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VINCENZO GUEGLIO

VERSO LA CUNA DEL MONDO,


IL ROMANZO DI GUIDOGOZZANO

0. Un sonetto di De Heredia
Morne Ville, jadis reine des Océans!
Aujourd'hui le requin poursuit en paix les scombres
Et le nuage errant allonge seul des ombres
Sur le rade où roulaient les galions géants.

Depuis Drake et l'assaut des Anglais mécréants,


Tes murs désemparés croulent en noirs décombres
Et, comme un glorieux collier de perles sombres,
Des boulets de Pointis montrent les trous béants.

Entre le ciel qui brûle et la mer qui moutonne,


Au somnolent soleil d'un midi monotone,
Tu songes, ô Guerrière, aux vieux Conquistadors;

Et dans l'énervement des nuits chaudes et calmes,


Berçant la gloire éteinte, ô Cité, tu t'endors
Sous les palmiers, au long frémissement des palmes.1

1 Il sonetto di José-Maria De Heredia (1842-1905) si intitola À une ville morte, ed è


l'ultimo del ciclo «Les Conquérants» della raccolta di 120 sonetti Les Trophées [I
trofei] (Paris, Lemerre, 1835, p. 118); dedicato a Cartagena de las Indias, una città
caraibica (Colombia) fondata da un Pedro de Heredia:
«Cupa città, già regina degli oceani! / oggi il pescecane insegue tranquillo gli
sgombri / e la nuvolaglia errante allunga solo ombre / sulla rada ove rollavano i
galeoni giganti. // Dopo Drake e l'assalto degl'Inglesi miscredenti / i tuoi muri
disarmati crollano in nere macerie / e, come una gloriosa collana di perle scure, /
mostrano i buchi aperti dalle cannonate di Pointis. // Fra il cielo incandescente e il
mare abbagliante, / nel sole sonnolento d'un meriggio monotono, / tu sogni, o
Guerriera, i vecchi Conquistadors; / e nel languore delle notti calde e calme, /
Con moderata sorpresa, scorrendo le «lettere dall'India» di Guido
Gozzano, raccolte nel volume postumo Verso la cuna del mondo
(1917), ci imbattiamo in questo sonetto di De Heredia; l'ammirazione
per il quale Gozzano attesta vigorosamente:2 «Più che nel tronfio
accademico poema di Camoens, Goa “la Dourada” è chiusa in questo
miracolo di quattordici versi!»
Questo miracolo di quattordici versi attira la nostra attenzione.
Intanto l’inconsueta ampiezza del reperto poetico suscita qualche
stupore in noi che, fermi ai nostri schemi, eravamo pronti ad
accogliere la citazione di un paio di versi e veniamo stranamente
turbati e quasi insospettiti da un intero sonetto; e troviamo un altro
paio di motivi di perplessità nella filologia e, diciamo così, nella
storia effettuale del viaggio: i due fatti – banali – sono questi: il
sonetto che descrive così perfettamente Goa è stato scritto per una
città morta dei Carabi, all’altro capo del mondo; e Gozzano, a Goa,
non c’è mai stato.
Di colpo, questo sonetto si pianta nella pagina come una bandiera.
Sbaglieremo; ma abbiamo la sensazione che si tratti di un segno che
apporta senso e soprattutto determina un’atmosfera; spiccatamente
gozzaniana. Una chiave di lettura. Una sfida, forse.
Una traccia, comunque; un punto di riferimento utile forse per
orientarci forse per disorientarci nel viaggio che vogliamo
intraprendere in questo testo curioso e affascinante, Verso la cuna
del mondo. E nel suo enigmatico autore; del quale ci hanno insegnato
a diffidare; e verso il quale invece noi proviamo una solidale
simpatia; un'amicizia nata e cresciuta nella frequentazione dei testi; e
diventata a poco a poco - o d'un tratto: non si sa mai in verità come
accadono queste cose - una robusta e sicura ammirazione.
Sappiamo che corriamo il rischio di perderci; ma sappiamo anche
che solo l'elemento di rischio muta un viaggio - o il gioco - in
avventura; in serietà insomma; e a noi piace l'avventura; la serietà;
almeno come orizzonte. Del resto, potrebbe anche darsi che la

cullando la gloria estinta, o Città, ti addormenti / sotto i palmizi, nel fremito lungo
delle palme»
2 In chiusura della corrispondenza datata «Oceano Indiano. A bordo del Pedrillo. 14
dicembre 1912» e intitolata «Goa: la Dourada»

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prospettiva di rimanere impigliati nel labirinto dell'esplorazione,
nelle vertiginose contraddizioni dell'India misteriosa - e nelle nostre -
non ci spaventi affatto.
Partiamo dunque; senza troppo preoccuparci di dove giungeremo e
se: seguiamo le labili tracce di un ambiguo viaggiatore. Unico
indizio: un miracolo di quattordici versi che descrive una città morta
in un altro oceano: l'altro, lo stesso...
Quello che cerchiamo è molto vago; cerchiamo il sospiro con cui un
poeta piemontese depose sulla tomba di una città indiana che forse
non visitò mai il sonetto che un poeta franco-cubano scrisse in
memoria di un'altra cuna perduta, di un'altra India morta. Altrove.
Cerchiamo Guido Gozzano; anzi guidogozzano. L'altro, lo stesso...
Inseguiamo una nostra privata suggestione.

1. Le forme dell’esilio
Nell’aprile del 1917 usciva a Milano, presso i Fratelli Treves editori,
un volume postumo di Guido Gozzano: Verso la cuna del mondo.
Lettere dall'India (1912-1913). Con prefazione di G. A. Borgese e il
ritratto dell'autore.
Questo volume è assai bello; e si direbbe scritto apposta per
compiere in prosa quel romanzo autobiografico che guidogozzano
aveva iniziato in versi; e interrotto; perché già nel 1910 il poeta
sentiva il rischio della maniera gozzaniana; e rifiutando per sé la
parte dell’attrice annosa che si trucca e pargoleggia; per evitare, con
lo sfiorire della sua stagione, l’onta suprema della decadenza,
risolutamente sceglieva di rinchiudersi e proteggersi in una prigione
di silenzio, consegnando agli amici, al mondo, l’immagine di sé
sempre ventenne, come in un ritratto.
A questa deliberazione di straordinaria lucidità intellettuale; a questa
scelta difficile e persino crudele, dettata non solo da spaventosa
chiaroveggenza ma da tempra sdegnosa e orgogliosa, guidogozzano,
complice la morte precocissima, tenne fede con gelido rigore.
guidogozzano sa quando dire all’attimo fermati, sei bello; vuole
candirsi nel bel momento della giovinezza; ma non è così semplice

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ingannare, vivendo, il tempo, né, quando si è condannati alla
chiaroveggenza, se stessi: guidogozzano sa che, scelga pure l’esilio,
non potrà allontanarsi da sé fino a distruggere ciò che intimamente lo
costituisce: prova dunque a volgere alla scienza la propria curiosità,
il gusto innato e insopprimibile per l’indagine e la rima: studia i
cristalli, forme ambigue in cui il minerale sembra vivere o tendere
alla vita; le farfalle, esseri lievi appartenenti non si sa se più alla
zoologia o alla botanica, a una fantasia infantile o alla filosofia; cerca
nuovi modi per esprimere il suo amore per le opere d’inchiostro
tentando un poema di epistole entomologiche; svogliatamente.

Forse lo stanco spirito moderno


altro bene non ha che rifugiarsi
in poche forme prime, interrogando,
meditando, adorando, altra salute
non ha che nella cerchia disegnata
intorno dall’assenza volontaria
...

L’assenza volontaria... L’esilio. Esilio e assenza interiori, certo; ma


perché non sostanziarli di fisica distanza?
Da tanto tempo i medici gli hanno ordinato un viaggio; un viaggio
per fuggire altro viaggio; ed egli non l’ha mai compiuto; l’aveva
annunciato alla signorina Felicita; ma poi non se n’era fatto nulla; un
viaggio, compierlo, non compierlo, è tutt’uno: guidogozzano non
pensa davvero di scampare la morte, con quel viaggio; nondimeno,
adesso forse è giunta l’ora di partire; perché no? E parte, infine,
guidogozzano. Verso la cuna del mondo.

Gozzano intuisce la dimensione letteraria che potrà assumere il


viaggio: il mare... l'India... Ma non ne afferra subito le implicazioni
diciamo così metafisiche; e nemmeno pensa, se non confusamente, a
quelle artistiche.
Già anni prima, attorno al 1908, guidogozzano doveva compiere un
viaggio: alle Canarie, allora; ne aveva parlato alla signorina Felicita;
e chissà che non si sia trattato di un pretesto per interrompere un

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rapporto che per un po' gli era potuto sembrare divertente, poi era
venuto, inevitabilmente, a noia.
Una delle tante bugie dell'avvocato? Forse; eppure, guidogozzano in
qualche modo era partito; già allora: e nell'Atlantico della sua
fantasia o navigando con la matita avventurosa sull'atlante, aveva
visto e sognato l'ifola fuggitiva. La più bella.
Di quel viaggio simbolico e metafisico Gozzano oggi, sul punto di
imbarcarsi per l'India, sembra essersi completamente dimenticato.
Dimenticato a tal punto che quando pensa alle opportunità letterarie
che il viaggio all'India può offrirgli non riesce a pensare ad altro che
alla possibilità di far qualche soldo con delle corrispondenze
giornalistiche.
Vender parolette... farsi baratto e gazzettiere..?
Forse guidogozzano è morto davvero: consegnato all'ultima pagina
dei Colloqui, vive là dentro, giovane per sempre; immutabile,
nell'ambigua eternità della letteratura. Gozzano deve crederlo;
altrimenti non penserebbe di poterne fare il nostro corrispondente
dall'India.

Per l'India parte Gustavo Gozzano (così firma le lettere ai familiari);


con l'amico Garrone, ammalato di tisi anche lui.
L'India a Gustavo dice poco o nulla. Gli parla come, pressappoco,
può parlare a Garrone; come a tutti: magnificenza, scenari sontuosi
di teatro, esotica meraviglia.
Ma che cosa si può dirne? Che cosa si può scrivere di tutto questo a
un giornale?
Ah, se solo guidogozzano non fosse morto...
guidogozzano gli si agita in cuore come un rimorso.
Gustavo, già staccato il biglietto di ritorno, scrive alla sorella Erina
da Kandy-Ceylon, il 3 aprile 1912:

ai giornali [...] avevo promesso corrispondenze di tutti generi - per


avere le tessere - e non ho mandato una sola parola. Ma già non
scriverò su giornali mai più (dovessi morire di fame) e non so per
quale aberrazione mi sia deciso l'anno scorso a collaborare al
Momento. È una vergogna che pesa sulla mia coscienza letteraria e
che non mi perdonerò mai.

