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I Celti nella storiografia greca e latina

Chridhe Gaidhlig Cuore Gaelico ___________________________________________________________________________ GRECI E ROMANI DESCRIVONO I CELTI Le testimonianze scritte di carattere storico, etnologico o geografico lasciateci dagli autori antichi riguardo alle popolazioni celtiche sono di incontestabile importanza per ricostruire le loro vicende principali negli ultimi cinque secoli prima di cristo. Ci forniscono infatti notizie in particolare sui conflitti che li opposero al mondo greco e romano, ma anche riguardo allorganizzazione della societ, alleconomia, alla religione, ai costumi, alla localizzazione delle varie popolazioni, ai tratti tipici del temperamento che si riteneva incarnassero luniverso dei barbari. Nonostante il valore di queste testimonianze, non bisogna dimenticare per che esse sono intrise di errori e inesattezze, principalmente dovuti al fatto che gli storici dellepoca spesso non avevano diretta conoscenza n dei fatti n del mondo celtico, per il quale forti erano i pregiudizi. I Celti per greci e romani erano un popolo non civilizzato di guerrieri e agricoltori, ignari di ogni scienza e di ogni arte (come ci dice Polibio in Storie, II 17: ), che conducevano una vita semplice, i cui beni pi importanti erano il bestiame e loro. La reputazione di coraggio e ferocia che tratto comune dei Celti nellidea comune ci giunta tramite le descrizioni sconcertate quando non addirittura terrorizzate delle loro stesse vittime, riportate nelle cronache storiografiche. Diodoro Siculo, ad esempio, nel descrivere limpressionante aspetto dei guerrieri, scrive nella sua Biblioteca Storica: Sono alti di statura, con una muscolatura possente sotto la pelle chiara. Di capelli sono biondi , non solo per natura ma anche perch se li schiariscono artificialmente lavandoli con acqua e gesso, pettinandoli poi indietro sulla fronte e verso lalto. Taluni si radono la barba, altri ostentano le guance rasate e dei grandi baffi che coprono lintera bocca e fungono da setaccio durante il pasto, per cui vi restano imprigionati pezzi di cibo. (Biblioteca Storica V-28) E proprio nellaspetto dei Celti risiedeva la loro arma migliore: atterrivano letteralmente i propri nemici con labbigliamento, il clamore e il feroce atteggiamento sprezzante verso la morte che assumevano in battaglia. Il loro ardore selvaggio e la lucida follia guerresca avevano il potere di terrorizzare i pi civili avversari greci e romani. Gli scrittori romani definirono furor questa pazzia guerriera che travolge il combattente che si lancia in cerca del nemico con una totale indifferenza per la sua sorte. Quello che stato definito tumultus gallicus proprio questo atteggiamento in battaglia, linsieme di urla, strepiti e sfide con cui i Celti si lanciavano sul nemico. Sempre Diodoro Siculo ci riferisce che allinizio di uno scontro i guerrieri, gi disposti in linea di battaglia, avanzavano nella zona che divideva i due schieramenti per sfidare a duello i campioni della parte avversa: Brandiscono le armi e urlano in modo da intimorire il nemico. Se per uno di questi accoglie la sfida, i compagni dello sfidante erompono in canti frenetici che esaltano le imprese dei padri e il proprio valore, mentre lavversario viene dileggiato e offeso con lintento di fargli perdere il controllo prima dello scontro. (Biblioteca storica V-29) Dopo le sfide e gli scontri dei singoli campioni, gli eserciti si lanciavano allattacco generale. Negli scontri la massa dei semplici combattenti appiedati era provvista solo di armi offensive, non potendosi permettere n le preziose cotte di maglia ad anelli stretti (invenzione che i Romani riconoscevano ai Celti) n i preziosi elmi elaborati degli aristocratici e talvolta
