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L’uomo e il tempo
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Samuele Bacchiocchi
IMMORTALITÀ O
RISURREZIONE?
Ricerca biblica sulla natura
e il destino dell’uomo
Edizioni ADV
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ISBN: 88-7659-133-8
Prefazione
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Presentazione
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Presentazione
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Presentazione
contrario, la vita non fosse presente, l’uomo non avrebbe, per ciò stes-
so, alcuna possibilità di provare se stesso, né di esaminare se stesso.
L’uomo sa per certo di non essersi chiamato autonomamente all’esi-
stenza. Egli chiaramente percepisce il fatto che il mondo in cui è chia-
mato ad esprimere la propria umanità non è stato né da lui creato, né
è da lui mantenuto in essere.
La creatura umana si rende conto di essere in grado di poter guar-
dare dentro di sé come fosse al proprio esterno e cogliesse di se stes-
sa molti aspetti che via via potrà analizzare.
Se la prima visione qui proposta la si è denominata ontologica, la
seconda la si può definire soggettiva, e la terza ed ultima visione la si
può denominare oggettiva. L’essere umano non ha difficoltà a ricono-
scere di essere una creatura meravigliosa e complessa allo stesso
tempo. Si rende facilmente conto di essere un corpo con organi e
muscoli. Riconosce altresì di essere un’insieme di passioni, di deside-
ri e di volontà; così come è certo di essere depositario di intelligenza
e di sapere.
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spirito
energie mentali
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Presentazione
TU IO EGLI
(ontologicamente) (soggettivamente) (oggettivamente)
Nel momento in cui Dio fonde i due elementi, l’uomo riceve la vita.
Essa vita, ovviamente, non è sua propria, gli è stata data anche perché
potesse trasmetterla. Dio ha creato solo la prima coppia lasciando a
essa il compito non solo di diventare individui singoli e autonomi, ma
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Giuseppe De Meo
NOTA
Questi ultimi due diagrammi sono stati presentati dal professore svizzero Jean
Zurcher durante le lezioni sulla «natura dell’uomo», svoltesi a Firenze nel 1964, orga-
nizzate dall’Andrews University. (Cfr. dello stesso, L’Homme, sa nature et sa destinée,
Imprimerie Delachaux & Niestlé S.A., Neuchâtel, 1953.
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Introduzione
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Introduzione
Gli obiettivi
Questo studio si avvale di recenti ricerche compiute da numerosi stu-
diosi e tenta di mostrare come l’insegnamento biblico della natura
umana possa influire in grande misura nella comprensione che l’uomo
ha di se stesso, del mondo presente, della salvezza e del suo destino
finale. Spero di poter conseguire un duplice obiettivo.
Il primo è quello di stabilire quale sia l’insegnamento biblico in-
torno alla natura umana per dimostrare che l’essere umano è un tut-
t’uno indivisibile. Questa verità è stata accettata, negli anni recenti, da
molti studiosi di varie denominazioni. Nella Bibbia non troviamo il con-
cetto di una vita autonoma dell’anima separata dal corpo, anzi l’anima,
lo spirito e il cuore non costituiscono i componenti che si ag-giungono
al corpo, ma le caratteristiche che insieme al corpo sono parte inte-
grante della stessa persona. La dicotomia tra corpo e anima deriva
dalla filosofia platonica e non dalla rivelazione biblica. È risaputo che
il concetto di Platone di un corpo come prigione dell’anima è estraneo
alla Bibbia e ha compromesso la spiritualità cristiana, il tema della sal-
vezza e quello relativo alle cose finali.
Il secondo obiettivo è di comprendere in che modo l’insegnamen-
to biblico intorno alla natura umana possa interagire sulla vita presen-
te e su quella futura. Tra gli studiosi c’è la tendenza a esaminare sepa-
ratamente il concetto biblico dell’uomo (antropologia biblica) e quello
del destino umano (escatologia biblica). Eppure, i due aspetti teologici
non possono essere studiati separatamente.
In genere, l’analisi, fatta con grande abilità, conduce alla divisione
e alla separazione, ma spesso non è seguita da una sintesi capace di
mostrare in che modo le varie parti si armonizzino fra di loro per risco-
prire un quadro più completo. In questo studio, si tenterà di mostrare
come la verità biblica circa l’indivisibilità della natura umana sia un
valido supporto per comprendere il destino umano in cui il corpo, l’a-
nima, la carne, il cuore, la mente e lo spirito fanno tutti parte della
creazione di Dio, della redenzione e della restaurazione finale.
