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Giuseppe Restifo

Tra inediti scompigli e sentite permanenze: la Confraternita dei Marinai di Messina

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«Nell’anno 1622, havendo di notte tempo, per evitare qualche tumulto, fatto venire i più
prattichi delle ciurme delle Galee, con ogni sorte di serramento, smantellarono in poche hore quella
Chiesa, facendola col suolo uguale»: si risolve così, con una decisione e un’azione draconiane,
un’annosa disputa a proposito del tempio di S. Maria di Porto Salvo di Messina. Da una parte c’era
la Confraternita dei Marinai, dall’altra una varietà di soggetti, che andava dai Frati Riformati
dell’Osservanza di S. Francesco ai viceré di Sicilia, Pietro Girone Duca d’Ossuna ed Emanuele
Filiberto di Savoia, giungendo sino all’arcivescovo della città Andrea Mastrillo, da cui parte
l’ordine di demolizione. La confraternita non voleva fosse smantellata la propria chiesa di
riferimento, mentre i frati riformati ambivano costruirsene un’altra più ampia e con un convento in
grado di ospitarli. I frati godono dell’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche e politiche; quindi
l’edificio viene demolito per far posto a un «novello sontuoso Tempio», al cui interno alla
confraternita viene riservata soltanto «una spatiosa, e ben ornata Cappella, dove stà l’Imagine di
Nostra Signora di Porto Salvo Titolare della Chiesa»1.
Quest’episodio, piuttosto tumultuoso, muove a ripercorrere la lunga vicenda delle
confraternite messinesi in età moderna, magari con quesiti rinnovati rispetto agli studi del passato,
che comunque nella storiografia locale mancano d’una visione d’insieme, di una sintesi in grado di
dar conto di questo fenomeno nel suo complesso. In particolare interessa, in questa sede,
attraversare la storia confraternale cercando di intercettare gli elementi della sociabilità, della trama
autorganizzata e delle espressioni “politiche” cui dà luogo. Un’attenzione duplice dovrà quindi
essere messa in campo sia rispetto alla strutturazione interna della confraternita, espressione
significativa nella vicenda urbana messinese, sia rispetto alle manifestazioni esteriori, con
particolare riguardo alle celebrazioni religiose e civiche.
Tornando alla storia della confraternita dei marinai, apprendiamo da Placido Samperi come
questa nasce dalla volontà di «Marinari, Nochieri, e Padroni, così di Vascelli grossi, come di Navili
piccioli», di eleggere «un qualche Santo Tutelare delle loro persone, e legni». La scelta fu facile,
perché era ormai lunga tradizione far voti «alla Madonna di Porto Salvo, la cui devotissima Imagine
era nella Chiesa del Monasterio di S. Chiara». La decisione consequenziale, agli inizi del ‘500, fu
quindi quella di «edificare un Oratorio particolare à proprie spese, sotto il medesimo titolo». Prima
di partire e al ritorno dalle loro navigazioni, i marinai si recano davanti l’immagine della Madonna
di Porto Salvo; quel luogo diviene il loro spazio per «esercitarsi nell’opere di Christiana pietà»; la
Beata Vergine si conferma così «la Protettrice, e la Stella Tramontana ne’ loro viaggi»; con lei si
condivide «parte de’ guadagni delle marinaresche fatiche»2. Il gonfalone, come ben si vede nella
figura 1, ancora oggi rappresenta la protezione sui naviganti e sui navigli.
La prima chiesa dei marinai sorge dentro le mura della città; si tratta di «un picciolo
Sacrario», costruito nei pressi della Porta Reale, la porta settentrionale della cinta muraria, da cui
usciva la strada in direzione del borgo marinaro del Ringo e della riviera di pescatori e uomini di
mare che si allungava verso capo Peloro.
