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IV

> Il disegno di Manuel De Carli dal romanzo a fumetti Il ribelle di Genova (Becco Giallo, 2011)

sabato 16 | luglio 2011 |

sabato 16 | luglio 2011 |

> Le foto di sciclipress.com e di Riccardo Navone sono tratte da G8 Graffiti (Via del Campo, 2011)

www.liberazione.it

spirito di genova
ta di mobilitazione, di conflitto sociale, di disobbedienza civile e di buone pratiche, fino e oltre il 15 febbraio del 2003. Spendemmo notti insonni a trovare la formuletta che ci definiva pacifici e nonviolenti. Era inutile cercare di convincerci: davamo un significato diverso alle parole. Per alcuni di noi la nonviolenza (senza trattino) un approccio attivo al conflitto, che include anche la pratica della disobbedienza civile. Per altri significava tuttaltro, passivit e rassegnazione. Il linguaggio una cosa seria, il frutto di culture e esperienze decennali. Potevamo dividerci su questo. Ma poich eravamo tutti daccordo che non avremmo fatto male a Genova n alle cose n alle persone, trovammo il modo per dirlo, ciascuno accettando quelli che ritenevamo i limiti dellaltro. E cos non ci divisero fra buoni e cattivi. Cos ci difendemmo lun laltro, e ancora sappiamo farlo quando serve. Non solo la tragedia che insieme abbiamo vissuto, e il peso della morte di Carlo che ci pesa sulle spalle, a rendere forte il filo che ci lega, e che non ci ha mai fatto anche nei momenti difficili perdere il rispetto e la stima. E il metodo che scegliemmo, e che la politica ha dimostrato di non saper proprio raccogliere. Lo hanno proseguito invece i movimenti nuovi. Guarda caso quelli che vincono o che meglio resistono, come lacqua e la Val di Susa. * Arci nazionale

referendaria il frutto migliore di La vittoria E insegna chelalternativa sta nellaquei giorni genovesi. partecipazione

ci chiamavamo cos. Perch eravamo Patto di lavoro molto di pi di un coordinamento

Quella capacit visionaria s fatta acqua. Per tutti


Marco Bersani

Ci difendemmo lun laltro e ancora sappiamo farlo


Raffella Bolini*

Dieci anni dopo Genova, fin troppo facile dire che i movimenti avevano ragione. Quando, nel luglio 2001, centinaia di migliaia di persone gridarono a Genova che un altro mondo era possibile, si inserivano nella rottura del tab liberista che aveva dominato il trentennio di fine 900 e si intrecciavano con le lotte che a livello mondiale dal Chiapas messicano a Seattle, dalla guerra dellacqua di Cochabamba al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre - avevano deciso, dopo anni di accumulazione di analisi e proposte alternative, di porre il tema dellillegittimit a decidere dei grandi istituti finanziari interna-

Delusi da Prodi, migliaia di attivisti tornarono a casa per tradurre sui territori il bisogno di cambiamento. La stagione dei nuovi conflitti
zionali, dei poteri economici e militari e dei governi loro asserviti. Una nuova generazione era scesa in campo e metteva in discussione un modello che avrebbe portato alla catastrofe economica e sociale, alla devastazione ambientale e alla sottrazione di diritti e democrazia. Fu quella capacit visionaria e il