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Forse guidogozzano non è morto, dopotutto.
C'è una lettera dell' 8 aprile alla Amalia Guglielminetti che pare
proprio scritta da lui: «Non ti parlerò del mio viaggio attraverso
l'Egitto, l'Arabia, l'Hindostan». Gozzano con lei si firma Guido.
Accenna a luoghi in cui l'altro, Gustavo, non è mai stato...
Medita qualche verso: «poesie atroci, d'una deliziosa impudicizia»
che poi distruggerà, lasciandocene non più di un paio, tra le sparse,
che guidogozzano non reclamerà ma lascerà esistere, testimonianza
d'una possibilità non attuata: un uomo, ne ha tante; non siamo solo
carne compatta, né solo le cose che abbiamo fatto; a ogni bivio
abbiamo scartato una parte di vita possibile; ci siamo determinati
limitandoci; tutto ciò che ci è rimasto estraneo, ciò che non abbiamo
saputo o voluto essere costituisce una parte di noi non meno
importante - e tanto più vasta e vagamente fascinosa - di ciò cui ci
siamo ridotti: il mondo vertiginoso che non abbiamo potuto
esplorare, resiste e vive in noi come rimpianto e nostalgia, talvolta;
talvolta come disperazione; talvolta come orizzonte e avventura.
Le prose e le poesie sparse di guidogozzano, le non raccolte in libro,
sono il suo alone, le sue contraddizioni, la sua complessità; lo spazio
del possibile che non si è attuato.

L'India non ha nulla da dire al gazzettiere. È un muto fondale.


Bisogna, perché l'India viva, che sia guidogozzano a visitarla.
Gozzano se ne rende conto a poco a poco.
Una volta uscita dall'attualità; nella ritrovata consuetudine col
domestico paesaggio canavesano, o ligure, l'India comincia a ri-
crearsi nella fantasia: chiama al viaggio vero. A poco a poco
nell'animo del poeta si costruisce un romanzo, il grande percorso
ulissico, l'andata alle radici, il viaggio verso la cuna del mondo.
Gozzano non sa ancora che cosa accadrà. Ma guidogozzano è partito;
e comincia a inviare le sue lettere dall'India.

Un Natale a Ceylon appare su «La Lettura» del gennaio 1914.


Un voto alla Dea Tharata-Ku-Vha su «La Stampa» del 30 gennaio
1914.

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Sull'oceano di brace, «La Stampa», 16 febbraio 1914.
La torre del silenzio, «La Stampa», 31 marzo 1914.

Sembrano date innocue; e nascondono più di un mistero. Misteri


minimi s’intende; piccole cose di letteratura; ma affascinanti; e dal
loro fascino sottile ci lasceremo prendere volentieri.
Il primo mistero riguarda l’ambiguo rapporto di identità/alterità fra
Guido Gozzano e il personaggio di cui le corrispondenze dall’India
parlano come protagonista del viaggio;
Il secondo mistero riguarda il viaggio medesimo; o meglio,
naturalmente, il racconto del viaggio; a dirla in breve e brutalmente
il rapporto fra realtà e fantasia; fra racconto e verità; tra fatto e
letteratura;
Un terzo mistero s’addensa sul libro stesso che da questo viaggio è
stato tratto; Verso la cuna del mondo, appunto; libro postumo; così
simile a un romanzo e così radicalmente irriconducibile alla
sommatoria delle lettere dall’India pubblicate da Gozzano in vita,
che alcuni critici, filologi sin troppo scrupolosi, si sono posti
addirittura il problema di abolirlo, e sostituirlo con le corrispondenze
dall’India originariamente inviate dal poeta a vari giornali.3

3 Cito per tutti: GUIDO GOZZANO, Verso la cuna del mondo, a cura di GIORGIO DE
RIENZO, Mondadori, Milano, 1983; GUIDO GOZZANO, Un Natale a Ceylon e altri
racconti indiani, a cura di PIERO CUDINI, Garzanti, Milano, 1984. GUIDO GOZZANO,
Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India, a cura di ALIDA D’AQUINO CREAZZO,
Olschki, Firenze, 1984.
In verità le edizioni cui mi riferisco sono di assai diverso valore; ed è giusto rendere
merito a PIERO CUDINI per l'accuratezza e anche per l'onestà dell'edizione, che segue
correttamente sino in fondo le proprie premesse, offrendosi in tutta chiarezza come
raccolta di racconti, anzi, di «articoli di giornale». Analoga impostazione ha dato al
proprio lavoro ALIDA D’AQUINO CREAZZO che, meglio informata di tutti, ha dato dei
testi gozzaniani la migliore edizione oggi disponibile; sul piano puramente filologico
ci ha fornito informazioni preziose; ma la nostra gratitudine si ferma qui perché
anch’essa considera testi dispersi e trascura quello che a noi invece interessa di più:
il lavoro di ristrutturazione compiuto da Gozzano su quel materiale grezzo. GIORGIO
DE RIENZO, che altre volte ha fornito interessanti contributi agli studi gozzaniani, ha
dato in questo caso un'edizione sciatta e striminzita, che - senza troppo giustificarsi -
compie la scelta meno lecita: accettando il titolo e rifiutando la struttura del libro
pubblicato dai fratelli Treves nel 1917.

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2. Tra Guido Gustavo Gozzano e guidogozzano
Guido Gustavo Gozzano è partito da Genova per l'India il 16
febbraio 1912; è giunto a Bombay, primo porto indiano, il 5 marzo; è
a Kandy (Ceylon) il 14 marzo; dove rimane fino al 10 aprile; il 15
aprile riprende il piroscafo a Bombay alla volta di Genova, dove
giunge ai primi di maggio. E questo è tutto. La permanenza in India è
durata cinque settimane, quasi tutte trascorse a Ceylon. Fra marzo e
aprile 1912.
guidogozzano parte quasi un anno dopo; è a Bombay il 3 dicembre
1912; trascorre il Natale a Ceylon; il 23 febbraio 1913 lo troviamo a
Benares, sul Gange; presumibilmente non ripartirà da Bombay alla
volta dell'Italia prima dell'aprile 1913. Il suo viaggio dura quattro,
cinque mesi.
Che significa questo? Guido Gozzano mente? E perché mai?

Strane domande; strani stupori: a me soprattutto pare bizzarro trovare


chi gridi lo scandalo della menzogna perché scopre che i tempi e i
luoghi del viaggio dell’autore non corrispondono con quelli del
personaggio che nel libro dice «io» ed esibisce il medesimo nome
dell’autore.
In verità Gozzano lavorò tutta la vita - con crescente consapevolezza
- a elaborare il personaggio letterario guidogozzano: a farne un altro-
da-sé ambiguamente, inestricabilmente intrecciato con se stesso.
Seguiva le orme di Dante e Petrarca. Aveva modelli illustri, grandi
ambizioni.
Gozzano costruisce i volumi dei suoi versi con grande attenzione e
raffinata sapienza compositiva: disegna il suo personaggio: che
s'aggira nel libro e sembra come crearlo dall'interno. E inutilmente il
critico sfoggerà la propria abilità investigativa cercando e
recuperando fuori dei libri progettati e che potremmo dire canonici
altre immagini, più o meno in contrasto con quelle che il poeta ha
voluto consegnare di sé: in questo caso il mosaico non è lecito: per-
ché non è lecita la confusione fra il personaggio e l'autore; soltanto
perché guidogozzano sulla pagina dice io come se fosse Guido
Gozzano.

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Anche il personaggio che compie il gran Viaggio con Virgilio e
Beatrice dice io e si finge il proprio autore; e infinite volte gli autori
si sono fatti personaggio: e sempre la magìa della letteratura, il sottile
inganno del linguaggio e della poesia hanno fatto in modo che il let-
tore dimenticasse l'artificio e volentieri si lasciasse prendere nella
trappola lieve dell'identificazione. Ma in fondo senza uscire mai del
tutto dalla dimensione letteraria, senza perdere mai completamente
insomma la coscienza del distacco esistente fra la carta e la carne.
Con Gozzano questa coscienza è più difficile da mantenere. Se il suo
personaggio dice io, nelle poesie o nella prosa, noi gli crediamo
interamente: e accogliamo come confessione autobiografica
dell'autore ciò che il personaggio racconta di sé. Potremo magari - la
diffidenza necessaria non ci manca - dubitare di un assunto, scoprire
una menzogna: e non faremo che perfezionare in noi l'identificazione
fra l'autore e il personaggio che dice io nei libri.
E questa nostra adesione quasi inevitabile alla lettera; questa nostra
perdita di coscienza della distanza - della differenza - fra
palcoscenico e mondo; questa nostra totale immersione nel gioco
letterario è una prova in più della grandezza, che credo ancora
sottovalutata nonostante i molti attestati di stima, dell'arte di
Gozzano. Che crea verità, realtà rocciose e indubitabili. E rende la
sua opera, in apparenza così démodée, straordinariamente moderna.
Dovrei dire classica, fuori del tempo. Dico moderna però per questa
sua capacità di sviluppare la vertigine dell'ambiguità: la visione
(immagine-concetto) d'una realtà ove dissoluzione e solidità dell'io
coincidono; ove morte e vita, verità e menzogna, essere e nulla,
mondo e rappresentazione possono scambiarsi fra loro senza alcuna
conseguenza, senza che nessuno possa percepire un mutamento nelle
cose, o in sé.