Nella cappella i marinai si recavano «per udir Messa», ma lo spazio era davvero angusto, «e
poco à proposito per gl’intenti loro». Quindi scelsero un sito più comodo fuori delle mura, «verso la
parte settentrionale della Città, vicino al mare, ch’è nel principio del Porto». Qui essi fabbricano una
capace chiesa, sotto il titolo della Vergine di Porto Salvo, «e non senza ragione in questo luogo,
d’onde pare, che Maria Vergine facesse la sentinella, e custodisse nelle tempeste, marosi, e voragini
di Scilla, e di Cariddi li fluttuanti legni, e sani, e salvi in Porto gli riconducesse». Fu confermato
perciò senza esitazione il titolo di Porto Salvo.
«Havendo dunque fabricato à spese comuni quella Chiesa, s’adunarono molti Marinari
insieme, et ottennero da Monsignor Arcivescovo la facoltà per fondarvi una numerosa
Confraternità»: così Placido Samperi dà notizia della fondazione della confraternita, anche se la
costruzione di una chiesa «à spese comuni» presuppone una già solida trama sociale e un impostato
soggetto organizzato. Comunque i componenti della confraternita poi nell’anno 1565 «fecero di
comun consentimento alcuni Capitoli, e Regole da osservarsi per la conservazione, e buon
reggimento di quella, essendosi con publico stromento stipulate».

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Fissato lo “statuto” e deliberate le regole, la confraternita si muove per garantire che «ne’
tempi avvenire la Chiesa, e Confraternità da loro fondata fosse maggiormente stabilita, e non fosse
giammai da altri molestata, ò in qualche modo pretesa». I confrati riescono nel 1582 ad ottenere da
Sua Santità Gregorio XIII «un molto favorito Breve»: il pontefice, approvando la costituzione della
confraternita dei marinai, elargisce la sua ampia benedizione «prohibendo – cosa che evidentemente
sta molto a cuore ai marinai messinesi - insieme con Ecclesiastiche pene, che nessuno habbia
ardimento di molestarla»3.
In breve tempo la chiesa si riempie di ex voto d’ogni genere: tabelle votive, gomene rotte,
catene, ancore, «ferramenti marinareschi», navicelle sospese al soffitto e ceri, tanti ceri, «vive
memorie delle ricevute gratie dalla Madonna di Porto Salvo». Il fervore di «Padroni di Vascelli, e
Marinari» accresce la devozione e la voglia «di promuovere quell’Oratorio della Madonna, et
arricchirlo di privilegi in ogni tempo».
Quindi i confrati chiesero di essere aggregati alla Chiesa Lateranense in Roma, per godere
dei «Privilegi, favori, et Indulgenze», che tanti Pontefici avevano concesso nei secoli precedenti.
Essi sembrano conoscere bene il funzionamento della “catena” delle indulgenze, che
potevano essere confidate alle confraternite sia direttamente dal papa o attraverso i vescovi, a meno
che non ci si aggregasse ad un’arciconfraternita (e a non più di una) attraverso cui partecipare ai
suoi privilegi.
Il 14 maggio del 1608 il Venerando Capitolo dei Signori Canonici di S. Maria di Porto Salvo
di Messina riceve un Rescritto del pontefice Paolo V: da quel momento sono ammessi come
membri della Chiesa Lateranense. Il prezioso documento con la risposta del Papa alla richiesta della
confraternita, «con le consuete solennità», viene presentato e registrato, sia presso la Corte del
Viceré, sia nella Corte Arcivescovile: questa pone la condizione di una libbra di cera all’anno, come
segno del “riconoscimento” della Chiesa messinese.
Ma solo due anni dopo nubi inattese offuscarono il compiacimento dei confrati: «Vennero in
questo mentre nella Città di Messina verso l’anno del Signore 1610 i Frati Riformati
dell’Osservanza di S. Francesco, Religiosi di molto esempio, et austerità di vita». Volendo questi
edificare un convento, si misero alla ricerca di un sito opportuno fuori città, «per lo ritiramento, e
ministerij loro». La loro scelta ricadde sulla contrada di S. Leo, appena fuori le mura settentrionali
di Messina. Seppure in mezzo a «qualche scomodità», ma con l’autorizzazione di «D. Pietro Girone
Duca d’Ossuna, e Viceré di Sicilia», per loro abitazione presero alcune case, non lontano dalla
chiesa della Madonna di Porto Salvo. Si trattava di una presenza che inquietava non solo i
«convicini Religiosi», ma anche la confraternita dei marinai, «i cui Fratelli ingelositi fortemente
temevano, che non havessero un giorno à pretendere quella Chiesa, come in fatti avvenne».