consenso sociale costruito intorno ad essa a spaventare il potere e a farlo agire con la pi brutale repressione. Quel movimento e quella generazione, appena affacciatisi nello spazio pubblico della democrazia, furono costretti a perdere immediatamente la propria innocenza dietro lomicidio di un ragazzo, le violenze di piazza, il massacro della scuola Diaz e le torture della caserma di Bolzaneto. Ma intanto quel movimento aveva iniziato a seminare consapevolezza di come il mondo fosse mutato dentro una globalizzazione dei mercati che privava dei diritti le persone e dentro uno scenario di guerra globale che intendeva disciplinare il pianeta per consentirne il diretto saccheggio. In quella prima fase, il movimento dei movimenti riusc a rendere chiara la nuova dislocazione dei poteri, previde il futuro crollo finanziario e la crisi ecologico-climatica, pose un enorme problema di democrazia. Ma fu anche un movimento ancora quasi tutto di opinione, capace di emergere dentro manifestazioni oceaniche, ma ancora incapace di tradurre nel linguaggio di tutti i giorni, nei territori e nei posti di lavoro, le conseguenze e gli effetti di quel modello e le proposte alternative elaborate. Con linvasione dellIrak nel marzo 2003, quel movimento speriment la sconfitta di quella prima fase, insieme alla propria insufficienza ad affrontare la relazione con la politica istituzionale sulle basi di una matura autonomia, come il disastroso esito del successivo governo Prodi render palese. Ma con la chiusura di quella prima

fase, se ne apr una seconda: migliaia di attivisti tornarono a casa per provare esattamente a tradurre nelle lotte territoriali lo stesso bisogno di cambiamento e di contrasto alla dittatura dei mercati che metteva lintera vita delle persone a valorizzazione finanziaria. Si apr cos la stagione dei conflitti ambientali, dalle lotte contro la privatizzazione dellacqua a quelle contro le grandi opere, da quelle contro le centrali energivore e inquinanti a quelle contro gli inceneritori, determinando un proliferare di conflittualit territoriali, pur se fra loro ancora molto frammentate, capaci di costruire il nuovo linguaggio dei beni comuni, della loro riappropriazione sociale, della loro gestione partecipativa. Le lotte dei metalmeccanici contro il modello Marchionne, i movimenti degli studenti e delle donne sono tutte esperienze che, nella partecipazione popolare diretta, indicano i possibili passi dellalternativa. Ma soprattutto lesperien-

za del movimento per lacqua quella che, forse per prima, riesce a riconnettere la fortissima reticolarit territoriale dentro una grande vertenza nazionale per la ripubblicizzazione dellacqua, capace di imporsi allagenda politica e di vincere, dopo una straordinaria campagna di partecipazione dal basso, i referendum dello scorso giugno. Dieci anni dopo Genova, le politiche liberiste sono state per la prima volta sconfitte da un voto democratico e popolare e la democrazia rappresentativa divenuta nel tempo luogo degli interessi particolaristici e di clan - stata soppiantata da una esperienza di partecipazione diretta senza precedenti. Il voto referendario di giugno il frutto migliore dei semi piantati dieci anni fa a Genova. Ora occorre moltiplicarne la quantit e la qualit. Perch il futuro ci appartiene e non pu che essere fuori da un modello disumano e insostenibile.

Il nome Genoa Social Forum lo scegliemmo insieme per dire che eravamo nodo della rete globale per il cambiamento di Porto Alegre. Ma allinizio ci chiamavamo Patto di Lavoro. E mai nome fu pi azzeccato. Fu davvero un patto, molto di pi che un coordinamento, molto pi che un comitato promotore. I patti sono impegno comune a realizzare uno scopo importante, in nome del quale ognuno disposto a rinunciare a parti della propria sovranit per dare spazio a quella degli altri, in un processo alla cui fine ciascuno esce diverso da come entrato. Eravamo differenti, e molto. Venivamo da storie lontane persino geograficamente: chi da Sarajevo, chi dal Chiapas, chi dai campi di Villa Literno, chi dalle periferie degradate delle citt, e perfino dai conventi. Venivamo da un secolo in cui lo sport preferito a sinistra era stato salvo rare eccezioni - dividersi ed azzannarsi lun laltro, considerare come il peggior nemico colui che ti pi vicino. Vivevamo in un momento storico in cui il miraggio della globalizzazione aveva conquistato menti e cuori, a destra e a sinistra, e in cui era considerato ovvio che libero mercato ci avrebbe permesso di invadere con miliardi di auto Fiat le strade cinesi. E difficile immaginare oggi quanto fosse duro solo dieci anni fa mettersi contro questa illu-

sione, e quanto quella scelta condann tanti e tante alla emarginazione dalle correnti mainstream della politica e della cultura. Il patto comunque lo facemmo, forse fu cos forte proprio perch era cos difficile, e di lavoro ce ne fu tanto da fare. Non tanto per costruire le giornate di Genova, e la mobilitazione nel paese. Il lavoro pi grande fu quello, durato quindici mesi, teso a creare e mantenere