A Gozzano non importa esistere fuori del libro: vuole sciogliersi


interamente in guidogozzano. Vuole che guidogozzano esca dal libro
e sia lui, il proprio creatore.
Di questo gioco - cui Gozzano apporta nuove e inedite complica-
zioni, giochi di specchi e smarrimenti tutti novecenteschi: il senso
tragico del nulla, l'aridità interiore, il disincanto cinico, la spaventosa

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chiaroveggenza che fa dell'uomo quasi una caricatura di se stesso -
egli percepisce nitidamente l'elemento drammatico, la dimensione
del rischio.
Il rischio è la maniera.
Il rischio dell'artista che fallisce è, in genere, simile a quello del
prestigiatore che lascia scoprire i propri trucchi: la rottura della
magia, dell'atmosfera meravigliosa produce il ridicolo, il grottesco.
Guido Gozzano rischia molto più della semplice disapprovazione del
pubblico: perché ha molto osato; egli ha voluto tendere la propria
arte al limite dell'impossibile; sino a cancellare la rassicurante
separazione tra il palcoscenico e il mondo esterno; ha voluto
estendere l'ardimento del gioco di specchi sino alla soglia
dell'indecidibilità; confondere totalmente e definitivamente la
finzione della pagina con la realtà; ha creato un iper-mondo in cui il
fallimento estetico, la perdita della verità artistica del personaggio
rappresentato, è perdita totale, è vera morte.
guidogozzano che cade nella maniera e diventa gozzaniano? Per un
po' può funzionare, e anzi rafforzare persino l'illusione, il gioco di
specchi, l'ironia; purché questa maniera sia governata, disciplinata
dalla coscienza del poeta; purché abbia la misura dell'arte; purché sia
stile, insomma, e non caduta di creatività, smarrimento di quelle
ragioni profonde che danno all'opera la sua vita, la coerenza interiore
che assorbe in sé ogni contraddizione e utilizza ai propri fini anche
l'errore e l'imperfezione.
Gozzano sa che la misura può colmarsi in fretta; basta una sfumatura,
come sempre nell'arte, e il fallimento accade: il personaggio diventa
falso, muore alla verità e alla vita.
Anche guidogozzano avverte il pericolo: e afferma per tempo la
propria volontà di non sopravvivere all'arte: meglio il silenzio, sì,
meglio svanire nel nulla della pagina bianca; meglio scegliere da sé,
nel pieno vigore dell'arte-giovinezza, la dolce morte che non
tradisce: e affidarsi ad essa: che interrompe magari il processo
creativo, ma non l'annulla e non lo distrugge, anzi dona vita e
giovinezza eterne.

L'immagine di me voglio che sia

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sempre ventenne, come in un ritratto;
amici miei, non mi vedrete in via,

curvo dagli anni, tremulo e disfatto!


Col mio silenzio resterò l'amico
che vi fu caro, un poco mentecatto

Con questa amara consapevolezza, con questa risoluzione si


chiudono i Colloqui: il personaggio dev'essere ucciso per farlo
vivere.
Non è così semplice. guidogozzano vive. Si svaga con la scienza:
cristalli e farfalle. Ma la scienza può appagare, semmai, non più che
a mezzo quella sua passione per l’indagine e la rima. E la rima è uno
strumento che la ragione e l’istinto sicuro dell’artista oggi
proibiscono; a meno che, ecco, la letteratura non prenda nuove
strade: forse guidogozzano, visto che letterato non può smettere
d’essere, potrebbe mettere in versi, chissà mai, la scienza e le
farfalle: scriverà delle epistole entomologiche; forse. O magari
sceneggiature per il cinema; o favole per i bambini. Per certo serve
una svolta, una novità, uscire dalla vecchia maniera, per non franare
nella decadenza, per non pargoleggiare come l’attrice annosa. Si
vedrà.
Parte per l’India, intanto.

Soltanto a poco a poco il coso con due gambe, il personaggio ch'è un


po' Totò Merumeni, un po' notaio e bôgianen, s'ambienta
nell'universo fantastico e maestoso dell'India dei Veda; e nel gran
caos del convegno del mondo, nel dramma solenne delle con-
traddizioni vitali e della essenziale identità tra vita e morte, tra nulla
e tutto, tra uno e molteplice, apporta la dissonanza ulteriore d'un
occhio estraneo e lontano che, offuscato dalla svagatezza e dal
disinteresse più ancora che dal disincanto, non riesce non si dice a
penetrare profondamente ma nemmeno a far giungere lo sguardo sul
mondo che visita: guidogozzano non riesce a trovare le origini che si
è creduto in dovere di cercare: il suo viaggio alle fonti di se stesso
non muove da un'esigenza interiore insopprimibile ma obbedisce ai

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meccanismi propri dello snobismo intellettuale: il viaggio insomma
non ha affatto i caratteri di avventura spirituale che vorrebbe esibire;
è segnato invece in maniera indelebile dal marchio stupido del
turismo culturale; e tutto l'omaggio che guidogozzano è in grado di
rendere alla civiltà che fu cuna del mondo è un gesto rituale e quasi
burocratico, l'adempimento - curioso e distratto a un tempo - di un
obbligo formale del quale sfugge ormai completamente il senso.
In verità l'andata alle radici, il pellegrinaggio sacro alla cuna del
mondo risulta essere la visita a una tomba; è il riconoscimento
notarile di una morte; la morte di un legame. Ciò che egli riscontra -
con sostanziale soddisfazione - è una frattura: un distacco radicale e
incolmabile; ed è senza alcuna mestizia che depone l'omaggio di un
fiore - o di un sonetto - sulla tomba del remotissimo antenato: che al
nipote lontano appare non soltanto straniero ma irreale e affatto
inconcepibile. La sua eredità è dispersa; svanita negli abissi del
tempo.

Individuato sommariamente lo sfondo emozionale, le Lettere


dall'India cominciano a diventare possibili. A poco a poco l'India
sorge e ingrandisce: il clima narrativo si precisa: Gozzano percepisce
finalmente la ricchezza delle possibilità che il grande viaggio può
offrirgli: e nell'imminenza della morte trova la forma che cercava:
scarta due delle prime corrispondenze inviate ai giornali; rivede e so-
prattutto rimescola, rifonde fantasticamente, in vista della nuova
forma-romanzo, il materiale già pubblicato: scrive nuovi capitoli.
Il viaggio, finalmente, si compie. Ed è uno dei libri più belli del
nostro Novecento. Libro di grande modernità, che non è mai stato
letto per ciò che è: il diario di un personaggio letterario. Una sorta di
Viaggio di Gulliver dei nostri tempi. Delle Lettres persanes parados-
sali.

Va da sé che l'esperienza di guidogozzano è profondamente diversa


da quella di Gulliver o del Persiano. Gulliver si serve di ogni paese
visitato come di un parametro per misurare il grottesco e l'ingiustizia
della civiltà e della patria; in maniera abbastanza simile l'occhio
ingenuo del Persiano a Montesquieu come quello dell'Urone a

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Voltaire servono a mettere in rilievo il grottesco e l'irrazionale che
noi, che ne facciamo parte, non possiamo più vedere.
Perché solo ciò che è fuori di noi possiamo vedere. Solo ciò che non
siamo.
guidogozzano non visita un paese sconosciuto; e non è per nulla
ingenuo. Nemmeno le due passere sbandite, che rappresentano tutto
il candore possibile nella nostra epoca, sono ingenue affatto: stupide
magari sì; ma dall'attrito della loro stupidità con l'esperienza non
scocca, come in Grulliver,4 la scintilla dell'intelligenza: passere
sbandite o poeti, noi, uomini moderni, corazzati in noi stessi, siamo
morti al mondo, irraggiungibili, impermeabili all'esperienza.
Gozzano scende all'India con un bagaglio enorme di conoscenze e
fantasie: la presa di contatto con la realtà di quel paese non aggiunge
nulla al suo sapere; né può modificarlo.
Non c'è, in realtà, alcuna presa di contatto. La discrepanza constatata
fra la propria costruzione interiore e la visione della realtà offerta dai
sensi non spalanca alcuna contraddizione, non origina né rotture né
crisi; lo stridore che si crea fra attesa ed esperienza non si traduce in
senso, in accrescimento o crisi di coscienza, ma in semplice fastidio;
delusione. La differenza non diventa metro di giudizio; resta,
semplicemente, distanza; felicemente incolmabile.
Il viaggio Verso la cuna del mondo non giunge da nessuna parte; non
copre alcuna distanza; non è nemmeno, come quello di Gulliver e del
Persiano, un viaggio simbolico. È, piuttosto, un viaggio nel simbolo.
E la realtà che viene esplorata è la realtà del simbolo.
Ma non semplifichiamo troppo. L'operazione compiuta da Gozzano è
complessa. Di grande fascino e un po' vertiginosa.
Il simbolo non è solo realtà in sé; è in rapporto con l'altra realtà fuori
di sé: che esprime, seppure misteriosamente; alla quale si aggiunge e
alla quale è comunque strettamente legato nel cortocircuito della
costruzione del senso. Il viaggio avviene nell'immaginazione, ma
non è immaginario. È finzione letteraria; ma trova nella realtà un

4 Ricordo che alla radice del nome di Gulliver c'è, in inglese, l'aggettivo gull: che
vale 'sciocco', 'sempliciotto'. Ved. Jonathan Swift, I viaggi di Grulliver a cura di V.
Gueglio, Frassinelli Milano 1999.

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conturbante riscontro: l'India esiste; e la differenza fra Gozzano e
guidogozzano è a un tempo enorme e sottilissima.
Gozzano ha percepito la medesima verità cui Proust ha elevato il
monumento della Recherche: non conta il fatto; o meglio il fatto
accade realmente quando cade dentro di noi, quando viene rivissuto
nell'emozione apportatrice non solo di senso ma di concretezza, di
verità.
Così Gozzano, se vuole compiere veramente il viaggio in India, deve
ricrearlo fantasticamente: ha bisogno della mediazione dell'arte, della
fantasia, del sentimento, dell'immaginazione; di un altro (altro dal
fatto bruto; altro da sé) che prende le forme - la vita - del perso-
naggio e del racconto; che è segno e significato.
La realtà è inerte; non è verità; non ha verità; per conquistare il
proprio senso - vita, esistenza - lo spostamento nello spazio deve
trasformarsi in evento interiore, in emozione. In segno.
Nel segno il viaggio materialmente compiuto si amplia, si trasfigura;
si trascende.
E qui cade, futile e meschina, la questione dei plagi5 e della
menzogna: la verità non coincide affatto col terreno fisicamente