I frati riformati mettono a frutto «l’autorità del Prencipe, e l’inclinatione dell’Arcivescovo»;
«quei buoni Religiosi» danno assicurazioni sulla loro intenzione di voler fabbricare la loro nuova
chiesa «verso il piano nella parte occidentale».
Nell’anno del Signore 1613, «à 23 d’Aprile», dopo che la confraternita si era gagliardamente
difesa ma non potendo più resistere «al volere divino, che chiamava quella Religione, per sua
maggior gloria, in quel luogo», si addiviene quindi ad un «pacifico accordo». I confrati concedono
la chiesa e l’abitazione ad essa connessa «à quei Religiosi»; pongono però alcune condizioni, fra cui
la prima è «che non potessero detti Religiosi alterare la struttura di quella Chiesa, ne in larghezza,
ne in lunghezza, ne in altra dimensione, senza l’espresso consentimento della Confraternità».
Altre condizioni poste «per la comune quiete, come appare per un publico stromento, che
all’hora si stipulò», sono espressione della vita sociale della confraternita: non si tolga mai dall’altar
maggiore l’antica immagine di S. Maria di Porto Salvo, non si conceda quella cappella ad alcuna
persona, si garantisca la sepoltura dei confrati né mai possa essere in comune «con altri esterni», la
chiesa e la sacrestia stiano sempre pronte per gli esercizi spirituali soliti dei confrati, infine non
possano mai cambiare il titolo della chiesa di S. Maria di Porto Salvo, né la sua festa, celebrata il 2
luglio «con la solennità possibile, e corso del Palio»4.

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Molto significativa, fra le altre, appare la condizione posta dalla confraternita a proposito
delle sepolture. Si è in una fase in cui la nobiltà, i mercanti, i detentori dei vari poteri cittadini
“assalgono” chiese e parrocchie con i loro monumenti funebri, le pietre tombali, i pavimenti
lastricati di lapidi sepolcrali. I “grandi” della gloria e delle fortune, che producono beni e ricchezze,
entrano in templi e cappelle: la “grandezza” si esprime anche nell’eterno riposo, ben in vista,
nell’effigie dei sepolcri5. Di contro si leva la reazione di chi non vuol essere spodestato anche dalla
“propria” chiesa; i confrati marinai si battono per aver garanzia di sepoltura, degna e dignitosa, e
soprattutto senza dover stare in comune con “esterni”.
La chiesa, gestita da «quei buoni Religiosi», vede crescere la frequentazione dei fedeli, i
quali accompagnano al loro fervore «larghe limosine» e fanno istanza per un tempio, più capace,
«d’artificiosa, e magnifica architettura». I frati si vedono così “costretti” a fare ricorso nuovamente
a don Andrea Mastrillo, arcivescovo di Messina, e a Sua Altezza Emanuele Filiberto, viceré di
Sicilia: chiedono «libera facoltà di smantellare l’antica Chiesa di Porto Salvo», per fabbricarne
un’altra nel medesimo luogo, ma più sontuosa.
Naturalmente la confraternita non è d’accordo, in rispetto anche alle antiche intese; per
qualche tempo si soprassiede, finché alcuni fra i «Rettori, e Capi», all’insaputa degli altri
confratelli, «fecero sentire al Prelato, che rimettevano nelle mani di lui, e nella molta sua prudenza
quel negotio, contentandosi di tutto quello, ch’egli determinasse». L’arcivescovo, forte
dell’incrinatura prodottasi nella confraternita e dopo aver comunicato la cosa al viceré, non
frappone indugi e senza esitazione fa abbattere la chiesa nel giro di una sola notte, «tanto che la
mattina si viddero le sole rovine, non senza sentimento comune per all’hora, e lagrimose querele
della plebe, e de’ Marinari, per un avvenimento non aspettato in materia così sacra».