I movimenti non spuntano da soli,neppure i funghi nascono dal niente. E il metodo che scegliemmo lo hanno proseguito i movimenti nuovi

pianeta. Mettersi al servizio dei grandi movimenti unitari, aiutare il nascere e il permanere dello spazio pubblico dove piccoli e grandi possano muoversi, crescere, incontrarsi e produrre cambiamento andare in controtendenza al nostro codice genetico sbagliato. Vuol dire usare il potere che ciascuno possiede non per affermarsi sugli altri ma per fare spazio, e dello spazio avere cura. Vuol dire abbassare la voce perch quelle degli altri possano essere sentite, poich nessuno rimane in un luogo dove non ha ascolto. Per noi pacifisti, vuol dire realizzare quello che diceva Capitini: che il vero nonviolento colui che sa trovare la ragione nel pi lontano da s. Solo grazie a quel patto e a quel lavoro il Genoa Social Forum fu capace di passare londata immane di violenza che lo Stato ci gett addosso nel luglio del 2001, di non cadere nel trappolone che ci era stato preparato, di creare invece una straordinaria fase di partecipazione fat-

le condizioni affinch il patto fosse saldo, solido, non si rompesse di fronte alle difficolt, riuscisse ad includere chiunque, fino allultimo giorno. Molti, troppi, pensano che i movimenti spuntino la mattina da soli, cos, come i funghi. Ma neppure i funghi nascono dal niente. Hanno

bisogno di una certa terra, di una certa luce, di una certa temperatura, della combinazione di tanti elementi che solo la meraviglia della natura in grado di assicurare. Noi che siamo umani, tendenzialmente gli equilibri tendiamo a sfasciarli, come dimostra laccanimento con cui stiamo ammazzando il

La battaglia delle vittime di malapolizia per uscire dallinvisibilit

Negli scontri lo specchio di una crisi di legittimit: un governo eletto con una legge porcata contro chi reclama autodeterminazione

Ciascuno per s saremo sempre il solito Paese dei comitati


Serve una voce collettiva che insieme alla memoria continui a fare denuncia senza distinguere gli innocenti da chi, invece, se la sarebbe andata a cercare
gennaio sono a Milano, allUniversit Bocconi, dove si ricorda uno studente modello, a cui la Polizia aveva sparato alla nuca; si chiamava Roberto Franceschi. E di nuovo a febbraio per un giovane colpito a morte, per sbaglio, da un agente fuori servizio; si chiamava Luca Rossi. E ancora a marzo, quando conosco la mamma di Fausto Tinelli e la sorella di Lorenzo Iannucci. Prima viene Bologna, con il padre e gli amici di uno studente mirato alla schiena da un carabiniere, e dicono che in Italia non c la pena di morte; si chiamava Francesco Lorusso. A Pisa arrivo in una bella giornata di maggio, in cui si ricorda un giovane figlio di nessuno ridotto in fin di vita dalle botte di agenti in divisa ai margini di una manifestazione e lasciato morire senza cure in una cella; si chiamava Franco Serantini. Anche in quella piazza conosco persone straordinarie, come Teresa Mattei, compagni e compagne che avrei incontrato molte altre volte nel corso di questi anni alle manifestazioni per la pace, a dibattiti e convegni Insomma, il calendario non mi basta. Manlio Milani, presidente dellAssociazione Vittime di Piazza della Loggia, a Brescia, osserva che il nostro il Paese dei Comitati. Cos penso di collegare in rete tutte le realt che ancora fanno memoria e mi metto al lavoro; al primo incontro qualcuno dice che non si possono confondere le vittime innocenti con quelle che, in un modo o nellaltro, se la sono andata a cercare. Daltra parte, c anche chi dice che non si possono confondere le vittime consapevoli con quelle morte per caso continueremo ad essere un Paese di Comitati. Riesco tuttavia ad arrivare ad un accordo, confermato in incontri successivi in diverse citt: la creazione di un sito comune, che verr tenuto in vita dal lavoro volontario di alcune persone generose; una banca dati per chi vuole sapere, per chi vuole informarsi; una voce che insieme alla memoria continui a fare denuncia. Da parte di alcune nostre realt esiste la volont di costruire insieme iniziative che contribuiscono indubbiamente a rendere pi visibili sia i fatti che le reti in cui sono stati ingabbiati. Nel frattempo, nel mio calendario si aggiungono altre date, altri nomi di giovani: qualcuno pi noto allopinione pubblica, qualcuno quasi sconosciuto. Per non parlare degli invisibili in assoluto, quei migranti respinti in mare, scomparsi nelle campagne o nei cantieri, nel buio di una cella, vittime di leggi incivili, vittime di Stato, come i nostri figli. Non sapremo mai neppure come si chiamavano.