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neppure uno scudo. Guidati dallassordante suono dei tamburi e dei carnyx, le lunghe trombe da guerra, i guerrieri si lanciavano disordinatamente sul nemico con furia e strepiti ma per lo pi senza una tattica precisa come quelle della falange politica greca o delle legioni romane, ma con lintento di travolgere il nemico unicamente con il peso della forza bruta. Unaltra cosa che lasci sconcertati coloro che combatterono contro i Celti era che anche le donne partecipavano alle battaglie. Diodoro Siculo scrive di loro: Non sono di alta statura come gli uomini ma li superano in coraggio. Plutarco racconta lepisodio di una guerra tra Romani contro i Germani e gli Ambroni, loro alleati celti: nel bel mezzo della battaglia, quando sono gi numerosi i caduti da ambo le parti, gli Ambroni vengono ricacciati oltre il fiume. Gli avversari avrebbero certamente conquistato anche laccampamento dei carri se non si fosse opposto loro un avversario contro cui prima di allora nessun soldato romano aveva avuto a che fare: le donne. Lanciandosi contro di loro, li colpirono con scuri e bastoni, strapparono loro gli scudi con le nude mani, non risparmiarono nemmeno i loro uomini perch ai loro occhi colui che fuggiva meritava la morte. Nelle varie trib galliche le donne non erano trattate e considerate allo stesso modo, ma se confrontate con quelle greche e romane godevano di considerevole libert e potere personale: erano un soggetto al pari delluomo, portavano pari dote al matrimonio, nella vita di coppia dividevano ogni bene e guadagno ed ereditavano tutto alla morte del marito. A quanto ci riporta Cesare, in Britannia alcune donne avevano pi mariti. In alcuni gruppi era anche riconosciuta la supremazia della discendenza da parte di madre. La considerevole importanza delle donne confermata da un illustre esempio: Boadicea, regina degli Iceni. Chiamata anche Boudicca, che significa vittoriosa, guid il suo popolo nella ribellione del 61 d.c. contro i Romani, distruggendo le citt di Colchester e St. Albans e riuscendo a prendere Londra. Nonostante tutto alla fine fu sconfitta dai romani e piuttosto che cedere prefer suicidarsi avvelenandosi, almeno secondo la versione dello storico Tacito (Annali XIV, 29-39), mentre Cassio Dione dice che sarebbe morta di malattia prigioniera dei Romani. Boadicea descritta come una terribile e potente donna, che rimase impressa nella mente dei Romani per la sua ferocia. Cassio Dione ci dice di lei nella sua Storia Romana: Era molto alta. I suoi occhi sembravano ferirti. La sua voce era rude e acuta. I suoi capelli rosso-bruni arrivavano sotto la sua vita. Portava sempre un grosso torque doro attorno al collo e un elegante mantello di tartan fermato con una spilla. Nel racconto della vicenda che ci ha tramandato Tacito (Annali XIV-30), leggiamo come lesercito romano fosse rimasto spiazzato dallaccoglienza che trov in Britannia: sulla spiaggia un ben strano schieramento nemico, denso d'uomini e d'armi e percorso da donne, in vesti nere, a mo di Furie, impugnanti fiaccole; attorno i Druidi, levate le mani al cielo, lanciavano maledizioni terribili: la novit della scena impression i soldati, per cui offrivano, come paralizzati, ai colpi nemici il corpo immobile. Lo stesso storico ci ricorda come per i Britanni non era insolito combattere sotto la guida di una donna: spesso nella letteratura celtica dellet del Ferro vediamo come fossero le donne a insegnare larte della guerra agli uomini. Lo stesso eroe nazionale dIrlanda, CuChulainn, che un po per gli irlandesi quello che per i Greci Eracle, fu iniziato alla padronanza delle armi da una donna, la guerriera scozzese Scathach, definita la pi abile combattente del mondo, profetessa e saggia oltre che maestra darmi. Per quanto riguarda lorganizzazione sociale, era strutturata verticalmente secondo tre funzioni: la sacerdotale, la regale-guerriera e la lavorativa. Cesare a darci le informazioni pi organiche nel VI libro del suo De Bello Gallico, in cui distingue le tre classi sociali dei druidi, dei cavalieri e dei plebei. I primi sono i ministri di culto, non partecipano alle guerre e non pagato tributi, obbediscono a un Grande Druido tenuto in altissima stima di tutti. I grandi privilegi sono compensati da un noviziato di ventanni, nel quale imparano a memoria la storia e le leggende (la scrittura era infatti vietata) del popolo. I cavalieri sono i guerrieri, considerati tanto pi nobili e facoltosi quanto sono numerosi servi e clienti. La plebe non prende alcuna iniziativa e non partecipa ad alcuna assemblea. Dagli scrittori classici greci e romani sappiamo che erano molto religiosi: pregavano spesso, facevano molti sacrifici ed erano soliti decorare le loro radure sacre con oro e gioielli,