Per la confraternita il danno era ormai irreparabile; per i confrati quindi «fù di mestieri, che
facessero di necessità virtù»; il «pio volere del Prencipe, e del Prelato» aveva avuto il sopravvento.
Ne nasce un nuovo accordo: «Nel novello sontuoso Tempio» alla confraternita risulta
concessa una cappella, dove viene situata l’immagine della «Signora di Porto Salvo», che rimane
titolare della chiesa e del convento; in cambio riceve dai frati riformati osservanti «come da Padri
amantissimi mille spirituali emolumenti».
Al tempo in cui scrive Placido Samperi, nel 1644, la confraternita appare fiorente e
soprattutto è presente nelle processioni con una peculiarità: i confrati hanno il privilegio di portare
«una ricca Bara, sopra la quale si vede artificiosa, e ben ornata Nave», detta popolarmente il
Vascelluzzo (che si può osservare nella figura 2). Il piccolo bastimento era stato cesellato nel 1575
da argentieri di bottega messinese, su commissione del Senato cittadino, a ricordo del salvifico
intervento della “Veloce Ascoltatrice” dei messinesi, afflitti, nella seconda metà del XIII secolo, da
una carestia senza pari. Tre velieri carichi di grano erano comparsi nel porto, dopo aver scavalcato
prodigiosamente il cordone delle navi del Duca di Calabria Roberto, il quale stava assediando la
città dello Stretto. La custodia del piccolo capolavoro, in lamine d’argento su supporto ligneo, viene
affidata dal Senato alla confraternita dei marinai; questa nel 1577 richiede il privilegio di inserire la
reliquia dei capelli della Vergine Maria sul Vascelluzzo, in occasione della processione del Corpus
Domini, quando viene adornato con mazzetti di spighe di grano (cosa che avviene ancora nel XXI
secolo).
Così, nel 1644, Placido Samperi ci riferisce che in cima al piccolo bastimento d’argento,
sulla gabbia dell’albero maestro, c’è «l’insigne Reliquia de’ Capelli della B. Vergine chiusi in un
gran Cristallo». Il privilegio era stato concesso nel secolo precedente e viene difeso e mantenuto
dalla confraternita, pur fra tante dispute e tanti contrasti. «Festeggiano i Marinari solennemente in
questa Chiesa à 2 di Luglio, concorrendovi infinito Popolo; si corrono i Palij, così per terra dagli
huomini, e dagli animali, come anche per mare dalle Feluche, e Fragatine, con meraviglioso diletto
de’ Riguardanti»6.
I palii dei marinai, le gare di barche, le corse di animali, cui tiene tanto la confraternita,
rientrano a pieno titolo nelle antiche tradizioni della città e, come tali, si protrarranno per tutto il
tempo dell’età moderna. Si affiancano alle rappresentazioni religiose, ma non ne costituiscono una

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semplice appendice; ai giochi assistono anche nobili, togati, autorità, talvolta i viceré di Sicilia.
Dietro gli intrattenimenti c’è una gara sociale, con risvolti politici, fra l’iniziativa dello Stato, dei
Comuni, dei nobili da una parte e quella di borghesi, cittadini, artigiani e mestieri, ceti popolari
dall’altra.
La festa dei marinai si ricollega al ciclo delle celebrazioni “marittime” di Messina, con le
relative utilizzazioni degli spazi pubblici urbani, gli ornamenti rappresentanti la storia della città
portuale, le realizzazioni dello spirito popolare e municipale.