5 Si sa che nelle opere di Gozzano, sia in versi sia in prosa, si trovano ampie tracce
di altri scrittori. In modo particolare questi «racconti indiani» sono largamente
debitori ai libri di Pierre Loti, L'Inde (sans les Anglais); di Paolo Mantegazza,
L'India; di Angelo de Gubernatis, Peregrinazioni indiane; di Ernest Haeckel, Le
lettere di un viaggiatore nell'India; di Italo Pizzi, L'islamismo: citazioni maliziose,
imprestiti arditi, furti schietti: i critici non ce ne hanno risparmiato uno; e noi stessi li
abbiamo visti, li abbiamo visti quasi tutti... Non per questo Gozzano ci è meno caro,
né ci appare meno originale. Anzi, direi che proprio dalla constatazione
dell'ampiezza degl'imprestiti emerge la grande forza della sua personalità, che riesce
a fondere in un tutto unitario e per giunta di elevato valore artistico materiale di
provenienza disparata e di qualità assai inferiore. Mi viene in mente la sprezzante
morale che sostanzia l'apologo «esopiano» dell'ape e del ragno elaborato da Swift:
«Tutto quindi si riduce a questo: di due esseri, è più nobile quello che, pigramente
guardandosi intorno, non riesce a vedere più lontano di quattro pollici, e con
smisurato orgoglio (che da sé solo si genera e di sé solo si alimenta) trasforma tutto
in escrementi e veleno per costruire ragnatele e intossicare mosche; oppure quello
che, spaziando per l'infinito, con lunga ricerca, molto studio, saggezza e
discernimento, accumula miele e cera?» [La battaglia dei libri (Battle of the books,
1697), in JONATHAN SWIFT, Scritti satirici e polemici, a cura di Herbert Davis,

14
calpestato, ma si costruisce: come si costruiscono le corde:
intrecciando fra loro il maggior numero di fili, esperienze: letture,
ricordi infantili, ossessioni profonde.
Chi è guidogozzano e quali siano i suoi rapporti col poeta; quale sia
la percentuale di verità e menzogna e insomma quanta parte di sé il
poeta abbia messo nel proprio personaggio e quanta di finzione, o
illusione; sono domande peggio che oziose, insensate.
L'operazione letteraria è abile: e di grande raffinatezza; la mimesi
perfettamente riuscita; abbandoniamoci pure al piacere della lettura;
come lettori abbiamo il diritto di cadere in tutte le trappole che
l'autore ci tende; abbiamo il diritto, e persino il dovere direi, di
credergli ciecamente; di farci condurre nella realtà ch'egli ha creato
per noi senz'altra preoccupazione che quella di visitarla e goderne;
ma, usciti dalla fiaba, è meglio se ci ricordiamo che siamo stati
trasportati in un'altra dimensione; che abbiamo partecipato a un
gioco; che siamo stati lettori, appunto: testimoni e complici di
un'operazione letteraria; e che non c'è verità al di fuori del testo.
La verità, è nel libro. La verità è il libro. Leggere, è entrare in
rapporto con questa verità; è avventura e scoperta.

3. Il viaggio e il suo racconto


Ecco come guidogozzano volonterosamente si prepara all'impatto
con Benares; proponendosi di abolire o almeno limitare l'influsso
delle immagini interiori sulla visione delle cose concrete:

Devo liberarmi dal ricordo di troppe descrizioni - da quelle


deliziosamente arcaiche di Marco Polo a quelle moderne e
sentimentali di Pierre Loti - per rientrare nella realtà, vedere la cosa
troppo attesa con occhi miei. Vano è scrivere, vano è leggere; una
bellezza non esiste se prima non la vedono gli occhi nostri.
L'aforisma wildiano è giusto. Ma prima ancora di saper leggere, io
sognavo di Benares. Se risalgo alle origini prime della mia memoria

Einaudi, Torino 1988, pag. 20 segg.]. Gozzano accumula miele e cera; e dei
migliori. Ci fornisce, generosamente, «i due più nobili beni, la dolcezza e la luce».

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vedo la città sacra in un'incisione napoleonica, nella stanza dei miei
giochi. E il ricordo è così chiaro che il sogno d'allora mi sembra
realtà e la realtà d'oggi mi par sogno...

«L'aforisma wildiano è giusto. Ma».


Il centro - logico, teorico, estetico pratico - di tutto il ragionamento è
questo grande «ma».
La realtà d'oggi è sogno. E non tanto perché Gozzano, a quanto pare,
a Benares non è mai stato. Questo in fondo non è che un dato di fatto
volgare, che riguarda un'altra dimensione della realtà. La realtà
d'oggi pare sogno cioè non è vera perché, diciamo così, non ha
sostanza: non è supportata dal segno - antico, carico d'emozione e di
tempo - che solo trasmette la verità e il senso: l'immagine-emozione
depositata nella memoria.
guidogozzano non potrà liberarsi delle antiche immagini che lo
costituiscono intimamente: la sua Benares, la sola autentica e
possibile, è quella che si è costruita nell'immaginazione, sulla scorta
di un'antica incisione (napoleonica?) e delle parole degli scrittori: da
Marco Polo a Pierre Loti, comprese le preoccupazioni teoriche di
Oscar Wilde.
E, di nuovo, non avrà molto senso annotare pedantemente che «in
realtà» delle descrizioni deliziosamente arcaiche di Marco Polo non
dovrebbe essere difficile liberarsi dal momento che il Veneziano non
ha mai parlato di Benares; perché non è questo che importa; al
contrario: quello che conta – artisticamente: e che cos’altro mai
dovrebbe contare per un artista e il suo lettore? – è che il nome di
Marco Polo suscita un clima, conferisce profondità al quadro: e lo
sentiamo anche noi come senza quel nome il paesaggio non avrebbe
quel colore incantato che invece ha; quel sapore d'autenticità che
(paradossalmente?) la finzione, il plagio, la menzogna apportano.

«Una bellezza non esiste se prima non la vedono gli occhi nostri».
Più dell'ombra leggera di Wilde è l'ardimentoso spirito del vescovo
Berkeley che sentiamo aleggiare.
«Ma».
E questo «ma» non rovescia niente; non è avversativo affatto. Non è
che una lieve incertezza, un sospiro: il vescovo Berkeley chiarisce se

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stesso: esse est percipi. Sì. «Ma» la percezione avviene nella mente:
gli occhi che vedono sono occhi interiori.

Gozzano sente, come Proust, che la realtà è inafferrabile e


definitivamente incomprensibile: a meno che non cessi d'essere
realtà esterna; a meno che non entri a far parte di noi: come pensiero,
ricordo, inconscio, emozione, poesia. Linguaggio. Sicché tutta la
realtà si percepisce ed esiste solo in quanto simbolo, parola,
emozione, sogno.
Non si tratta di tradurre in simboli la realtà - operazione impossibile,
che solo i letterati più sciocchi credono di attuare -: è la realtà che si
manifesta in simboli; e il sistema di simboli in cui la realtà viene
percepita trasfigura e trascende la realtà: e nel contempo le assegna
quel senso, quella forma e quella verità - quella bellezza, forse - che
mancano alla cosa in sé e in qualche modo la ricostruiscono: nella
finzione e nell'arbitrio dell'arte: che astraendo e allontanandosi
indefinitamente dalla fisicità riesce a giungere, paradossalmente, co-
me la matematica, al cuore della verità.
Prendiamo il mare, ad esempio; il mare che unisce e separa; solcato
dalle rotte intricate delle grandi navi operose come una pagina dai
segni avventurosi della scrittura.

3.1. Il mare. Embarquement pur Cythère...


Ad apertura di libro un'ambigua atmosfera ci avvolge. La sontuosa
magnificenza dell'India ha una grandiosità da supermercato. Ci
addentriamo esitanti in enormi e opprimenti sale di pattinaggio;
sperduti in giganteschi cinematografi sussultiamo di nostalgia
«vedendo apparire a sfondo di qualche film poliziesca il Canal
Grande, il Pincio, il Valentino»; è un'Europa deformata e grottesca
quella in cui ci aggiriamo, riconoscendo le cose e non riconoscendole
del tutto: perché le proporzioni cui eravamo avvezzi sono saltate: non
è, la nostra, l'esperienza di Gulliver nel paese dei giganti: là tutto era
ingrandito nel rispetto delle proporzioni; qui siamo sottoposti allo
sconcerto di una visione anamorfica della realtà.

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Ancora Europa è «l'unica matinée» di Cleo De Merode, «di
passaggio per Bombay alla volta del Siam».
Ma, l'India; la vera India esotica e avventurosa? Eccola, forse: siamo
nell'«immensa rada di Bombay»; in procinto di compiere una «gita
baedekeriana».

Il vaporino che supera le sei miglia di mare dall'isola di Bombay


all'isola d'Elefanta, è in gran parte occupato da famiglie merendanti
e da coppie amorose: viaggio al paese di Cuccagna, embarquement
pour Cithère...

Ma no, non è questa l'India. Non ancora. Una dimensione domestica,


paesana, ci avvolge: complicata da un'atmosfera idilliaca o mitica,
magari; ma d'un idillio o di un mitico assolutamente familiari; un
favoloso casereccio, da bazar di quartiere.
Embarquement pour Cithère. Che quadro romantico... Rammentiamo
la tela di Watteau, che abbiamo ammirato, forse con qualche disagio,
in tante riproduzioni. E Citera, l'isola di Venere: la nitida immagine
della Grecia classica si allarga nel nostro cuore, con tutti i suoi miti,
che ci sono così cari; la Grecia pagana e luminosa; i cui sani appetiti
hanno tutta intera la nostra indulgenza.
Famiglie merendanti, coppie amorose, Eldorado a buon mercato...
Gozzano, come sempre, si burla un poco di noi. Afrodite, la dea di
Citera, non è solo amore; essa è la dea della vita e della morte; ad
Atene fu detta la maggiore delle Moire e sorella delle Erinni; l'amore
e la morte uniti assieme sono un luogo comune della nostra cultura:
«le due cose belle» cantate dai poeti.
Né della Grecia abbiamo solo visioni luminose e apollinee: Gozzano,
lettore e cultore di Nietzsche, lo sa meglio di chiunque; e Citera non
è solo il quadro di Watteau.
Chi ricorda Baudelaire sente un'ombra gelida stendersi sull'idillio;
l'ombra di una forca; albero feroce da cui pende un impiccato. Il cui
volto ci è per molti segni familiare.

[…]
Le navire roulait sous un ciel sans nuages,
Comme un ange enivré d'un soleil radieux.

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Quelle est cette île triste et noire? - C'est Cythère,
Nous dit-on, un pays fameux dans les chansons,
Eldorado banal de tous les vieux garçons
Regardez, après tout, c'est une pauvre terre.
[…]

J'entrevoyais pourtant un objet singulier!