Genova-Chiomonte: il filo che le lega la democrazia


Carlo Gubitosa

Haidi Giuliani

E davvero difficile riuscire a raccontare in poche parole la storia della rete degli invisibili. Quando cominciata? Forse, per me, una cinquantina di anni fa, quando ho partecipato per la prima volta ad una manifestazione, indetta in seguito alluccisione di un ragazzo, schiacciato contro un muro da una camionetta delle forze dellordine; si chiamava Giovanni Ardizzone. O forse dopo che stato ucciso mio figlio, dopo aver letto sui giornali che lassassino era lui, che voleva violentare una povera camionetta indifesa. Pi guardavo le fotografie, i filmati, le tante testimonianze, pi pensavo: La verit non si pu na-

scondere. Non si potr ottenere giustizia ma la verit, quella impossibile negarla. Avevo dimenticato il passato: le tante vittime di Stato, le stragi, i depistaggi, le trame oscure. Era gi successo tutto, avevano gi ucciso i nostri figli tante altre volte: da Portella della Ginestra a piazza Fontana, dalla stazione di Bologna a oggi, non solo sono stati violati i pi elementari diritti costituzionali ma, in seguito, si taciuto, nascosto, imbrogliato; non si fatta verit. Sapevo tutto ma avevo dimenticato. E stato allora che ho lasciato piazza Alimonda per andare a cercare quegli altri figli, per mettere insieme le loro storie, tutte diverse, ma unite tutte dal filo della non verit, della mancata giustizia. A

Il ricordo del G8 di Genova si fatto presente il 3 luglio scorso davanti alla centrale elettrica di Chiomonte, in uno scontro dalle dinamiche sono chiare: un gruppo di persone voleva invadere un territorio presidiato dichiarato zona rossa, mentre un altro gruppo voleva rispettare gli ordini ricevuti pi o meno legittimamente e tenere gli invasori a distanza, disperdendoli con lacrimogeni e idranti. Ma le similitudini con gli scontri di Genova del 2001 attorno alla Zona rossa finiscono qui. A Genova sono state lanciate molotov, alla centrale di Chiomonte non ne ho viste, e men che meno ho visto lanciare le biglie, tondini di ferro, pietre, bottiglie piene di ammoniaca e bombe carta imbottite di bulloni menzionati nei comunicati digos. Magari li avranno lanciati altrove. So solo che allo sbarramento della centrale elettrica non ho visto lanciare nessuno di questi oggetti. Soltanto le