All’altro terminale del “Vascelluzzo” si pone la “Galea”: essa era «a scenic machina which,
for its specific meaning, resulted emblematical as it was strictly linked to the maritime history of
Messina and it was indispensable to the characterization of the most important feast of the city», la
festa di Maria Assunta. L’importanza della tradizione marinara viene sottolineata da una parte dalla
grossa nave collocata nella grande vasca della fontana posta nella piazza di San Giovanni di Malta,
poco entro le mura settentrionali della cerchia urbana, e dall’altra parte dal piccolo vascello
dimorante nella chiesa della confraternita, poco fuori le stesse mura a nord della città, «symbol of
the collective destiny of this Mediterranean city […] where the space is the scenery of repeated
tragedies (earthquakes and epidemics), and place of hopes and conflicts in which men want to
affirm their ‘sense of belonging’ with their ways of living»7.
La vicenda della confraternita dei marinai messinesi, che si sviluppa nell’arco d’un secolo
fra ‘500 e ‘600, è particolarmente significativa ed esemplare. La struttura del sodalizio appare
solida, almeno fino al 1622, quando evidentemente la pressione controriformistica diviene
insostenibile e provoca una frattura fra alcuni Rettori e gli altri confrati; fin’allora s’era proceduto
«di comun consentimento», affrontando anche passi impegnativi «à spese comuni». Si spezza in
quell’anno la “democrazia” interna della confraternita, con un’incrinatura delle forme collegiali
normalmente tenute in gran conto e rette dalle minuziose previsioni statutarie. I marinai messinesi,
devoti della Madonna di Porto Salvo, cedono in quell’occasione alla stretta delle “alte autorità”
religiose e politiche, ma non arretrano più di tanto.
La confraternita, infatti, rimaneva uno dei pochi spazi di partecipazione e di protagonismo
politico concessi in una società di stampo assoluto e autoritario. Da ciò il particolare attaccamento,
quasi morboso, alla tradizione di autonomia, implicante anche un certo antagonismo nei confronti
del clero8: sul luogo di sepoltura dei confrati non si transige, sulla festa del 2 luglio nemmeno, e
inoltre si garantisce la prerogativa di portare nelle processioni importanti il Vascelluzzo, emblema
ricco di significati della confraternita stessa.
Si ribadisce anche in quest’occasione particolare il ruolo importante delle confraternite
laicali, sottolineato pure dalla loro lunghissima permanenza nel tempo e dalla loro diffusione,
soprattutto nell’ambito territoriale urbano. Le finalità sono quelle note: religiose, di assistenza,
mutuo soccorso, devozione. Altrettanto note sono le forme di autonomia nel quadro di statuti e
norme approvati dalle autorità ecclesiastiche. Meno noti sono gli elementi della sociabilità e del suo
sviluppo sul terreno del confronto politico. Significativi appaiono i contrasti tra la trama auto-
organizzata dal basso, orizzontale e tendenzialmente “democratica”, e la gerarchia, verticale ed
etero-organizzante. Quando promana dall’alto, dall’autorità ecclesiastica o dall’iniziativa degli
ordini, il processo appare tendente ad un inquadramento religioso “ortodosso” del laicato, con lo
scopo di renderlo «fattore attivo di un processo di acculturazione nello stesso tempo religioso e
sociale»9.
Così, anche nel caso di Messina, la mira appare quella di inserire le confraternite nel sistema
istituzionale diocesano10.
La diffusione delle compagnie religiose genera una serie di tensioni sociali già in epoca pre-
tridentina. A maggior ragione il nervosismo aumenta nel tempo della Controriforma: si levano
contrasti giurisdizionali con parrocchie, ordini religiosi, vertici ecclesiastici, autorità locali e sovra-
locali. L’episodio dell’abbattimento della chiesa della confraternita dei marinai è il culmine di un
conflitto, che in questo caso si determina nel fattore “spaziale”, ma che passa anche attraverso i
materiali devozionali (il dipinto della Madonna di Porto Salvo, la “machina” del Vascelluzzo, gli

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ex-voto) e le maniere di espressione del culto (processione della propria Patrona, partecipazione alla
cerimonia del Corpus Domini e alle altre più solenni processioni cittadine). Ma sono proprio questi i
fattori all’origine della religiosità di gruppo, di “mestiere”, che avevano portato la confraternita dei
marinai a divenire punto di riferimento nel quadro municipale della cultura e della spiritualità
popolare. A queste “sostanze” non si può rinunciare, pena la perdita dell’identità confraternale11,
un’identità che sarà sentita, pure in contesti diversi, ancora nel XXI (come mostra l’apprezzabile
fotografia di Giulio Conti riportata nella figura 3).