Ce n'était pas un temple aux ombres bocagéres,


Où la jeune prêtresse, amoureuse des fleurs,
Allait, le corps brûlé de secrètes chaleurs,
Entre-bâillant sa robe aux brises passagères,

Mais voilà qu'en rasant la côte d'assez près


Pour troubler les oiseaux avec nos voiles blanches,
Nous vîmes que c'était un gibet à trois branches,
Du ciel se dêtachant en noir, comme un cyprès.
[…]

Dans ton île, ô Venus! je n'ait trouvé debout


Qu'un gibet symbolique où pendait mon image...
- Ah! Seigneur! donnez-moi la force et le courage
De contempler mon coeur et mon corps sans dégoût!6

A questa riva, dunque, ci consegna la serena «gita baedekeriana».

6 Un voyage à Cythère [Viaggio a Citera]: Les fleurs du mal, CXVI: «la nave
scivolava sotto un cielo senza nuvole,/ come un angelo ubriacato da un sole radioso.
// Che isola è quella triste e nera? – È Citera, / ci dissero, un paese celebre in tutte le
canzoni, / Eldorado banale dei vecchi buontemponi. / Guardate, dopo tutto, non è
che una povera terra.// [...] Intravedevo tuttavia un oggetto curioso! // Non si
trattava di un tempio all'ombra di un boschetto, / in cui la giovane sacerdotessa,
innamorata di fiori, / vagasse, il corpo bruciato di segreti calori, / schiudendo la
veste alle brezze fuggitive; // ma ecco che rasentando la costa più da presso / per
spaventare gli uccelli con le nostre vele bianche, / vedemmo stagliarsi nitida contro
il cielo, nera / come un cipresso, una forca a tre bracci. // [...] Venere! nella tua isola
non ho trovato in piedi / che una forca simbolica da cui pendeva la mia immagine.../
Ah! Signore! dammi la forza e il coraggio / di contemplare senza disgusto il mio
cuore e il mio corpo!»

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Una riva che, con quella caratterizzazione demistificante di pauvre
terre che ci viene da Baudelaire sembra assumere una concretezza
materiale. Ma non è che un'illusione.
La demitizzazione dell'isola «celebre in tutte le canzoni» serve solo a
denudare il simbolo, a ridurlo a puro segno capace di caricarsi d'altri
significati; capace di esprimere un'altra realtà; o, dovremmo forse dir
meglio, un'altra faccia della realtà. L'altro volto di Afrodite, quello
dell'altra cosa bella. Che carica il simbolo di ambiguità e lo
arricchisce vertiginosamente.
In questa lussureggiante ridondanza di significati e d'allusioni,
caotica e demente come la vegetazione indiana, il simbolo-Citera
s'allontana infinitamente da ogni connotato reale: non è nemmeno
più segno, perde ogni contatto con la fisicità: diventa una pura
immagine interiore. Una dimensione della psiche.
Baudelaire non è mai stato a Citera; chi dice «io» nella poesia non è
lui, ma il suo amico Gérard de Nerval, che sulla rivista L'Artiste (30
giugno e 11 agosto 1844) raccontò che rasentando la costa di Cerigo
(appunto l'antica Citera) vide «una forca a tre braccia, di cui uno solo
era occupato». Ma nemmeno Gérard de Nerval era stato a Cerigo.
Eppure quell'impiccato in cui si specchia ha davvero il suo volto:
alcuni anni dopo - era il 26 gennaio 1855 - Nerval si impiccò a un
lampione di rue de la Vieille Lanterne.
Quell'albero-forca precipita in noi altre immagini; si carica d'altre
suggestioni. Evoca i riti di fertilità dell'antica Grecia, della Grecia
oscura, dionisiaca, legata alla Grande Dea della terra e del mare,
della vita e della morte, chiamata con vari nomi e rappresentata in
varie forme (fra le altre, Artemide l'Impiccata, con un santuario a
Condilea in Arcadia; e Afrodite Urania, «la maggiore delle Moire»),
per propiziarsi la quale si appendevano bamboline snodate agli
alberi. Il desolato, languido paesaggio interiore evocato da Ravel
(1908) nei «tre poemi per piano da Aloysius Bertrand»: Ondine - Le
gibet - Scarbo.
Il clima è sufficientemente alluso, mi pare: Aloysius Bertrand,
Gérard de Nerval, Théophile Gautier, Baudelaire. Lo sapevamo già?
Lo sapevamo già. E tuttavia...

20
Su Nerval vorrei soffermarmi ancora un attimo; il tempo che serve
per leggere un suo Viaggio a Citera. Un altro.

[...] Dopo il lungo giro attraverso i villaggi e i borghi, dopo la messa


in chiesa, le gare di destrezza e la distribuzione dei premi, i vincitori
erano stati invitati a un pranzo, imbandito in un'isola ombreggiata di
pioppi e di tigli, in mezzo a uno degli stagni alimentati dalla Nonette
e dalla Thève. Barche pavesate ci condussero all'isola ch'era stata
scelta perché c'era su di essa un tempio ovale a colonne che sarebbe
servito da sala per il festino. Là, come a Ermenonville, la campagna
è disseminata di questi aerei edifizi della fine del secolo
decimottavo, che dei milionari filosofi idearono obbedendo al gusto
dell'epoca. Se non m'inganno, il tempio era in origine dedicato a
Urania. [...] La traversata del lago era stata ideata per suscitare forse
l'impressione del Viaggio a Citera di Watteau. Solo i nostri abiti
moderni sciupavano l'occasione.7

Il cerchio si chiude. Sul quadro, un po' lezioso, di Watteau; o meglio


su una sua rievocazione paesana e anacronistica; sulle rovine di un
finto tempio «dedicato a Urania»; il tutto specchiato nell'acqua di un
placido stagno che sostituisce, come può, il mare.
Gozzano s'è portato dietro tutto questo, in India: se stesso: le sue
letture; il suo mondo; le sue immagini interiori; il filtro della sua
sensibilità: le cose morte, ma ricche di verità e di vita; l'ironico
amore per le buone cose di pessimo gusto. E quando mormora,
assorto e ironico, con le labbra appena mosse in quel suo sorriso
lieve di scherno e compassione, «embarquement pour Cythère», tutta
questa somma d'immagini e allusioni è presente nei suoi occhi; e nei
nostri. E l'ombra di quell'impiccato si stende sulla pagina serena
come il gelo della chiaroveggenza, che vede il teschio ghignante
oltre il volto; e il sorriso si fa un poco amaro: appena un poco, perché
un dolore autentico sarebbe sproporzionato e ridicolo: perché questa
è la vita.
Il teschio, d'altra parte, non nega mica il volto; lo sottende. E la
cupezza, o il senso di vanità e di morte che sta dietro l'immagine

7 Viaggio a Citera è il titolo di un capitolo di Le figlie del fuoco. Silvia. Si trova in:
GÉRARD DE NERVAL, I Racconti, Einaudi, Torino 1966, pag. 384.

21
spensierata della «gita baedekeriana», non contraddice affatto
quell'apparenza tranquilla e domestica; non appanna il quadro; anzi
gli dà profondità, spessore; l'ombra serve alla luce; e lo sfondo
oscuro fa risaltare più nitide e intense le figure in primo piano.
Perfido, sapiente Gozzano: lascia che in noi si formi salda, serena e
tranquilla l'atmosfera domenicale, e all'improvviso, bruscamente, ci
smentisce: «Ma oggi non è domenica, e lo steamlunch è quasi
deserto. Non è domenica».
Il vaporino diventa una lancia che «passa come un moscerino
ronzante tra i fianchi delle navi: navi di tutta la terra» e di tutte le
forme; e nel paesaggio balena vivo, tangibile come una cosa, il
ricordo dei pirati, dei cacciatori di naufraghi: intravediamo,
«verdeggiante oltre la foresta delle antenne e delle vele», un'isola i
cui villaggi

sono costrutti interamente con rottami di navi. Barbarie pittoresca e


civiltà vittoriosa, tutte le razze e tutti gli idiomi, tutte le linee e tutte
le tinte si contendono, stridono in questo convegno del Mondo, che
offre tante cose rare all'amatore dell'anacronismo e del paradosso.

Ecco, pensiamo: il convegno del mondo, lo stridore dei contrasti, la


barbarie pittoresca e la civiltà vittoriosa: l'India, finalmente. Ci
siamo.

Avanziamo lungo un piroscafo inglese giunto da poco: la parete


curva, nera, vertiginosa s'alza su di noi come il fianco di un cetaceo
colossale; dagli infiniti sportelli aperti giungono voci, s'affacciano
volti impazienti; lungo una scaletta troppo fragile scendono i
viaggiatori in una lancia d'approdo; quattro indu ignudi ricevono i
bagagli, aiutano i fanciulli, i malsicuri nel balzo. Una signora
biondissima si rifiuta al passo, i viaggiatori l'incalzano alle spalle,
l'incoraggiano, protestano; un gigante di bronzo l'afferra senz'altro,
la solleva in alto, la passa ad un altro gigante ignudo, che la depone
delicatamente, la siede incolume nella barca tra i suoi bagagli
ordinati: strida convulse della signora, risa degli astanti. Quella
biondezza e quelle braccia candide avvinte disperatamente alle
spalle barbare mi hanno fatto pensare una romana della decadenza,
una flava coma contesa da due schiavi nubiani un poco irriverenti...