La procedura
Per mantenere un’esposizione logica lo studio seguirà la seguente pro-
cedura. In un primo momento esaminerò il concetto biblico della natu-
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Introduzione
Il dualismo classico
La nozione classica della natura umana deriva in massima parte dagli
scritti di Platone, Aristotele e dai filosofi stoici. Il pensiero dominante
della speculazione filosofica relativa all’uomo è caratterizzato dalla
distinzione tra materia e anima. Nel pensiero platonico, la natura
umana è costituita da una componente materiale e da una spirituale. Il
corpo è formato dalla materia ed è sostanzialmente malvagio; la com-
ponente spirituale è, invece, l’anima (psyche) o la mente (nous), che è
essenzialmente buona. Il corpo umano è transitorio e mortale mentre
l’anima umana è permanente e immortale. Alla morte, l’anima viene
liberata dalla prigione del corpo dove è stata, per un periodo, sepolta.
Nel tempo, il pensiero cristiano è stato profondamente influenzato da
questa visione dualistica e non-biblica della natura umana. Le impli-
cazioni teologiche e le conseguenze pratiche derivanti dalla filosofia
classica sono state davvero incalcolabili.
2 R. NIEBUHR, The Nature and Destiny of Man, New York, 1941, pp. 4-17.
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considerate «molto buone» (Gn 1:31). Nelle prime pagine della Bibbia
non troviamo nessuna contrapposizione tra la materia e lo spirito, tra
il corpo e l’anima, perché fanno tutti parte della creazione di Dio. La
redenzione prevede la restaurazione di tutta la persona, corpo e anima,
e non la salvezza di un’anima separata dal corpo.
La seconda differenza è che la natura umana non è stata creata
con un’immortalità innata, ma con la possibilità di diventare immorta-
le. Gli esseri umani non possiedono un corpo mortale e un’anima
immortale, ma sono individui che con il corpo e l’anima sono candida-
ti all’immortalità.
La vita eterna è il dono di Dio a coloro che accettano il piano della
salvezza; quelli che lo rifiutano conosceranno la di-struzione eterna,
non un tormento eterno, né un fuoco infernale che duri sempre. La
ragione è semplice: l’immortalità è data come ricompensa ai salvati e
non come retribuzione ai non-salvati.
Questo è il messaggio del Vangelo: Dio ha creato Adamo ed Eva
come esseri mortali ma candidati alla vita eterna, se solo avessero
mangiato il frutto dell’albero della vita. Anche noi, figli di Adamo,
nasciamo mortali ma possiamo ricevere la vita eterna se accettiamo il
dono di Dio. L’immortalità è un dono e non un possesso umano innato.
È condizionato dalla nostra volontà di accettare la grazia di Dio per la
salvezza della nostra intera natura, corpo e anima. Così la soluzione
biblica è anche chiamata immortalità condizionale, perché è offerta da
Dio a condizione che l’uomo l’accetti.
Il dibattito corpo-anima
Alcuni lettori potranno dire che la discussione del corpo in contrasto
con l’anima sia un problema superato che non interessa più a nessuno
e dedicare un libro solo a questo argomento potrebbe sembrare ecces-
sivo. La verità è che la questione è lontana dall’essere irrilevante o
superata. Il suicidio di massa di 39 persone in una residenza di San
Diego, in California, che volevano abbandonare il «contenitore» del
loro corpo per raggiungere con le loro anime la cometa Hale-Bopp,
ricorda quanto sia viva la discussione intorno al corpo e l’anima.
Oggi più che mai, l’interesse per la vita ultraterrena sembra sia
diventato di grande attualità. Nel medioevo la fede nella vita ultrater-
rena è stata mantenuta accesa attraverso rappresentazioni letterarie,
artistiche e superstiziose della beatitudine dei santi e dei tormenti dei
peccatori. Oggi, questa convinzione è diffusa in modo più sofisticato
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Introduzione
3 G.E. LADD, A Theology of the New Testament, Grand Rapids, 1974, p. 457. Sul dibatti-
to corpo-anima in campo filosofico e logico-linguistico segnaliamo lo studio corredato
da una ricca biobliografia di G. GAVA, Mente versus corpo, un errore logico-linguistico,
Liviana Ed., Padova, 1977.