E, visto che i dissapori tra la confraternita dei marinai e i Francescani Riformati si erano
trascinati dal XVII secolo al XVIII, dopo il 1743, anno della grande ultima peste, i confrati
costruiscono una nuova chiesa più a monte, nel popolare borgo di S. Leone. Qui si trasferiscono
insieme al loro diletto Vascelluzzo, dove si mantengono anche dopo la ricostruzione successiva al
terremoto del 1908.
Lo scontro della loro trama auto-organizzata e orizzontale con le gerarchie verticali e gli
ordinamenti controriformistici era inevitabile.
Il caso della confraternita dei marinai si inserisce a pieno titolo nella ripresa post-tridentina
delle manifestazioni di religiosità popolare, con la peculiarità cittadina del culto mariano. Varie
sono le confraternite dedicate alla Madonna, prima fra tutte quella del Rosario, e varie sono le feste
e le celebrazioni, attraverso cui i gruppi dirigenti tendono a rafforzare certe forme di consenso dei
ceti popolari e disagiati all’interno delle mura cittadine. È altresì verificabile nel caso messinese
quanto Edoardo Grendi aveva già affermato per le compagnie genovesi: culti e liturgie non sono
soltanto creazione delle gerarchie ecclesiastiche, in quanto essi possono vivere solo se c’è
l’adesione dei fedeli a garantire appunto «una progressiva affermazione del culto»12.
Insomma «si è costretti a inseguire le trame articolate e sfuggenti degli intrecci e dei rapporti
di circolarità fra livelli diversi di cultura e nel cuore delle reti di relazione sociale per rendere
compiutamente conto, sul piano dell’indagine analitica, dei fenomeni di interscambio che dominano
lo scenario della costruzione collettiva della cultura». Nella pluralità che forma la comunità,
individui e gruppi di fisionomia diversa si trovano a spartire o a contendersi usi, spazi e punti di
aggregazione (parrocchie, confraternite, ordini religiosi) fortemente contigui. Il quadro è quello dei
limiti della penetrazione dell’insegnamento ufficiale della Chiesa organizzata e del fenomeno
dell’ondata di cristianizzazione o “acculturazione” che era stata sprigionata dal Concilio di Trento
(monachesimo benedettino, ordini mendicanti, Controriforma), con tutto ciò che di drammatico,
autoritario, o al contrario propulsivo, ha comportato.
Applicando al caso della confraternita messinese dei marinai quanto tende a rimarcare la
scuola storica francese, l’”acculturazione” è realmente “demolitrice”: la polvere dell’abbattimento
della chiesa di Porto Salvo, in quel mattino del 1622, lo ricordava a tutti. Ma, allo stesso tempo, da
parte della Chiesa, peraltro fortemente radicata nella vita della comunità locale, e dell’ordine
francescano restava in piedi il messaggio, fissato negli articoli del Credo e nei testi delle orazioni
d’uso più comune, di un modello di mentalità, di coscienza morale, di relazioni umane sollecitate a
rendersi fraterne all’interno dello spazio del mondo13.
Risulta evidente nella Messina barocca come la vita della gente sia scandita dalle feste
religiose, riferimenti temporali e impegni che trovano il loro fulcro nel culto programmato dalla
Chiesa. Spesso però questa si deve impegnare a recuperare mediazioni con le tradizioni antecedenti
il Concilio di Trento e con le richieste che pervengono “dal basso”, di conservazione degli
appuntamenti festivi tradizionali. In ogni caso, le manifestazioni religiose appaiono inquadrate in un
cerimoniale che ritma e guida l’espressione dei cittadini. Si snoda così un’ampia vicenda della pietà
in città, in cui un ruolo importante viene giocato da confraternite e congregazioni.