22
Sentiamo la scenetta colta dal vero; e descritta vivacemente, con
acuto senso del ritmo; con la malizia8 di farla culminare in
quell'immagine un poco ardita, in quell'erotismo temperato di virtù
che abbiamo conosciuto nelle illustrazioni del sussidiario, che ci
hanno affascinato nei libri d'avventure della nostra adolescenza.
L'immagine non è il culmine della scenetta, ne è il pretesto. La
scenetta, il bozzetto, il momento di vita colta en plein air esistono
solo in funzione di questa immagine: è questa che il poeta ha negli
occhi; questa che ci vuole comunicare: questa che vuole farci
sovrapporre a un'altra.
Non c'è nessun plein air. Soltanto libri. Potremmo ricordare L'India
di Mantegazza; o piuttosto Tartarino di Tarascona di Daudet; ma
soprattutto, naturalmente, Paul et Virginie di Henri Bernardin de
Saint-Pierre: libro famoso al tempo suo (1787): rousseauiano,
celebrante l'ingenuità, il ritorno allo stato di natura, piacque a
Leopardi e costituì probabilmente una delle letture preferite di
guidogozzano, che dovette trovarlo deliziosamente demodé.
L'immagine della Lucrezia pudica che ornava i nostri libri di scuola
riviveva in quelle pagine; col seno un poco scoperto che s'intuiva
ansante nella lotta; un ginocchio luminoso che prorompeva da
un'apertura della veste austera; quest'immagine, applicata alle più
varie situazioni, benché in contesti sempre molto virtuosi, ha abitato
in noi da sempre; Gozzano non aveva bisogno di andare in India per
trovarla; non aveva bisogno di alcun plein air: non doveva far altro
che guardare nell'album delle proprie fantasie; non doveva fare altro
che rileggere i propri versi:

Il san Germano affonda. I marinai


tentano indarno il salvataggio. Tutti

8 Gozzano ha, spiccato, il senso del comico: ma il suo comico è autocoscienza, ha la


funzione di ricordare al poeta, e a noi, che la vita è buffa, che tutti, tutti e
specialmente i poeti, siamo immersi nel ridicolo, che tale è la condizione umana; e
questa coscienza, così nitida, si vela non direi proprio di pietà, d'una lieve
malinconia.

23
balzano in mare, da che vana è l'arte.
[…]
Virginia ecco in disparte
pallida e sola!... Un marinaio nudo
tenta svestirla e seco darsi all'onda;
si rifiuta Virginia pudibonda
(retorica del tempo!) e si fa scudo
delle sue mani... Il San Germano affonda;
Il San Germano affonda...

Gozzano accumula immagini: le rimescola, le sovrappone, le confon-


de, come sono rimescolate sovrapposte e confuse nel deposito
interiore dei ricordi infantili o meglio ancora nel solaio crepuscolare
delle fantasie a metà fra conscio e inconscio: Lucrezia, Virginia, la
romana della decadenza, la signora biondissima che si rifiuta al
passo. E dal convegno delle somiglianze e delle differenze scaturisce
quello stridore che rivela un'intima verità: il disordine del mondo,
casuale somma di rottami; il penoso ridicolo delle cose:
l'irrimediabile contraddittorietà e insensatezza dell'esistenza. Verità
che il poeta coglie senza infingimenti; e accetta alla maniera della
lenta ginestra leopardiana: con in più uno scatto d'ironia.

Meglio non esser nati. Certo. Ma essendo nati... adagiarsi nella vita
con tutti i beni che la vita può dare...

Questa è poi in pratica la conclusione obbligata, umana, d'ogni


filosofia. Orientale od occidentale. La sola saggezza possibile.
Aderire alla vita, alla sua meschinità, al suo insondabile disordine
con l'inevitabile complicità di chi sa di non potervisi comunque
sottrarre; con la penosa solidarietà di chi sa d'essere impastato nel
medesimo ridicolo: di cui può tuttavia sorridere; ma senza scherno,
perché sorridere è magari inevitabile, ma fa male, un poco.
Un poco. E mi pare che nessun grido di dolore abbia espresso con la
desolata compiutezza di questo esitante sorriso la tragedia del vivere
umano: cui nemmeno la consolazione del dolore è concessa, nessuna
possibilità, nessuna speranza di grandezza.

24
Lenta ginestra. Nessuno come Gozzano ha saputo rivivere la grande
lezione leopardiana; senza tradirla; nessuno come Gozzano ha saputo
prendere Leopardi come malattia, come avrebbe voluto Bo. Che è
stato un grande lettore, ma non ha reso giustizia a Gozzano, ed è
stata forse la sua unica omissione.

3.2. La più bella


Il porto interminabile ci resta a poco a poco alle spalle: dirada la
selva dei piroscafi, dei velieri, delle giunche; qualche zattera vaga
ancora sul mare di stagno, sul quale emergono frequenti le pinne
dorsali degli squali o balzano improvvisi, a frotte, i pesci volanti.
Cielo e mare si confondono in una calma eguale, senza limiti,
incolore. Si ha l'impressione di navigare nel vuoto; al tempo delle
origini, quando i mari caldi nutrivano i germi dei plesiosauri e delle
felci colossali, le acque e i cieli immobili dovevano avere questo
silenzio d'attesa.
Ma d'improvviso, come sospesa nello spazio, disegnata sopra una
parete di cristallo, si profila l'isola di Elefanta [...] Il caldo provoca i
miraggi, scompone l'aria, la fa vibrare, oscillare all'orizzonte col
tremolìo del rivo sulla sabbia; l'isola d'Elefanta, già prossima,
s'addoppia, si riflette quadrupla, s'avvicina, s'allontana, scompare.
Quando riappare, siamo giunti.

Gozzano sciorina immagini, emozioni: che paiono appartenere o


discendere direttamente dall'esperienza, e adempiono fra l'altro
egregiamente anche al compito di descrivere la realtà o, forse si
dovrebbe dire meglio, di costruirla; ma nello stesso tempo ci proiet-
tano nel clima favoloso che le ispira e le nutre. O a quel clima ci
riportano. Perché queste emozioni non sono nuove, per noi. Né sono
propriamente nuove per guidogozzano, che un viaggio analogo aveva
già compiuto con la fantasia; e digerito in versi.
È il viaggio che l'avvocato aveva annunciato alla signorina Felicita:

Viaggio per fuggire altro viaggio...


Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,

25
perdute nell'Atlantico selvaggio...

Come guidogozzano a Felicita, Guido Gozzano ne parlò (con


entusiasmo, in una lettera del 20 giugno 1908) alla Amalia
Guglielminetti.
Quel viaggio poi non si fece: e non ne resta traccia nella onesta
autobiografia di guidogozzano; la poesia La più bella, che ne rende
prematura testimonianza, consegnata in quei giorni al «Quaderno di
appunti per i Colloqui», viene esclusa dai Colloqui (febbraio 1911).

...Hifola da trovarfi? ... Hifola pellegrina?...


È l'isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina...

Radono con le prore quella beata riva:


tra fiori mai veduti svettano palme somme,
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...

S'annuncia col profumo, come una cortigiana,


l'Isola Non-Trovata... ma, se il piloto avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell'azzurro color di lontananza...

Ancora una volta, la fantasia precede la realtà. Si vorrebbe dire che


ne fa a meno; che la costituisce. Diciamo che la informa.
Ed è infine significativo che La più bella, scartata dal libro canonico,
diventi in qualche modo la prima delle «Lettere dall'India». Diciamo
pure in maniera inconsapevole. Quello che è certo è che nel clima del
viaggio indiano, e nel rovello di dare espressione artistica a questa
esperienza, Gozzano ritrova la poesia accantonata, e la pubblica su
«La Lettura»: nel luglio del 1913. Sono trascorsi pochi mesi dal
ritorno di guidogozzano dall'India; oltre un anno dal ritorno di
Gozzano.
Il poeta rimugina. Risveglio sul Picco d'Adamo, scritta a Ceylon nel
1912, viene pubblicata in «Aprutium»: ottobre-novembre 1913; Un

26
Natale a Ceylon, la prima delle vere e proprie «Lettere dall'India»,
sarà pubblicata su «La Lettura» nel gennaio 1914.

3.3. Goa, la Dourada


Nessuno ha voluto seguirmi a Goa. Gli amici sono rimasti a
Bombay, già presi dalle varie dolcezze della metropoli ospitale.
Andare a Goa, perché? I perché sono molti, tutti indefinibili, quasi
inconfessabili; parlano soltanto alla mia intima nostalgia di so-
gnatore vagabondo. Perché Goa non è ricordata da Cook, né da Loti,
perché nessuna società di navigazione vi fa scalo, perché mi spinge
verso di lei un sonetto di De Heredia, indimenticabile, perché pochi
nomi turbavano la mia fantasia adolescente quanto il nome di Goa:
Goa la Dourada.
Oh! Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili
lezioni di matematica, con l'atlante aperto tra il banco e le ginocchia;
ora passando attraverso l'istmo di Suez e il Mar Rosso, l'Oceano
Indiano, ora circumnavigando l'Africa su un veliero che toccava le
Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar...

Il capitolo, uno dei più tipicamente gozzaniani, si apre con questo


orgoglioso «nessuno», che ci parla della solitudine, della radicale
diversità del poeta: che esce dalle rotte comuni ed è mosso dalla
nostalgia, da remote fantasie infantili, dalla memoria di un sonetto.
Che parla di un’altra città.

Oh! Visitata cento volte con la matita: se pronuncio il nome di


Baudelaire9 è soltanto per dire di nuovo Gozzano: per tornare
all'incanto della nostra lettura con in dote quest'altra pagina: che ci

9 Pour l'enfant, amoureux de cartes et d'estampes, / L'univers est égal à son vaste
appétit. / Ah! que le monde est grand à la clarté des lampes! / Aux yeux du souvenir
que le monde est petit! [ Per il bambino, innamorato di mappe e stampe, / l'universo
è pari alla sua vasta fame. / Ah! com'è grande il mondo alla luce della lampada! /
Agli occhi del ricordo, com'è piccolo il mondo!] E' l'inizio di Le Voyage [Il viaggio],
CXXVI dei Fiori del male.

27
aiuti magari a ricordare quello che facilmente la capacità affabu-
latrice del poeta potrebbe farci dimenticare: che non di fronte alla
realtà ci troviamo, né a una sua descrizione oggettiva, ma al violento
prodigio dell'arte che trasforma la finzione in una verità profonda e
autentica più dello stesso vero. E così alzo lo specchio di Baudelaire
per vedervi il volto del pauvre amoureux des pays chimériques [...]
fuyant le grand tropeau parqué par le Destin, lo sventurato amante
di chimere, l'ardito amante della demenza, che fugge l'enorme gregge
stipato dal destino...; per tornare a ripetere con maggiore
convinzione: Gozzano; per affermare, magari un poco
sfrontatamente, che non è affar mio indagare e decidere se Gozzano
sia stato o no, «in realtà», a Goa: perché questo non importa nulla,
non dice nulla; perché ciò che solo interessa rilevare - godere - è la
straordinaria abilità dello scrittore nel costruire l'avventura, non
soltanto rimanendo assolutamente fedele ai propri temi e al proprio
tono d'artista, ma conducendo la narrazione a completarli, ad affinare
la propria immagine - la propria maschera se si vuole -, la propria
visione del mondo e della civiltà.

Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose
non sono che la magra fioritura di pochi semi deposti dal caso nel
nostro povero cervello umano, nell'infanzia prima. Termina oggi il
viaggio intrapreso a matita sull'atlante di vent'anni or sono, termina a
bordo di questa tejera sobbalzante, una caravella panciuta, lunga
trenta metri, alla quale è stata senza dubbio aggiunta la prima caldaia
a vapore che sia stata inventata. Ma tutto questo è indicibilmente
poetico e mi compensa della vuota eleganza dei grandi vapori mo-
derni dalle cabine e dalle sale presuntuose di specchi e di stucchi
Impero e Luigi XV, dall'odore del volgarissimo hôtel, dove è assente
ogni poesia marinaresca, ogni senso della cosa nuova e
dell'avventura. Qui tutto è poetico, e la mia nostalgia può sognare
d'essere ai tempi di Vasco De Gama, di navigare alle Terrae
Ignotae, alle Insulae non repertae...

Terrae Ignotae, Insulae non repertae. Eccoci, ancora, nel clima de


La più bella. E nella più gozzaniana delle atmosfere:

28
Oggi sono sceso nella stiva. Quanta merce disparata abbiamo con
noi! Pianoforti, macchine da scrivere, biciclette, balle di cotone a
fiorami vivacissimi per le belle dei coloni, tre casse enormi, dove
viaggia, divisa in tre parti, una statua gigantesca di San Francesco
Saverio, omaggio del Vescovo di Bombay a non so quale convento
portoghese, e un'infinità di sacchi pieni di cocci: cocci di stoviglie
raccattati in tutti gli spazzaturai occidentali, frantumi a colori vivi,
ricercati dai musaicisti goanesi che ne fanno pavimenti a disegni
complicati, di bellissimo effetto.
Ho avuto una gradita sorpresa. In cucina, tra un casco di banane e
una latta di conserve, ho trovato un libro: Os Lusiades, le Lusiadi, il
poema immortale di Camoens: un'edizione arcaica sucidissima, con
in calce la real alvaira: la licenza dei superiori.

Il catalogo eterno delle cose morte culmina nel libro: la cosa morta
che non muore mai. E il libro è buffo: solenne, e perciò buffo, come
la vita. Buffo, ma pieno di bellezze: più che la vita. Là fuori, in
fondo, non è che noia; la salvezza dalla quale è nel libro: e non
importa quanto maestoso, quanto spettacolare sia l'orizzonte, il mare:
il mare, e ogni bellezza, non esiste davvero che nel libro, attraverso il
libro. Perché è il libro - il simbolo, il linguaggio, la poesia - a creare
la bellezza; a esprimerla.

Che libro buffo! Ma pieno di bellezze, ed è certo il viatico poetico


più adatto per il sognatore che naviga verso Goa leggendaria, il più
adatto per ingannare le ore di torpore tropicale, resupini sul ponte,
sotto la doppia tenda, nella monotonia d'un viaggio che sembra non
dover finire più mai...
Vasco De Gama: nome tra i più favolosi che io conosca: tanto che
non riesco a vedere l'uomo fuori della favola, non lo so pensare vivo,
mortale, su questo mare, sotto questo cielo che furono i suoi!

Non so pensare l'uomo fuori della favola.


Potremmo dirlo meglio? È sempre vano, e un po' sciocco, cercare di
parafrasare un poeta; tentare di spiegarlo. Il poeta, è la sua poesia;
quello che ha voluto dire è quello che ha detto; in quella forma e in
nessun'altra.

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Nostro dovere è l'ascolto; la collaborazione alla poesia. Eppure
questo non si può fare senza violenza e tradimento. Quello che
traduciamo in noi non è Gozzano. È una semplice approssimazione a
Gozzano. Non possiamo fare di più.
Fermiamoci qui, dunque. La nostra meta, l'abbiamo sempre avuta
con noi: non solo a portata di mano; ma proprio dentro di noi: accade
sempre così; in questo caso particolare la nostra meta era il sonetto di
De Heredia che rimuginavamo e ch'è stato la matrice stessa del
viaggio a Goa; il suo culmine emozionale; e ora viene deposto, con
un gesto romantico, «come una preghiera sulla tomba della città
defunta».

Una città morta; una tomba; una poesia; un gesto sentimentale.


Dal nostro viaggio per mare attorno a Gozzano riporteremo le
immagini delle quali eravamo imbevuti già in partenza: la flava coma
della viaggiatrice; le insulae non repertae; la contaminazione fra le
ambigue visioni di Citera divulgate dai poeti e le suggestioni dei miti
più remoti che abitano in noi e costituiscono tanta parte della nostra
sensibilità. Torniamo con negli occhi la visione del «tempo delle
origini, quando i mari caldi nutrivano i germi dei plesiosauri e delle
felci colossali»; l'immagine di «un oceano primordiale» dal quale a
ogni istante ci aspettiamo «di veder emergere il dorso immane, l'alto
collo serpentino, la piccola testa vorace d'un Itiosauro».
L'illustrazione, a colori un po' cupi, di un libro di scuola. Uno
stereotipo. Ch'è forse la forma assunta nella modernità dal già
glorioso archetipo, ridotto dalla tecnica a banalità un po' vieta. Ma
che importa? Non sottovaluteremo la forza espressiva della banalità:
poiché anche il luogo comune è segno e simbolo. Operante e vitale.
Scrigno d'immagini e fantasie; deposito di tempo; e di poesia, anche;
se cada nel cuore ansioso di un poeta. Irreale, com'è irreale il tempo
che passa; com'è irreale la morte; la poesia; e la vita. E concreto.
Come il tempo che passa, la morte che viene; e la vita, che si
trasforma in morte e poi la recupera e la vince. Concreto; come la
lieve malinconia dello sguardo che suscita dalle cose morte la poesia;
ch’è vita. Dicono che Gozzano sia il cantore delle cose morte; e non
è che un modo superficiale di vedere. Gozzano canta la vita ch'è

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rimasta nelle cose morte, nei rottami che l'esistenza degli uomini
lascia dietro di sé, e accompagna, e intride. Vita? Una fiorita d’esili
versi consolatori...

4. Tragico Gozzano
Gozzano è forse il più tragico dei nostri poeti: questa affermazione
farà forse sobbalzare chi ha in mente il sorriso e l'ironia lieve e
complice dei suoi versi, ma io trovo che l’essenza stessa del tragico
emani proprio da questa penosa simpatia, da questa tolleranza bo-
naria e comprensiva; da questa mancanza di condanna e di
indignazione; da questa terribile mancanza di dolore: l'uomo è così
piccola cosa che non può né suscitare né provare autentico dolore;
così piccola cosa che non può albergare altro che mediocri, futili,
effimeri sentimenti. Possiamo provare un poco di pena,
distrattamente; e poi via, subito nella dimenticanza.
Il tono lieve, volubile non inganni: il dramma nostro si consuma nel
disincanto e nella distrazione. Incapace di vero amore, accecato dalla
chiaroveggenza, assorbito dal tempo stupido dello svago e della
produzione, interamente dedicato a costruire il nulla, incapace di gra-
ndi delusioni e di grandi dolori perché incapace di grandi illusioni
come di autentica serietà, l'uomo moderno, filosofo suo malgrado
(filosofo d'una vulgata e volgare filosofia, la ragionevolezza, cauto
calcolo del buon senso meschino), è ridotto a poca, pochissima cosa:
il meglio che può capitargli è vivere nella forma dell'onesto
bôgianen, pura forma; mentre tutta la capacità di sentimento, tutta
l'umanità possibile e residua si è rifugiata nell'ingenuità vorrei dire
rousseauiana delle cameriste.
Penso la breve resistenza della fantesca: frettoloso e incerto omaggio
alle norme della civiltà incarnata dalla Signora: a convenzioni non
interamente condivise né comprese interamente: perché nella
fantesca, come nella cuoca diciottenne, il corpo parla ancora il
linguaggio onesto e sano della natura: sostanzialmente ignaro dei
torbidi infingimenti e delle morbose astuzie che costituiscono
l'onestà della Signora, l’elaborato sistema di segni e forme con cui la

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civiltà s’affanna a mascherare e se mai fosse possibile a rinnegare il
legame - che sente imbarazzante e soprattutto indecente - con
l’istinto. È goffa, la fantesca, nel suo breve conflitto interiore, prima
che la fragile ombra della crinolina ceda alla verità della natura viva;
e il signore colto, stremato dall'ossequio dovuto a complicate regole
che nemmeno lui comprende ma alle quali è costretto ad attenersi
con le Signore e in società, si beve e si gode come acqua fresca
quella tenera goffaggine, quella ritrosia così poco convinta,
quell'abbandono così facile e pronto, quel linguaggio del corpo che
cede serenamente al desiderio e alla sana voluttà: si ristora, il si-
gnore, a questa fonte di sana voluttà: senza pensare nemmeno per un
istante all'eventuale dolore inferto: perché a tacer d'altro lui, l'uomo
evoluto, colto, inaridito dalla filosofia, non può nemmeno più
concepire il dolore. Tantomeno il dolore di un altro. E la camerista è
radicalmente altro: è l'aliena: perduta in un tempo diverso, è
anch’essa una di quelle buone cose di pessimo gusto che non
possono piacergli ma lo consolano, lievemente, del nulla che lo
intride.
Tutto il sentimento che al signore filosofo, irrimediabilmente
concentrato su se stesso, è concesso sperimentare è la dolente
coscienza di quant'è triste non poter più essere triste. Ma ci sono
anche altri motivi per i quali al dolore delle cameriste - alla verità dei
loro sentimenti e in generale alla loro sostanza umana - egli non
crede affatto: anch'esse in fondo, come lui, sono vittime della
letteratura, solo d'una letteratura più ingenua e deteriore: anch'esse,
in fondo, non sono che cose; la vita, la verità che in esse commuove,
un poco, e le rende graziose, oggetto d'un vago rimpianto e d'una
vaga affettuosa nostalgia, è la stessa che intride e rende amabili le
buone cose di pessimo gusto: il busto d'Alfieri, Loreto impagliato,
Carlotta che sogna il suo Werther... E certi salotti, beoti assai,
pettegoli, bigotti... Il barnabita, la contessa, il farmacista, i
bôgianen...
Cose, fantasie, gente, tutto un tempo e un modo di vivere e
d'atteggiarsi che al gelido esteta dovrebbero essere motivo di riso
quando non di repulsione; e invece gli suscitano un moto d'affetto,
un sorriso penoso: in quel cattivo gusto, in quelle illusioni un po' va-