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Introduzione
Dualisti preoccupati
Questi ultimi sviluppi preoccupano coloro che continuano a mantene-
re una comprensione dualistica della natura umana. Il libro di Cooper
rappresenta uno dei molteplici tentativi di riaffermare l’insegnamento
dualistico e tradizionale cercando di rispondere agli attacchi sul duali-
smo. La ragione è bene espressa dallo stesso Cooper: «Se ciò che [gli
studiosi] dicono fosse vero, allora bisogna rispondere a due do-mande
veramente sconvolgenti. La prima è che una dottrina affermata dalla
maggior parte della chiesa cristiana è falsa. La seconda, più personale
ed esistenziale, è che sarebbero delusi quei milioni di cristiani convin-
ti di ottenere il premio alla loro morte».5
Cooper è profondamente impensierito per l’alto costo «emotivo»
determinato dall’abbandono del concetto dualistico della natura
umana. Egli scrive: «Il più ovvio è che le convinzioni che praticamente
tutti i comuni cristiani hanno circa la vita ultraterrena, debbano esse-
re gettate come si getta a mare un carico in caso di pericolo. Se le
anime non sono qualcosa che si possa staccare dai corpi, allora, in real-
tà, non esistiamo, tra la morte e la risurrezione, né con Cristo né da
qualche altra parte, né consciamente né tanto meno inconsciamente.
Questa conclusione causerà a molti cristiani, livelli di ansietà esisten-
ziale. Un costo più generale è costituito dalla perdita di un altro asse
nella piattaforma delle convinzioni tradizionali cristiane, forzatamente
slegato e gettato fra gli scampoli della informata cultura moderna».6
Non c’è nessun dubbio che la moderna cultura biblica stia causan-
do grande «ansietà esistenziale» a milioni di sinceri cristiani i quali
credono che, alla morte, le loro anime disincarnate andranno in cielo,
là dove ora sono quelle dei loro cari. Qualsiasi provocazione contro la
rassicurante tradizione del passato può essere devastante. Eppure quei
cristiani che riconoscono l’autorevolezza normativa della Scrittura
dovrebbero essere disposti a riesaminare le proprie convinzioni e a
cambiarle se non sono in armonia con essa.
4 J. W. COOPER, Body, Soul and Life Everlasting. Biblical Anthropology and the Monism-
Dualism Debate, Grand Rapids, 1989, p. 3.
5 Ibidem, p. 1.
6 Ibidem, p. 4.
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Atteggiamenti scorretti
In certi casi, la reazione ha preso forma di molestia. Il rispettato teolo-
go canadese Clark Pinnock menziona alcune delle tattiche di molestia
messe in atto per screditare eventualmente gli studiosi evangelici che
avessero abbandonato il punto di vista dualistico della natura umana e
la dottrina attinente all’eterno tormento di un inferno ardente.
Una delle tattiche è stata quella di associare questi studiosi o ai
liberali o ai settari come gli avventisti. Pinnock scrive: «Sembra che sia
stato scoperto un nuovo criterio per definire la verità, secondo il quale
se gli avventisti o i liberali difendono una determinata posizione, allo-
ra deve essere sicuramente sbagliata. Chiaramente si può vedere che
una verità può essere stabilita in base a una associazione, e non ha
bisogno di essere provata dall’opinione pubblica attraverso un dibatti-
to aperto e franco. Un tale argomento, inutile in una discussione intel-
ligente, potrebbe avere un qualche effetto sulle persone meno prepa-
rate perché sedotte dalla retorica».8
Nonostante gli atteggiamenti poco simpatici, la posizione biblica
circa il concetto unitario dell’uomo, che nega l’immortalità naturale
dell’anima e, di conseguenza, le pene dell’inferno dei non salvati, sta
ottenendo un sempre maggiore consenso tra gli evangelici. Con il suo
appoggio pubblico, John R.W. Stott, noto teologo e predicatore britan-
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9 Ibidem, p. 162.
10 J.R.W. STOTT e D. EDWARDS, Essentials, A Liberal-Evangelical Dialogue, London,
1988, pp. 319-320.
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11 Si consiglia di consultare Christianity Today (June 16, 1989), pp. 60-62. John
Ankerberg sostiene che negare la concezione tradizionalista dell’immortalità dell’a-
nima e della punizione eterna nell’inferno, equivale a negare la divinità di Cristo (cfr.
K.S. KANTZER e C.F. HENRY, eds., Evangelical Affirmations, Grand Rapids, 1990).