pietre raccolte sul greto del fiume. A Genova sono state distrutte macchine pi o meno di lusso, bancomat e altri simboli del capitale, a Chiomonte, per quanto ne so, le uniche cose danneggiate sono state le barriere difensive e non ho visto nemmeno una scritta con lo spray sui muri, neppure una cartaccia gettata per terra. Mentre a Genova i gruppi pacifici sono stati distanti anche fisicamente dalla protesta violenta, nei prati di Chiomonte dietro i black bloc cera un popolo fatto di anziani, cittadini indignati, e normalissimi attivisti, quelli che ci fanno tanto comodo quando lavorano gratis nelle ambulanze e nelle associazioni, e che qualcuno vorrebbe etichettare come facinorosi quando pretendono di ragionare sulle politiche di sviluppo del loro territorio. Da Genova a Susa il salto di qualit della protesta stato in positivo, e lautorit morale per condannare i lanci di sassi non ce lhanno di certo i politici che hanno lanciato bombe su Afghanistan e

Iraq. Semmai dovrebbe essere lo stesso fronte della protesta a fare autocritica, per chiedersi che cosa ha attirato a Susa decine di migliaia di persone non residenti, ma comunque solidali con la popolazione. E non sono state le sassaiole. Lo scontro di Chiomonte lo specchio di una crisi di legittimit: da una parte c un governo eletto con una legge porcata e un parlamento cooptato dalle segreterie di partito che si proclamano legittimi esecutori della volont popolare.

Il fronte pi caldo non sono le barricate ma i partiti di opposizione vera o presunta, che proprio nei prossimi giorni voteranno il programma di governo del comune di Torino

Dallaltra c un popolo che considera legittimo esercitare il proprio diritto allautodeterminazione e illegittimo qualunque potere che voglia impedire alla valle di decidere da sola il proprio destino.Di fronte a questa crisi di legittimit del potere politico, stavolta non solo le teste pi calde dei movimenti ma anche molta gente comune abbia messo in discussione uno dei principi su cui si basa la convivenza civile: il monopolio delluso della forza riconosciuto alle forze di polizia. Sono in molti a pensare che chi agisce per il recupero di quei territori a beneficio di tutti abbia una legittimazione popolare maggiore di quella che si dovrebbe riconoscere a chi difende militarmente terre occupate su ordine del governo, per tutelare gli interessi delle imprese legate alla Tav. Chi ha fatto considerazioni simili, augurandosi che i territori fossero liberati dai presidi polizieschi, va espulso dufficio dalla lista delle persone perbene? Cos facendo non diminuiranno di certo le tensioni sociali. Chi dovrebbe intervenire responsabilmente per risolvere questo conflitto? Un gruppo di ragazzi incazzati per una situazione che vivono come un abuso? Oppure i politici che potrebbero far cessare dincanto gli

scontri semplicemente appoggiando un referendum consultivo per sottomettersi alla volont del popolo sovrano, oppure inventandosi modi pi onesti, utili e ragionevoli di utilizzare il denaro pubblico e i fondi europei? Quello che viene descritto come un problema di ordine pubblico locale, il problema collettivo di una democrazia in crisi. E un altro filo rosso che unisce Genova a Chiomonte lassenza irresponsabile della dirigenza Pd, che prende le distanze dai cittadini della Val Susa e li abbandona al proprio destino in nome della responsabilit politica. Proprio come fecero irresponsabilmente i Ds nel 2001, ritirando la loro adesione alla manifestazione del 21 luglio. Il fronte nemico pi caldo in questo conflitto non sono le barricate riempite di uomini in divisa, ma i partiti di opposizione vera o presunta, che proprio nei prossimi giorni voteranno il programma di governo del comune di Torino per i prossimi anni. Il rischio che Fassino, dopo aver preso i voti dei No-Tav, riesca a trascinare anche la sinistra vendoliana e dipietrista in un programma favorevole alle grandi Opere. Ma poi non lamentiamoci se le piazze diventeranno pi rabbiose.

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