelle altre medi-
cine che ritengono opportune al caso suo particolare. La visita si ripete
mattina e sera, durante tutto il tempo della cura.
Alle 4 del pomeriggio ha termine l’ammissione dei malati. Quelli che
rimangono sono rimessi all’indomani. Ai ricoverati si dà intanto la cena,
che è già in rapporto alla cura: una pagnotta, un cucchiaio di due once (50
grammi) di passerina (uva passa) e una foglietta (un bicchiere circa) di
vino annacquato, per ciascun infermo.
Al mattino, per tempo – secondo le prescrizioni del medico – a chi si
cava sangue e a chi si dà la medicina (purga) con la metà d’una melan-
gola (arancia forte).
A desinare: brodo o pangrattato, quattr’once di carne ciascuno, una
pagnotta e vino annacquato.
Dopo la refezione, si medicano le piaghe e si riprende l’accettazione
dei malati alla maniera del giorno innanzi.
Il terzo giorno, si ricevono le donne.
E il primo turno è così completato.”
“Nella nottata comincia LA CURA. Tra le 3 e le 4 ore di notte, ossia
tra le nostre attuali 22 e 23 ore, si comincia ad accendere il carbone nei
bracieri. Due ore dopo dev’esser tutto una brace. Alla stessa ora (l’una
dopo la mezzanotte), si destano i servi e si comincia la cura sotto la dire-
zione del chirurgo soprastante, dello speziale, del Maestro di Casa e della
Priora per il reparto donne: a dar le diverse pozioni evacuative o essuda-
tive e, subito dopo, lo sciroppo dell’Acqua del Legno. Si portano nella

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corsia i bracieri accesi e si chiudono nei gabbioni. Agli infermi che hanno
bisogno di maggior calore si pone nel letto uno scaldino. Si chiudono ben
bene le finestre e le porte. E gli infermi restano il più possibile immobili,
ben coperti, al buio, sotto l’azione energica del rimedio, per circa due ore.
Dopo tal tempo si tolgono i bracieri dai gabbioni e gli scaldini dai letti e,
svelti svelti, chirurgo e aiutanti cavano sangue, attaccano mignatte, fanno
coppette. E’ un momento d’intenso lavoro per tutti.
Quando gli infermi sono all’ordine, di buon’ora, si dà il primo vitto
della giornata: un cucchiaio grande di passerina, quattr’once di pan
biscotto e un po’ d’Acqua del Legno da bere.
Dalle ore 12 dello stesso giorno si ripete la cura come nella notte, meno
le purghe e i salassi, che si praticano anche nei giorni seguenti soltanto
durante la cura della notte.
Alle 4 del pomeriggio si dà il secondo vitto: tre once di biscotto anzi-
ché quattro, un cucchiaio grande di passerina e Acqua del Legno a bere,
quella del terzo infuso.
La cura continua in tal modo per tutto il mese di giugno. Dopo il 20,
però, il numero degli infermi comincia a restringersi. Su la fine del mese
non si ammette più alcuno. Si termina la cura per quelli che rimangono in
ospedale, fino al 10 o 12 luglio, quando si riaprono le finestre e si dimet-
tono tutti gli infermi per la pulizia e il riordino dell’Ospedale.”

“L’ESITO della cura sortiva in genere con buon effetto, soprattutto in


grazia della disintossicazione generale dell’organismo provocata dai
diversi rimedi presi insieme. Che il guaiaco abbia delle proprietà terapeu-
tiche non si mette in dubbio. La cura era indicata in casi tanti diversi che
senz’altro, in qualcuno almeno, poteva tornar proficua. In effetti troviamo
che il numero dei morti, durante la cura, non supera affatto la percentua-
le media ordinaria dell’anno: tra il 9 e l’11 per cento.”

Nel 1636, davanti a un numero di ricoverati decisamente sconcertante


ed alle conseguenti spese che aumentavano da far impressione, l’ammini-
strazione dell’ Arcispedale si trovò costretta a rinunciare all’iniziativa e
lasciò che se ne incaricassero liberamente i farmacisti.

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I convalligiani della seconda metà del secolo
Tutti quelli che necessitavano di interventi di alta chirurgia o di cure
per piaghe di ogni genere proseguirono ad essere curati al San Giacomo.
Nei registri degli Uomini e Donne che entrano nell’Ospitale dell’Anno
1650, prima e seconda parte, e in quello dell’Anno Jubilei 1675, prima e
seconda parte, continuiamo così a constatare la presenza di altri Val-
tellinesi nell’Urbe (89d), (90d), (91d), (92d):

GIOVANNI DICORF 17 marzo 1650


del q. Giacomo si ricovera;
da Triang nella Voltellina letto 5
male di piaga casaccone e calzoni di lana mischia, calzette di
mezzalana bianca, camiciola saia rossa, cami-
cia et cappello;
dimesso il 20 marzo.

BARTOLOMEO GIMELLI 6 maggio 1650


del q. Giovanni si ricovera;
dalla Voltulina letto 58
male di piaga fardello omnia.

Bartolomeo Giumello 6 giugno 1650


mal di piaga torna a ricoverarsi;
stesso letto 58
fardello omnia.

LORENZO del q. FIORINO 2 gennaio 1675


dalla Voltolina si ricovera;
letto 51
casacca di canuaccio verde, calzoni di mezza
lana verdone, sensa camicia, cappellaccio, il
tutto stracci

ANDREA MOLERA 25 giugno 1675


del q. Giovanni si ricovera;
dalla Voltolina letto 10
casacca di panno arbasio, calzoni di mezza
lana grigia, camisciola rossa, camicia, calzette
di due sorte, cappello, il tutto stracci.