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Introduzione
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no che una parte di se stessi sia incapace di non esistere. Tale convin-
zione esalta l’individuo e dà la certezza che una parte di sé ritorna al
Signore. Mentre quelli che credono alla risurrezione finale non posso-
no esaltare se stessi perché hanno riposto la fiducia in Cristo Gesù e
nelle sue promesse, tra cui quella del suo glorioso ritorno per risusci-
tare i morti e trasformare i viventi. Questo significa che non sono le
anime dei morti che «volano» in cielo, ma è il Signore che «viene» dal
cielo per incontrare i suoi fedeli.
Un’altra conseguenza della speranza individuale fondata sull’im-
mortalità immediata risiede nel fatto che essa cancella la speranza
biblica comunitaria per un’ultima restaurazione della creazione e delle
sue creature (cfr. Rm 8:19,23; 1 Cor 15:24,28). Quando l’unico futuro
che conta veramente è la sopravvivenza dell’anima individuale alla
morte, l’angoscia per l’umanità raggiunge un interesse periferico e
marginale. In questo modo il valore della redenzione di Dio che per-
mea tutto il cosmo viene a essere grandemente offuscato. La conse-
guenza ultima, secondo Abraham Kuyper, è questa: «La maggioranza
dei cristiani pensa a un futuro che non va oltre la propria morte».12
12Citato da G.C. BERKOUWER, The Return of Christ, Grand Rapids, 1972, p. 34. La stessa
visione è espressa da R. F. ALDWINCKLE, Death in the Secular City, London, 1972, p. 82.
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Implicazioni pratiche
Il dualismo classico della natura umana ha privilegiato le attività intel-
lettuali a scapito di quelle manuali. L’esistenza di un’anima separata
dal corpo ha svilito tutte le attività legate al corpo e soppresso gli appe-
titi fisici, impulsi naturali e salutari. Per contro, l’uomo secondo la
Bibbia, come unità psicosomatica indivisibile, canta la creazione di
Dio, compreso il piacere fisico.
La spiritualità medioevale aveva promosso la mortificazione della
carne come un modo per raggiungere la meta divina della santità. I
santi sono persone ascetiche che si dedicano alla «vita contemplativa»,
distaccando se stessi dalla «vita activa». Dal momento che la salvezza
dell’anima veniva considerata più importante di quella del corpo, gli
impulsi fisici dello stesso furono intenzionalmente trascurati o persino
soppressi.
La dicotomia tra corpo e anima, tra fisico e spirituale, è ancora
presente nel pensiero di molti credenti. Sono ancora molti coloro che
associano la redenzione solo all’anima e non al corpo umano. La mis-
sione della chiesa consisterebbe nel «salvare le anime», perché sono
più importanti dei corpi.
Conrad Bergendoff afferma: «I vangeli non offrono nessuna base
per una teoria di redenzione che salvi le anime separatamente dai
corpi. Quello che Dio ha congiunto, filosofi e teologi non dovrebbero
separare. Essi sono colpevoli di aver decretato il divorzio tra corpo e
anima che Dio, invece, ha unito alla creazione; la loro colpa, poi, non
diminuisce quando si scusano asserendo che la salvezza è, così, facili-
tata. Fino a quando l’essere umano non riconoscerà una teoria di
redenzione che soddisfi tutte le sue aspettative, non capirà le ragioni
per cui Cristo si sia incarnato per salvare l’umanità».13
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15 Citato da D.R.G. OWEN, Body and Soul. A Study on the Christian View of Man,
Philadelphia, 1957, p. 28.
16 Dal poema di John Donne, The Anniversary.
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a fare agli altri, per gli altri, con gli altri e al proprio ambiente, dipen-
de in buona misura da quello che pensano di Dio, della natura, di se
stessi e del destino».17
La persona intera
Il concetto dell’uomo secondo la Bibbia incoraggia tutti ad avere rispet-
to per la persona intera. Nella predicazione, nell’insegnamento e nella
missione la chiesa deve rispondere non solo alle esigenze spirituali
dell’anima, ma anche a quelle fisiche. È compito della chiesa salva-
guardare il creato e rispettare la persona, in modo che ogni credente
possa ricercare la salute fisica, emotiva e spirituale.
Nella missione evangelistica la chiesa non si occuperà solo delle
«anime», ma anche delle condizioni di vita, della prevenzione, della
salute, dell’alimentazione e dell’educazione. Lo scopo dovrebbe essere
quello di servire al meglio il mondo, non di evitarlo, chiudendosi in
uno spazio sacro. I problemi della giustizia sociale, della guerra, del
razzismo, della povertà e dello squilibrio economico riguardano tutti i
credenti perché essi credono che Dio operi per restaurare l’uomo e il
mondo intero. L’educazione cristiana dovrebbe promuovere lo svilup-
po della persona nella sua completezza.