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bottino di guerra che nessuno toccava, neppure il pi povero, perch dedicato ai loro dei. Non ci sono, per, le prove di una fede religiosa nel senso di un insieme organizzato e dogmatico di credenze, anche se essi avevano una serie di cerimonie, formule e rituali magici atti ad influenzare le potenze soprannaturali ed a predire il futuro. Essi credevano che l'anima fosse immortale. Marco Anneo Lucano affermava che i Druidi insegnavano al popolo che "le anime non cadono (...) nei pallidi regni sotterranei, ma lo spirito passa a reggere altre membra in un altro mondo" (Lucano, La guerra civile). Se la morte per i Celti non era che una pausa in una lunghissima esistenza, si giustificava il totale disprezzo di ogni guerriero nei confronti di essa. Strabone, nella sua Geografia, diceva che "I Druidi affermano, e altri con loro, che le anime e l'universo sono indistruttibili, ma che un giorno il fuoco e l'acqua prenderanno il sopravvento su di loro" . Dopo la morte del corpo fisico, l'anima continuava a vivere nell'Aldil, il Sid (Sidh in irlandese moderno), luogo di beatitudine situato in un'isola lontana circondata dalla spuma del mare, ai confini occidentali del mondo conosciuto, indicato dalla Stella Polare. Gli dei venivano adorati nel Nemeton, sacra radura nei boschi, non in templi costruiti da mani umane: erano dei della natura e nella natura ricevevano i loro omaggi. Lucano descrisse uno dei boschi sacri nella sua Guerra civile: C'era un bosco sacro, mai profanato da tempo immemorabile, che sotto la volta dei suoi rami racchiudeva un'aria tenebrosa e gelide ombre, facendo schermo in alto ai raggi del sole. Non Pani agresti e Silvani, signori delle selve, e Ninfe lo abitavano, ma vi erano celebrate cerimonie di barbari riti: vi si ergevano sinistri altari e, durante i sacrifici, il sangue umano schizzava su ogni pianta. Se un po' di fede merita l'antichit, che ha provato lo stupore per il divino, persino gli uccelli avevano paura di posarsi su quei rami e le fiere di sdraiarsi in quella selva; neppure il vento o la folgore che piombava dalle fosche nubi si abbattevano su di essa e le fronde degli alberi avevano un brivido tutto loro, senza che il vento le scuotesse. Acque abbondanti cadevano da cupe sorgenti ed i lugubri simulacri degli di erano privi d'arte, ricavati rozzamente da tronchi intagliati. IL NOME DEI CELTI E LA SUA ORIGINE SECONDO GLI STORIOGRAFI Il nome dei Celti, oggi usato per linsieme di questa grande famiglia linguistica di ceppo indoeuropeo, stato il primo ad essere usato dagli antichi con un significato etnico preciso per designare i limitrofi popoli occidentali e settentrionali. I primi autori greci ci hanno lasciato scarsissime e vaghe indicazioni sugli abitanti dellEuropa continentale. Omero conosceva soltanto i Cimmeri, popolo che colloca nelle nebbie tenebrose dellOceano, in un paese privo di sole vicino al luogo in cui Odisseo invoca Tiresia (Odissea XI, 13-19). Si presume che il nome dei Celti si sia imposto al pi tardi nella seconda met del VI secolo a.C. per designare i barbari del nord. Forse attorno al 500 a.C. Ecateo di Mileto, tra i pi antichi logografi ionici, aveva impiegato questo etnonimo, ma la sua opera, la Periegesi, andata in gran parte perduta. Essa consisteva in una sorta di guida alle zone costiere del mediterraneo: Periegesi significa infatti descrizione. Diodoro Siculo ci fornisce una sua teoria sullorigine delletnonimo Galli, usato pi frequentemente dai Romani: Nella Celtica () signoreggiava anticamente, cos si dice, un certo mobilissimo uomo, il quale aveva una figlia per la maest della persona e per la bellezza delle forme superiore a tutte le altre giovani donne. Costei ripudiava sdegnosamente tutti coloro che pretendevano la sua mano non credendo alcun uomo degno di s n per la forza del corpo n per lavvenenza meravigliosa. Accadde che Eracle, volgendo verso la Celtica, dopo che ebbe vinto Gerione, vi fond Alesia. In quella occasione, avendo la giovane veduto Eracle, tanto si meravigli per il suo valore e la sua superba figura che, con lassenso dei genitori, lo prese a giacere con s. Da lui gener Gallate, che super per virt danimo e di corpo tutti gli abitanti del paese; e quando fu giunto allet virile, avendo ottenuto il regno del padre, conquist molte terre limitrofe e comp molte gloriose imprese in guerra. Siccome si era sparsa la voce ovunque della sua forza, chiam tutti i suoi