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ne, in quella generale meschinità c'è pure qualcosa che non si può
irridere sino in fondo; un'ingenuità che non si può nemmeno rim-
piangere perché ci appare irrimediabilmente grottesca; falsa, sia
pure; ma nella quale tuttavia c'era un brandello di vita; qualcosa di
simile a un sentimento: che ormai non è più possibile; una piccola,
misera cosa, certo, ma perduta; per sempre: e oggi la nostra povertà,
la nostra miseria, il nostro nulla interiore sono tali che il ricordo di
quel poco rappresenta la nostra sola ricchezza; tutto ciò che ci separa
e ci distingue, un poco, dal nulla, è la nostalgia per quelle piccole
cose perdute. Minima nostalgia; venata d'ironia più che di tristezza.
E quel che c'è di mesto in questo sentimento è assai simile, così
almeno a me pare, al rimpianto, che i poeti hanno descritto, del
morto per la vita che è stata sua e che ancora - quale sia stata: in
quanto irrimediabilmente perduta - gli è cara.
E questo, infine, siamo: morti; che rimpiangono la vita. E tutto ciò
che ancora ci anima e ci distingue dal nulla compatto è questa lieve
nostalgia: il segno della vita trascorsa che, come insetto nell'ambra, è
rimasta in quella sorta di ricordi fossili che sono gli oggetti del tempo
passato, che hanno conservato in sé un poco del senso attribuito ad
essi dalla gente che se n'è circondata, un poco del calore delle mani
che li hanno toccati un giorno, il pathos delle illusioni svanite, del
tempo perduto, della perduta gente; è nulla tutto ciò, lo sappiamo; e
nulla erano quelle illusioni; e quella gente era povera gente; ma da
questi miseri rottami del gran naufragio dell'umanità sprigiona una
vaga emozione che, per quanto esile, è vita tuttavia, sostanza umana.

Ho sfiorato più volte il discorso del falso bello. E anche questo


sarebbe interessante studiare: il bello grossolano, inestetico, il kitsch:
le buone cose di pessimo gusto che Gozzano ha cantato in maniera
ineguagliabile: finendo quasi col farcele amare: ma ha potuto farcele
amare perché ce le ha fatte sentire vive: perché le ha caricate di
umanità, perché attraverso esse ci ha messo in diretto contatto con la
patetica vita degli uomini e delle donne di quella piccola borghesia
che ha potuto circondarsene fin quasi a confondersi con esse: e que-
sto è appunto il miracolo della poesia: la paradossale verità che ci è
rivelata - e che non avremmo sospettato senza l'arte di Gozzano - è

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che anche le cose detestabili possono essere amabili: e non occorre
che siano amabili in sé le persone che le hanno amate o si sono
comunque specchiate e identificate in esse. Quelle persone suscitano
la nostra tenerezza proprio perché si sono identificate e specchiate in
così misere cose: e soprattutto, naturalmente, perché hanno potuto
essere avvolte nel sorriso di un poeta. Caro Gozzano, solo lui ci ha
insegnato ad amare la parte misera, la parte gretta di noi stessi; solo
lui ha accolto con un sorriso di compassione, con autentico amore,
lui che d'amore si diceva incapace, la nostra miseria.
E del nostro nulla, di noi, ha saputo fare oggetto d'amore: poesia.

È il grande paradosso che Leopardi per primo se non erro aveva


notato: il sentimento del nulla ci annichilisce, ci distrugge, ci rende
aridi assolutamente, ci toglie la vita; ma è pur sempre sentimento: e
come tale ci risolleva, e ci restituisce piena, urgente, vera, carica di
tutte le sue illusioni e della sua terribile bellezza, la vita.
Maestoso, affascinante paradosso, che l'arte e la filosofia moderna
rivelano ed esprimono.
L'arte, la poesia, la letteratura nascono magari dal nulla; magari
contribuiranno, in seguito, ad allargarne i domini; ma intanto ne sono
uscite: sono altro, radicalmente, rispetto al nulla del tempo stupido
che uccide l'uomo; sono altro, radicalmente, rispetto a quel nulla
operante, a quella menzogna in atto: sono cose sfuggite
definitivamente al nulla: vita nella morte, verità che vive nel cuore
della menzogna.

5. Gozzano e la morte
In qualche modo si può dire (e non parliamo, s'intende, dell'altezza
della poesia) che Gozzano va oltre Leopardi: e la sua indulgenza è il
volto della sua compiuta esperienza del tragico.
Per Leopardi la vita (la coscienza) è dolore; ma il dolore è anche la
virtù dell'uomo, la sua tragica possibilità di grandezza. E la coscienza
si spalanca certo sugli abissi del nulla ma si apre anche alla visione
della libertà possibile, allo sdegno e alla dignità.

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Per Gozzano ogni possibilità di grandezza è abolita; all'uomo anche
la capacità di soffrire, questa estrema, tragica virtù, è tolta; la
tragedia dell'uomo è priva di grandezza, è immersa nella meschinità
prima ancora che nel ridicolo.
La morte non è per Gozzano l'alleata che libera dal male della vita:
non esiste più nulla da cui essere liberati; la sofferenza è già stata
abolita; la morte ha già colto intera la sua vittoria; ha già preso
possesso dei nostri cuori inariditi; è l'apatia; è la spaventosa
chiaroveggenza che uccide le illusioni.
La morte è la sola cosa bella che non tradisce né delude.
L'amore, l'altra cosa bella, fa ormai parte per sempre del carico di
illusioni e menzogne che il cuore troppo consapevole rifiuta. Ma la
morte è onesta e non mente. La morte non si limita a iscriversi nel
nostro destino come promessa che non sarà delusa; la morte non è il
semplice, banale limite della nostra vita: non si deve pensarla come
futuro; e fuori di noi; essa è in atto; in noi; agisce e ci modella. Non è
semplicemente il germe del nulla che dilaga in noi e ci assorbirà;
essa è qualcosa che ci fa; è il volto della vita; non è tanto il precipizio
del futuro in cui scivoliamo quanto la forma del passato che si
prolunga in noi. La morte non è nel futuro: la morte è il passato che
morde in noi e ci ingloba in sé; a poco a poco; sicuramente. E questa
è la vita.
E questa è la morte: vita che è già stata vissuta: tutta la vita concreta.
Come un racconto, che assume la propria forma, il proprio senso a
libro chiuso, a lettura terminata; così la vita assume senso e verità
soltanto dopo che la morte le ha assegnato col termine una forma.
La vita, in sé, non è che disordinato caotico flusso insensato; soltanto
quando avrà assunto la struttura stabile e definitiva dell'oggetto
diverrà conoscibile; soltanto dalla morte, insomma, la vita riceve
senso e verità; soltanto quando non sarà più divenire la vita sarà pro-
priamente se stessa: specchiandosi tutta intera nella morte. Solo la
morte insomma apporta il suo proprio significato al nome stesso di
vita; e la vita non avrà mai senso per sé: il suo significato non sarà
mai percettibile al vivente; ma sempre apportato dall'esterno, da una
violenta contraddizione che lo rende disponibile soltanto a un altro:
che da fuori ne contempla la forma chiusa.

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Gozzano guarda la tragedia ridicola del vivere umano con serena
fermezza; senza un lamento; non esibisce virtù sovrumane; il
titanismo alfieriano o anche solo leopardiano gli è completamente
estraneo: il poeta moderno non soffre: poiché più di chiunque è
immerso nella coscienza - che inaridisce l'animo e uccide il
sentimento - dell'infinita vanità del tutto.
La letteratura, sì, è ancora possibile. Ma.
È l'ultima grande illusione, la letteratura: l'ultima grande malìa,
d'accordo: capace di rovesciare il solido nulla delle cose in
emozione, mistero, palpito segreto di vita.
Ma, che differenza fa? la chiaroveggenza uccide subito l'illusione
rinata; la vita, la morte, che differenza fa? Non sono dunque uguali
due cose interscambiabili con tanta facilità? E proprio l'arte ci
mostra, con la sua potenza, questa interscambiabilità. Ciò che si crea
è morte e matrice di morte. Nondimeno, si crea; così come si vive. È
colpa? Una colpa inevitabile, allora. Lieve. Come ogni altra cosa al
mondo. Come la stessa vita.

Gozzano non ci risparmia l'ultimo sogghigno.


La realtà, il mondo, io, noi; la vita, la morte, la letteratura; le
illusioni, la spaventosa chiaroveggenza: le cose non sono mai, per il
poeta, così semplici e chiare come i critici vorrebbero, da chiudere
nella definizione tranquillizzante che squadri le cose da ogni lato.
Ho vissuto al cinque per cento, proclamerà Montale. A Gozzano non
sarebbe mai venuta in mente una percentuale: chi vive è l'altro, il più
adatto - il doppio misterioso - che coincide interamente con la
propria vita. O con la propria parte di vita. E ogni parte è un tutto.
La vita è in verità qualcosa di profondamente ambiguo; e invano
cercheremmo di definire i termini di questa ambiguità fuori del
linguaggio della poesia, che solo li conosce; ma qualcosa pure
abbiamo intravisto: grazie alla poesia.
Morte, vita, letteratura, sono universi affacciati l'uno sull'altro come
specchi. La nostra avventura umana è attraversare questo baraccone
paradossale. Quale, dei molti io riflessi, è quello che ha diritto di dire
«io»?

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guidogozzano suggerisce: chi vive è l'altro, il più adatto.
Naturalmente: e avremmo dovuto saperlo sin dall'inizio: era nei
presupposti culturali di Gozzano, e nei nostri; ed era così evidente
che non l'abbiamo visto: io, è un altro.
Io, è guidogozzano: l'altro.
Il Gozzano che amiamo e ammiriamo e abbiamo potuto, almeno un
poco, conoscere, quello per il quale vale strettamente l'equazione di
letteratura come vita, è l'enigmatico e dolce guidogozzano, il solo
adatto, il solo vivo nella verità: nell'invenzione, nell'avventura del
libro. Il resto, non esiste.
Il resto, è lo strano universo in cui si muove l'altro, il doppio
vertiginoso che dice - sorprendentemente - «io, guidogozzano»; e
chiuso nel suo mondo impenetrabile sogna l'ambiguo sogno di
iscriversi in un altro mondo, in un libro dal quale poter dire «io», e
fingersi l'altro: l'io «che fingo d'essere e non sono». L'altro, lo stesso.

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