La formazione scolastica dovrebbe mirare non solo allo sviluppo
intellettivo, ma anche a quello fisico e spirituale. Un buon programma
di educazione fisica dovrebbe essere considerato importante quanto
quelli accademici e religiosi. I genitori e gli educatori dovrebbero for-
nire le nozioni basilari per acquisire buone abitudini alimentari, per
prendersi cura del proprio corpo e per svolgere un programma di eser-
cizi fisici regolari.
La visione biblica della persona ha anche implicazioni di carattere
medico. La scienza medica ha recentemente sviluppato quella che è
nota come «medicina integrata». Professionisti «integrali» della salute
«enfatizzano la necessità di curare l’intera persona, inclusa la condi-
zione fisica, la nutrizione, lo stato emotivo, lo stato spirituale, i valori
dello stile di vita e dell’ambiente».18
Nel 1975, durante la prolusione accademica alla facoltà di medici-
na dell’università John Hopkins, il dott. Jerome D. Frank disse ai suoi
allievi: «Qualsiasi trattamento di una malattia che non inglobi anche lo
17 H.H. BARNETTE, The Church and the Ecological Crisis, New York, 1972, p. 65.
18 Encyclopedia Americana, 1983 ed., s. v. «Holistic Medicine», p. 294.
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pensieri!» (Sal 92:4,5). L’allegrezza del salmista per il suo corpo mera-
viglioso e per la magnificenza della creazione è basata sulla sua con-
cezione unitaria del mondo, creato come parte integrante dell’intera
opera della creazione e della redenzione.
Realismo biblico
L’insegnamento biblico circa la natura umana si ripercuote anche sul
nostro modo di vedere il mondo futuro. Nella sesta parte, vedremo in
che modo la Bibbia descrive il mondo avvenire, non come un paradiso
etereo dove le anime glorificate trascorreranno l’eternità vestite di
tuniche bianche, cantando, suonando arpe, pregando, inseguendo nubi
e bevendo latte di ambrosia.
La Bibbia, al contrario, parla di santi risuscitati che abitano su que-
sto pianeta purificato, trasformato e perfezionato con la venuta del
Signore (cfr. 2 Pt 3:11,13; Rm 8:19,25; Ap 21:1). I «nuovi cieli e la nuova
terra» (Is 65:17) non sono affatto un ritiro spirituale remoto fra spazi
siderali non meglio definiti, ma indicano il presente cielo e la terra
odierna riportati alla loro perfezione originale.
I credenti entrano nella nuova terra non come anime disincarna-
te, ma come persone risuscitate (cfr. Ap 20:4; Gv 5:28,29; 1 Ts 4:14,17).
Sebbene nulla di impuro entrerà nella nuova Gerusalemme, viene
detto che «i re della terra porteranno la loro gloria [alla luce]... e por-
teranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (Ap 21:24,26). Questi ver-
setti suggeriscono che tutto quello che ha vero valore nell’antico cielo
e sulla vecchia terra, inclusi i successi dell’abilità inventiva, artistica e
intellettuale dell’uomo, troveranno posto nell’ordine eterno. L’im-
magine stessa di «città» trasmette l’idea di abilità, vitalità, creatività e
relazioni reali.
Conclusione
Intorno all’uomo due grandi concetti si oppongono radicalmente: uno
è il dualismo classico e l’altro l’unità psicosomatica biblica. Il dibattito
in corso sull’insegnamento biblico della natura umana ha mostrato
l’importanza fondamentale di questo argomento per l’insieme delle
dottrine e delle pratiche cristiane. È imperativo, perciò, esaminare con
umiltà quello che la Bibbia insegna intorno all’uomo. Nella prima e
nella seconda parte esamineremo i termini relativi alla persona umana
utilizzati nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Dalla terza alla sesta
parte vedremo il destino dell’uomo.
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I PARTE
LA NATURA UMANA
NELL’ANTICO TESTAMENTO
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Capitolo 1
La creazione dell’uomo
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Capitolo 1
Questa deprimente visione , che riduce gli esseri umani allo stato
di una macchina o di un animale, nega l’evidenza biblica dell’uomo
creato a immagine di Dio. L’uomo nega la sua origine divina e diventa
sempre più «simile a un animale». Per questo motivo, forse, in risposta
a un concetto così pessimistico, sorgono vari culti e ideologie pseudo-
pagane (come il New Age) che deificano gli esseri umani.