Fra le iniziative, pubbliche e di stampo religioso, con cui si cerca di andar incontro alle gravi
contraddizioni della società locale, si segnala l’operato delle confraternite di artigiani, «intese dagli
aderenti come una sorta di assicurazione contro gli incerti del mestiere. Confraternite che in un
ambiente come quello messinese, caratterizzato da una massiccia presenza di lavoratori di ogni tipo,
assumevano una funzione centrale»14.

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Si trattava di far fronte a un quotidiano che spesso toccava il limite della sopravvivenza: le
opere caritative hanno un fine umanitario, persino quando si tratta di condannati a morte. I
volontari, laici, di una confraternita si impegnano a curare la preparazione e a lenire le sofferenze di
chi era stato sottoposto a giudizio, assicurandone anche la sepoltura in terra consacrata. Interveniva
sul piano dottrinale la distinzione tra corpo e anima: il corpo paga i peccati di comportamento,
mentre l'anima, purificata, può anche aspirare alla vita eterna.
Il proposito caritatevole è evidente, ma non si tratta solo di questo. Il consenso politico e il
controllo sociale erano l’altro corno dell’operato confraternale, peraltro forma in qualche modo
istituzionalizzata della più spontanea religiosità popolare; non a caso quest’associazionismo laicale
è potentemente “infiltrato” dai nobili e dai ricchi.
Emblematica è la partecipazione alla cerimonia della festa della Vergine della Lettera
organizzata dalla confraternita della Candelora «sotto titolo de’ Verdi», la congregazione più antica
e fra le più nobili della città. «Venivano anticamente in questa solennità in Processione le Fanciulle
dell’antico Ospedale, chiamato de’ Trovatelli, che stava sotto la cura della Confraternità della
Candelora, e v’andavano con l’insegne, e vestimenti verdi, à rendere in quel giorno publicamente
omaggio à Nostra Signora»15. Dopo il 1542, anno dell’unificazione di tutti gli ospedali cittadini,
rimane eguale la partecipazione alla festa solenne, anche se le fanciulle escono dall’Ospedale
Grande, che nel frattempo ha assorbito, sotto la guida degli aristocratici, pure il ricovero dei
trovatelli.
La cittadella dei “potentiores” si pone il problema dell’ordine pubblico, sentendosi quasi
assediata, perché, oltre i “minores” incardinati in qualche modo alla struttura sociale urbana, si
presenta sulla scena cinque-seicentesca una turba di poveri e bisognosi, di marginali della società, di
uomini e donne in preda alle più diverse malattie, un’umanità di storpi e paralitici, di diseredati,
preda delle epidemie, corpi in balìa della natura avversa. Se fiumane di queste genti si dirigono ai
santuari per chiedere grazia e corrono dietro la fama d’un miracolo, non mancano le affluenze verso
una delinquenza radicale, difficile da combattere, da vigilare, da cui difendersi.
Tutto questo rende comprensibile la diffusione delle confraternite e la loro presenza
capillare in ogni angolo della città. Sono concrete le opere, ancor più concrete le fabbriche inserite
nella trama urbana. Ma per poterle “leggere” sapientemente occorrerebbe essere un Edoardo
Grendi, che purtroppo non c’è più, anche se ha lasciato accorti insegnamenti su come rapportare la
localizzazione delle confraternite entro le mura di una città e il loro dispositivo sociale. Si è
interpellato a fondo allora un messinese del Seicento, Placido Samperi, pensandolo fonte primaria
sulla vicenda della confraternita dei marinai.