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sudditi Gallati dal suo nome. Cos fu dato a tutta la nazione il nome di Gallazia o Gallia. (Biblioteca Storica V-14) Dionigi di Alicarnasso d una sua etimologia del nome celti nelle sue Antichit Romane (XIV-1): Lintera contrada chiamata dai Greci con un vocabolo unico Celtica, e il nome secondo alcuni deriva da un certo gigante di nome Celto che vi regnava; altri ritengono che da Eracle e Asterope, figli di Atlante, nacquero due figli, Ibero e Celto, che imposero alla terra da loro governata i propri nomi. Altri dicono che dai Pirenei scorre il fiume Celto, dal cui nome sarebbe stata chiamata Celtica prima la regione circostante poi, col tempo, tutta la contrada. Questi due autori mostrano come la stessa popolazione venisse chiamata con due nomi differenti e come varie fossero le ipotesi di origine di questi etnonimi. Per gli autori greci antecedenti al III secolo a.C. sembra che il nome dei Celti non fosse in competizione con quello dei Galati (). Non abbiamo prove che questo secondo termine fosse una conseguenza dello scontro con il mondo ellenico attorno al 280 a.C. o che si trattasse di un diverso etnonimo indicativo di una parte dei popoli celtici. probabile che si tratti di due forme diverse dello stesso nome, il cui significato originario sarebbe i coraggiosi. Luso che gli autori greci dei III-II secolo a.C. fanno dei due appellativi dimostra che li consideravano perfetti sinonimi. Lo stesso si pu dire per le applicazioni geografiche: verso il II secolo a.C. Polibio si avvale sia di (galatia) sia di (keltia) per indicare la Gallia Cisalpina. Letnonimo latino galli (i furiosi) probabilmente lesatto equivalente del greco (galatai) e sarebbe stato impiegato fin dallinizio del IV secolo a.C., perlomeno se si deve prestare fede allautenticit e allantichit dellepiteto galleis associato al primo trionfo di Camillo (385 a.C.) nei Fasti Capitolini. Al pari degli autori greci, sembra che gli scrittori latini non facessero differenza tra galli e celtae, nome apparentemente pi arcaico: infatti Cesare sottolinea come quelli che i romani chiamavano galli si riconoscessero nel nome di Celti. POLIBIO, LO STORICO PI ACCURATO: LA GEOGRAFIA DELLA GALLIA CISALPINA Le prime notizie sostanziali e coerenti che ci sono pervenute sui Celti figurano nellopera di Polibio di Megalopoli, vissuto nel II secolo a.C., autore delle Storie. Egli era dotato di una buona formazione culturale non solo letteraria ma soprattutto tecnica, indispensabile per un uomo politico quale lui era. Egli giunse a Roma condotto con altri esponenti politici di rilievo per difendersi di fronte al senato da unaccusa di presunta ostilit contro il potere romano: in realt nessun processo ebbe mai luogo, ma egli entr a far parte del Circolo degli Scipioni, stringendo amicizia e iniziando una collaborazione politica con Scipione lEmiliano. Dunque, dopo la battaglia di Corinto del 146 a.C., rientr in patria e si assunse il ruolo di mediatore tra i romani e i propri connazionali. Comprendenti quaranta libri, le Storie narravano gli avvenimenti dal 264 a.C., inizio della prima guerra punica, al 144 a.C., due anni dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto. La sua grande opera storiografica una precisa analisi teorica dellinevitabilit del successo romano: Polibio rappresenta una svolta nella storia della cultura antica, essendo il primo intellettuale greco a porsi organicamente al servizio di Roma. Nel VI libro delle Storie espone la sua teorie politica, che mira a giustificare sul piano astratto la superiorit romana attraverso la minuziosa analisi della sua costituzione. E minuziosa anche la sua descrizione delle caratteristiche geografiche dellItalia settentrionale, prendendo spunto dallinvasione gallica del 225 a.C. Quellanno i Celti (con 50.000 fanti e 25.000 cavalieri, come racconta lo stesso Polibio), aiutati dagli Etruschi, sono sconfitti a Talamone dai Romani. Nella circostanza vengono sottomessi anche i Liguri, popolazione italica abile nella pesca e nella navigazione marittima, che aveva frequenti commerci con i Celti ed i greci di Marsiglia; nel III secolo a.C. si divisero in due gruppi, uno alleato dei Romani, laltro dei Cartaginesi. Limitandosi a pochi dati essenziali sugli usi e i costumi delle popolazioni celtiche che abitavano il Nord della penisola, lo storico concede pi ampio spazio alla loro disposizione sul