225
13 novembre 1675
torna a ricoverarsi;
letto 9
casacca di panno nociato, calzoni di mezza
lana grisa, camicia, calzette di lana rossa e
cappello, il tutto stracci.

Dal tipo di indumenti questi nostri convalligiani dovrebbero essere dei


facchini. Gli altri ricoverati fanno le più svariate attività di arti e mestieri.
Ci sono muratori, barbieri, contadini, barcaroli, vignaroli, molti servitori,
fruttaroli, mulattieri ed anche scalpellini, pittori, copisti e soldati. Quanto
all’origine o provenienza possiamo veramente dire che arrivino da tutte le
parti. Vi compaiono infatti tanti Milanesi, Bergamaschi, Fiorentini,
Veneziani, Genovesi ed anche Romani, molti delle zone nelle vicinanze di
Roma, della Sabina e dell’alto Lazio: Bassanello, Viterbo, Formello,
Nerola, Leonessa, Velletri, Civitavecchia, Rieti, Terni, Narni, Amatrice.
Rappresentate anche numerose altre città della penisola: dall’Aquila a
Bologna, Rimini nonché Pesaro, Ancona, Macerata e Perugia, Lucca,
Siena, Montepulciano, come pure della Basilicata ed anche di Napoli,
Lecce e Palermo. E non è finita: troviamo inoltre Francesi, Tedeschi,
Polacchi, Svizzeri e perfino un degente di Cefalonia.

Anche nell’ultimo decennio del secolo, i Valtellinesi sono a loro volta


presenti al S. Giacomo. Ce lo attestano (93d) (94d) il Libro degli Infermi
anno 1693 e quello seguente per gli Anni 1693-1694:

ANTONIO GOBBO 27 gennaio 1693


di Bernardino si ricovera;
dalla Valtolina letto 26
anni 34 casacca di panno lionato, casacca di fustagno
fachino simile, camiciola riuescio rosso, camicia, cal-
zette di panno muschiato e cappello;
dimesso il 15 febbraio.

24 novembre 1693
torna a ricoverarsi;
letto 65
casacca di caneuaccio bianco, calzoni di panno
verde, camicia, camiciola di fustagno bianco e

226
calzette di tela simile, cappello;
dimesso il 6 gennaio 1694.

MATTEO FRANCI 25 marzo 1693


del q. Giovanni si ricovera;
dalla Valtolina letto 29
anni 45 ferraiolo di saia nera, giupone di fustagno, ca-
fachino micia, camiciola con riuescio rosso, calzoni
d’organzetto muschiato, calze filo bianco,
mutande e cappello;
dimesso il 10 aprile.

DOMENICO BONOLO 22 giugno 1693


del q. Lorenzo si ricovera;
dalla Valtolina casacca di fustagno muschiato, camicia, calzoni
anni 50 e camiciola con rovescio rosso, altri calzoni ne-
facchino ri, calzette di tela turchine e cappello;
dimesso il 27 luglio.

FRANCESCO PROVINI 21 luglio 1693


del q. Bartolomeo si ricovera;
dalla Valtolina letto 55
anni 32 calzoni di saia muschiata, camiciola di mezza
fachino lana rossa, camicia, calzette di lana turchine,
mutande e cappello;
dimesso il 6 settembre.

PIETRO FOMASI 3 agosto 1693


del q. Giovanni si ricovera;
dalla Valtolina letto 6
anni 30 camiciola di fustagno bianco, camicia, calzoni di
contadino mezza lana canelata, calzette di lana turchina e
cappello;
dimesso il 24 agosto.

DOMENICO ROSSI 21 settembre 1693


del q. Giacomo si ricovera;
dalla Valtolina letto 29
anni 27 casacca, camiciola di fustagno bianco, camicia,
misuratore di grano calzette caneuaccio bianco, mutande e cappel-
lo;
dimesso il 9 dicembre.

227
GIOVAN MARIA DELL’ORO 5 settembre 1693
del q. Pietro si ricovera;
milanese letto 33
anni 24 casacca di mezza lana nera, calzoni di mezza
calzolaro lana bigia, camicia, calzette caneuaccio bian-
co.
Cresimato e comunicato muore il 7 settembre.

GIOVANNI SONGINO 10 ottobre 1693


del q. Bartolomeo si ricovera;
milanese letto 66
anni 23 giubbone e calzoni di saia rigatta, calzoni filo
cucchiero bianco, camicia, livrea;
dimesso il 23 ottobre.

La livrea ci indica che si tratta di un cocchiere al servizio di qualche


personaggio di rilievo.

Fortunatamente per tanti di questi convalligiani, pressochè tutti dai


lavori usuranti e che per mantenersi in salute richiedevano un tipo di nutri-
zione sostanziosa, il vitto del S. Giacomo era sano ed abbondante. Basti
dire che in quegli anni il quantitativo di carne dispensata ai 100-120 rico-
verati al mese si aggirava per quello stesso periodo sulle 300 libbre: per
sei decimi castrato, per due vaccina e per altri due vitella, abbacchio e
pollo. Si consumava poi in quantità rilevante anche tonnina, passerina,
fichi secchi, riso, farro e orzo mondo. Le provviste costanti altresì d’una
certa consistenza erano inoltre la salsa pariglia, le armandole ambrogine,
lo zucchero candito, la liquirizia, il miele di tutti i tipi, le rose rosse et
incarrate, l’espino cervino, i cedri, gli aceti rosati ed altro. Non si lesina-
va nemmeno sul vino, che arrivava prevalentemente dalla Calabria tra-
sportato da barconi fino al porto fluviale di Ripetta. Per i malati più lan-
guidi, i cosiddetti flussati, si disponeva di un eccellente vino greco dell’i-
sola d’Ischia (102).

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