La sua impresa di raccolta e stesura di tutte le notizie concernenti le immagini della Vergine
Maria sparse per la città è conclusa il 26 settembre del 1641, pronta per essere pubblicata tre anni
dopo. Samperi è messinese ed è gesuita e lavora in modo multiforme alla sua opera; lo dice
esplicitamente negli “Avvisi al pio lettore” alla pagina III dell’introduzione: «Io dopò una esquisita
diligenza, dopò la lettura di non pochi Libri, così stampati, come scritti à penna degli Archivi, che
hò potuto havere nelle mani, quanto hò trovato di notabile, quanto hò risaputo da persone gravi, e
degne di fede, hò fedelmente distribuito in questa Opera à ciascuna Imagine, e Tempio quel che è
suo». Correttamente l’autore può essere preso in considerazione come un’importante fonte primaria,
ma al contempo ci si svela come fonte ambiguamente diretta e indiretta: collaziona nei suoi due
tomi ragguagli diversi, dalle carte d’archivio ai libri, non disdegnando la storia orale.
In più, certamente ricorre alla sua memoria personale di quanto avvenne in quella notte del
1622, quando fu atterrata la chiesa dei marinai. E lo riferisce; avrebbe potuto ometterlo. È fede
degno. Ma riusciremo un giorno a sentire ancor più ravvicinata la voce dei marinai messinesi o è
impresa da lasciar perdere16?

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Figura 1 Il gonfalone della Confraternita dei Marinai

8
Figura 2 Il Vascelluzzo

9
Figura 3 Un confrate regge il gonfalone della Confraternita dei Marinai

1
P. Samperi, Iconologia della gloriosa Vergine madre di Dio Maria protettrice di Messina,
introduzione di G. Lipari, E. Pispisa, G. Molonia, Intilla, Messina 1990, p. 157.
2
P. Samperi, Iconologia… cit., p. 156.
3
P. Samperi, Iconologia… cit., p. 156; «Fù questo Breve con l’autorità Viceregia nel medesimo
anno registrato in Regno, e poi nella Corte Arcivescovale».
4
P. Samperi, Iconologia… cit., pp. 156-157.
5
A. Olivieri, Gli spazi mentali ed urbani della morte in Occidente. Alcune tipologie mediterranee,
«Ricerche di storia sociale e religiosa», n.s., 14, 1978, p. 123.
6
P. Samperi, Iconologia… cit., pp. 157-158.
7
C. Gugliuzzo, Maritime Feasts in Messina during Modern Age, paper presented at 5th
International Congress of Maritime History, session 2A Maritime Communities I, Greenwich, 23-
27 June 2008 (in forthcoming Proceedings).
8
F.M. Stabile, Lineamenti di storia e religiosità delle confraternite laicali di Palermo, in F.
Azzarello, Compagnie e confraternite religiose di Palermo. Cenni storici e documenti, Poligraf,
Palermo 1984, p. 11.
9
R. Rusconi, Confraternite, compagnie, devozioni, in Storia d’Italia. Annali, 9, La Chiesa e il
potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Einaudi, Torino 1986, pp. 471-509.
10
Si vedano le considerazioni di D. Ligresti, Sicilia aperta (secoli XV-XVII). Mobilità di uomini e
idee, Mediterranea, Palermo 2006, pp. 186-187.
11
Rilevanti sono le analogie con la storia confraternale di un’altra importante città portuale, quale
Genova, per cui si veda E. Grendi, Morfologia e dinamica della vita associativa urbana. Le

10
confraternite a Genova fra i secoli XVI e XVIII, «Atti della Società Ligure di Storia Patria»,
LXXIX, 1965, pp. 303-304.
12
E. Grendi, Le compagnie del SS. Sacramento a Genova, «Annali della Facoltà di
Giurisprudenza», Milano 1964.
13
D. Zardin, La "religione popolare": interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca,
«Memorandum», 2001, 1, pp. 41-60, in
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos01/zardin01.htm.
14
E. Pispisa, L’Iconologia specchio di Messina barocca, in P. Samperi, Iconologia… cit., pp. LXX,
LXXIX e LXXXIII.
15
P. Samperi, Iconologia… cit., p. 50.
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Purtroppo finora non ha dato alcun esito la “esquisita” ricerca dell’archivio della Confraternita
dei Marinai di Messina.

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