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territorio: linteresse etnografico appare dunque subordinato al rigoroso piano politico che presiede generalmente alloperare dello storico. I Celti, venuti a contatto con gli Etruschi loro vicini, invidiosi della fertilit del loro territorio, con un futile pretesto improvvisamente li attaccarono con un numeroso esercito, li cacciarono dalla pianura padana e se ne impadronirono. Nella regione pi vicina alla sorgente del Po si insediarono i Lai e i Lebeci, quindi gli Insubri, che erano la popolazione pi importante, e dopo questi, lungo il fiume, i Cenomani. Abitava invece da molto tempo la parte vicina all'Adriatico un'altra popolazione molto antica, quella dei Veneti per costumi e abitudini poco differenti dai Celti,ma di lingua diversa. Di essi hanno parlato molto e in modo favoloso i tragediografi. Oltre il Po, presso l'Appennino, risiedono per primi gli Anari, poi i Boi, quindi verso l'Adriatico i Lingoni, e infine, presso il mare, i Senoni. Queste erano le pi note fra le popolazioni che occupavano i luoghi suddetti. Tutti i Celti abitavano in villaggi non fortificati e privi di ogni mezzo di vita civile: dormivano in villaggi non fortificati e si nutrivano di carni e, non esercitando che la guerra e l'agricoltura, conducevano una vita molto semplice, del tutto ignari di ogni scienza e di ogni arte. Unica sostanza di ciascuno erano il bestiame e l'oro, i soli beni che facilmente di potessero, a seconda delle circostanze, trasportare dovunque e muovere a proprio piacimento. Davano grande importanza al fatto di avere un seguito di clienti, perch presso di loro era pi temibile e potente chi avesse una corte possibilmente molto numerosa di seguaci che andassero intorno con lui. (Storie II, 17) In questo passo Polibio ci presenta un esaustivo elenco delle popolazioni celtiche che abitavano lItalia nel III secolo a.C. Sulla cacciata degli Etruschi da parte dei Celti in modo cos violento non tutti gli storici sono oggi daccordo. Quella a cui si riferisce lo storico la seconda invasione celtica in Italia, dopo del XI secolo a.C., quando si form la Cultura di Golasecca: nel IV secolo a.C. ci fu una grande migrazione oltre le Alpi (termine che deriva da una parola di origine celtica che designava i pascoli estivi) di trib in cerca di un territorio in cui stabilirsi. Arrivarono certo attratti dalla ricchezza del territorio, ma non sempre vennero a uno scontro con le popolazioni gi presenti: ci accadde per esempio a Felsina, ribattezzata Bonomia, lattuale Bologna, mentre in altri casi si integrarono alle comunit locali con matrimoni misti (come testimoniato a Monte Bibele), e in altre situazioni ancora fondarono autonomamente i propri villaggi, sparsi a macchia di leopardo nella foresta. Le popolazioni citate sono collocate nei loro rispettivi territori con una buona precisione, commisurata alle conoscenze dellepoca della geografia. I Lai erano i Laevi per Livio (Ab Urbe condita V-35) e per Plinio (Naturalis Historia III124), i quali li considerava di stirpe ligure, ed erano stanziati lungo il corso inferiore del Ticino. I Lebeci avevano Vercelli come capitale. Gli Insubri erano una delle popolazioni pi importanti e pi territorialmente estesa: la loro capitale era Medhelan (significa in mezzo alla pianura, da medhan, mezzo o centro, e da lanno, spazio piano), poi romanizzata in Mediolanum e oggi Milano. La funzione di agglomerato centrale degli Insubri attestata per la prima volta proprio da Polibio (Storie II-34) quando fa riferimento agli eventi del 222 a.C., quando viene conquistata la Pianura Padana, dopo la vittoria di Clastidium. Anche Livio attribuisce la fondazione di Milano agli Insubri (Ab Urbe condita V-34). I Cenomani vivevano tra lOglio e lAdige e i loro centri principali erano Verona e Brescia. Intrattenevano ottimi rapporti con i Veneti, loro confinanti a est, ma relazioni meno positive con gli Insubri stanziati a ovest. I Veneti abitavano la zona tra lAdige, il Po e lAdriatico fino al Tagliamento e da l un gruppo di essi si spinse in migrazione fino in Bretagna. Erano ottimi navigatori e potevano contare su una solida struttura sociale. Gli Anari abitavano tra il Po e il Trebbia, a ovest di Piacenza. I Boi, secondo Livio, provenendo dalla Gallia occuparono il territorio dellattuale Bologna. Nel V libro della sua opera ci dice infatti: Le notizie che abbiamo circa la migrazione dei Galli in Italia sono queste. Durante il regno di Tarquinio Prisco a Roma, i Celti - che sono uno dei tre ceppi etnici della
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Gallia - si trovavano sotto il dominio dei Biturigi i quali fornivano un re al popolo celtico. In quel tempo il re in carica era Ambigato, uomo potentissimo per valore e ricchezza tanto personale quanto dell'intero paese, perch sotto il suo regno la Gallia raggiunse un tale livello di abbondanza agricola e di popolosit da sembrare che una tale massa di individui la si potesse governare a mala pena. E siccome Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da quell'eccesso di presenze, annunci che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i due intraprendenti figli di sua sorella, a trovare quelle sedi che gli dei, per mezzo degli auguri, avrebbero loro indicato come appropriate. Erano autorizzati a convocare tutti gli uomini che ritenevano necessari all'operazione, in maniera tale che nessuna trib potesse impedir loro di stanziarsi nel luogo prescelto. La sorte assegn allora a Segoveso la regione della selva Ercinia, mentre a Belloveso gli dei concedevano un percorso ben pi piacevole, e cio la strada verso l'Italia. Prendendo con s gli uomini che risultavano in eccesso tra le trib dei Biturigi, degli Arverni, dei Senoni, degli Edui, degli Ambarri, dei Carnuti e degli Aulerci, Belloveso si mise in marcia con un ingente schieramento di fanti e cavalieri ed entr nel territorio dei Tricastini. L si trovarono di fronte le Alpi: e non c' affatto da stupirsi che apparissero invalicabili, visto che fino ad allora non c'erano valichi che ne permettessero l'attraversamento (stando almeno alla tradizione storica e se non si vuole credere alle leggende relative alle imprese di Ercole). L, mentre i Galli, quasi rinserrati tra le alte montagne, si guardavano intorno domandandosi dove mai sarebbero riusciti a passare in un altro mondo al di l di quelle cime che arrivavano a toccare la volta del cielo, vennero trattenuti anche da uno scrupolo religioso perch arriv la notizia che degli stranieri alla ricerca di terre erano stati attaccati dai Salluvi. Si trattava dei Massiliesi, partiti via mare da Focea. I Galli allora, ritenendolo un buon auspicio per il proprio futuro, li aiutarono, senza trovare resistenza nei Salluvi, a fortificare il luogo in cui si erano attestati subito dopo lo sbarco. Attraversarono quindi il territorio dei Taurini [il Piemonte odierno allincirca: Torino era il loro capoluogo] e valicarono le Alpi nella zona della Dora. Poi, dopo aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, e saputo che il punto in cui si erano accampati si chiamava "territorio degli Insubri" (nome identico a quello del cantone abitato dagli Edui), considerarono questa coincidenza un segno beneaugurale del destino e fondarono in quel luogo una citt che chiamarono Mediolano. (Ab Urbe Condita V-34) Erano una popolazione giunta probabilmente dallEuropa centrale, dove il loro ricordo si perpetua del nome della Boemia (Boiohaemum). I Lingoni si stanziarono nel territorio a sud del Po fino a Ravenna e Rimini. I Senoni furono gli ultimi a giungere in Italia e si stabilirono tra Ravenna e Senigallia. Poco pi avanti nel libro, Polibio ci dice di loro: I pi grandi di questo popolo [i Celti], gli Insubri e i Boi, si concertarono e mandarono degli inviati presso i Galli che abitavano lungo le Alpi e il Rodano, quelli che sono chiamati, perch facevano la guerra per soldo, Gesati il significato della parola I Galli Gesati, dopo aver messo in piedi una armata, magnifica e potente, valicate le Alpi, arrivarono al Po otto anni dopo (nel 225 a.C.) la spartizione del paese (tra i coloni romani). (Storie II-22,23) I Senoni rappresentano la punta meridionale degli stanziamenti celtici in Italia e si spinsero ad occupare anche la regione settentrionale delle Marche, a contatto con lemporio siracusano di Ancona: la posizione molto favorevole permise loro di stringere delle relazioni molto strette con i vicini Umbri e Piceni. Altre indicazioni sulla presenza celtica in Italia si possono rintracciare nel cosiddetto Periplo del Mediterraneo di Pseudo-Scilace, redatto verso la met del IV secolo a.C.: ci segnala popolazioni celtiche sulle coste nord-occidentali del mare Adriatico, situabili dunque in unarea a sud del delta del Po, forse nelle vicinanze di Spina, nella parte meridionale della costa occupata dai Veneti.
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In generale, il delta del Po era strategicamente essenziale per i traffici con le zone interne e le popolazione celtiche descritte nel Periplo facevano concorrenza al dominio veneto sulla riva settentrionale della foce. Ci chiarisce uno degli aspetti che svolsero un ruolo importante nellinsediamento di popolazione celtiche dalla Gallia Transalpina in Pianura Padana: la volont di impossessarsi dei ricchi traffici degli empori lungo il delta, punto di partenza per una rete di vie fluviali e alpine che riconducevano alla loro terra dorigine. Alcune preziose notizie, conservate grazie alle esigue citazioni fatte da altri autori, provengono dallopera perduta di Catone il Vecchio, che scrisse in latino i sette libri delle Origini, dedicati alla storia di Roma e dei territori sotto il suo dominio. In particolare dovevano contenere una ricca documentazione sulla storia e lorganizzazione del Celti cisalpini. Fra le opere antiche dedicate ai Celti, il testo pi importante era certamente il libro XXIII delle Storie perdute dellerudito greco Posidonio di Apamea, continuatore dellopera di Polibio. Alcuni passi giuntici senza troppe alterazioni rivelano che fu la fonte principale di tutti gli autori posteriori che si occuparono dei Celti. Dotato di spirito critico, preoccupato dalla precisione e caratterizzato dalla volont non solo di descrivere ma anche di spiegare, Posidonio mise a profitto la sua conoscenza diretta dellambiente celtico, acquisita allinizio del I secolo a.C. nella provincia della Gallia Narbonese. Egli anche autore di unopera di geografia generale sullestremo occidente intitolata Descrizione delloceano, poi usata come fonte di informazioni dai suoi successori, soprattutto da Stradone. Posidonio aveva tentato di delineare unimmagine oggettiva delle societ barbariche del suo tempo, della loro economia, dei loro usi e delle loro credenze. Numerosi prestiti da Posidonio si trovano in alcuni libri della Biblioteca storica di Diodoro Siculo. Lepoca augustea ci ha tramandato un gran numero di testi sulla questione dei Galli Cisalpini. La prospettiva in cui vennero redatti tali testi sui rapporti tra Roma e i Galli li rende tendenzialmente filo-romani, con la conseguenza di deformazioni, omissioni, ripetizioni di luoghi comuni, notizie di carattere aneddotico e leggendario. Tuttavia essi restano una fonte di primordine non solo per la storia della presenza celtica in Italia, ma anche per gli altri conflitti che opposero i Celti ai Romani. Lopera Ab Urbe condita del cisalpino Tito Livio, originario di Padova, ci fornisce perci notizie essenziali sulle vicende dei Galli in Italia, le cui invasioni sono narrate nel libro V, uno dei testi pi dibattuti sulla storia dei Celti. Linvasione dellItalia da parte dei Celti transalpini ampiamente revocata anche dalle Antichit romane di Dionigi di Alicarnasso, che sembra aver raccolto le sue notizie indipendentemente da Livio. BIBLIOGRAFIA Giulio Guidorizzi, La letteratura greca Rivista Celtica, n34 di novembre-dicembre 2004 Venceslas Kruta, La grande storia dei Celti Elio Rosati, I Celti

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