Secondo questi movimenti, l’uomo non è né «simile a un animale»
né «simile a Dio», egli stesso è dio e ha in sé risorse e poteri divini che
attendono d’esser liberati. Questo nuovo vangelo umanistico gode oggi
di grande popolarità perché incoraggia le persone a ricercare una sal-
vezza interiore in modo da liberare i poteri e le risorse latenti.
Ciò che la società sta sperimentando oggi è una fulminea oscilla-
zione del pendolo verso i due estremi, andando da un concetto pura-
mente materialistico della natura umana, a un altro, invece, mistico e
deificato. Con queste premesse si è confrontati tra due scelte: o gli
esseri umani sono macchine pre-programmate, oppure sono esseri
divini con un potenziale illimitato. La risposta cristiana a questa sfida
deve essere cercata nelle Scritture che forniscono le basi per definire
le convinzioni e le azioni.
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La creazione dell’uomo
alla redenzione per spiegare le distinzioni dei ruoli tra uomini e donne
(cfr. 1 Cor 2:3,12; 1 Tm 2:12,14), oltre che la loro uguaglianza in Cristo
(cfr. Gal 3:28).
Quando si considera la questione della natura umana partendo
dalla prospettiva biblica della creazione, della caduta e della redenzio-
ne, si vede immediatamente come la creazione descrive l’origine della
natura umana, la caduta ne illustra la condizione presente e la reden-
zione descrive le prospettive della restaurazione. Quest’ultima, poi, è
già compiuta nel presente anche se si realizzerà completamente nel
futuro. Così, per una completa definizione biblica della natura umana,
è necessario prendere in considerazione che cosa accadde alla crea-
zione, che cosa è diventato l’uomo dopo la caduta e che cosa diverrà
nel futuro, come risultato della redenzione.
«Facciamo l’uomo»
Il termine «uomo», usato nelle Scritture, indica sia l’uomo sia la donna.
La prima importante affermazione biblica si trova nella Genesi: «Poi
Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglian-
za, e abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul
bestiame e su tutta la terra, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.
Così Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li
creò maschio e femmina» (Gn 1:26,27).
Questo primo racconto della creazione dell’uomo assicura che la
vita non ebbe inizio attraverso il concorso di forze naturali fortuite o a
seguito di una mutazione casuale nel mondo animale, ma come risul-
tato di un atto creativo e personale di Dio. Solo dopo aver chiamato
all’esistenza la terra, la vegetazione e gli animali, il Signore annuncia
la creazione dell’uomo. L’essere umano viene così a essere il punto
focale della creazione di Dio. L’impressione che si coglie dal racconto
divino della creazione dell’uomo è l’affermazione di Dio che si è spin-
to verso qualcosa di diverso e di particolare.
Alla fine di ogni atto creativo del mondo (cfr. Gn 1:4,10,12,18,21,25)
Dio si è fermato a contemplare la propria opera per definirla «buona» .
Allora Dio si dispose a creare un essere che potesse avere la signoria
sulla sua creazione: un essere con cui poter camminare e parlare.
L’avverbio «allora», all’inizio del versetto 26 suggerisce l’idea che la
creazione dell’uomo costituì qualcosa di particolare. Tutti i precedenti
atti creativi di Dio sono introdotti come una concatenazione progressi-
va collegata insieme dalla congiunzione «e» (cfr. Gn 1:3,6,9,14,20,24).
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Capitolo 1
Un’azione particolare
Questa dichiarazione divina e assolutamente originale suggerisce due
verità fondamentali:
1. l’uomo è una creazione particolare di Dio la cui vita dipende da
lui e continua solo grazie alla sua misericordia. Questo senso di conti-
nua, umana dipendenza dall’Altissimo, è fondamentale per la com-
prensione biblica sulla natura umana. Dio è Creatore e gli esseri umani
sono creature che dipendono da lui sia per l’origine sia per il prose-
guimento della loro esistenza.
2. l’uomo è distinto da Dio. Gli esseri umani hanno un inizio tem-
porale, mentre Dio è eterno. Il Signore non è un uomo che dovrà mori-
re. Le Scritture evidenziano il contrasto tra gli attributi infiniti di Dio
come Creatore e quelli limitati e finiti relativi all’uomo come creatura.
Questa è una considerazione importante da tenere presente quan-
do si considera l’insegnamento biblico della natura umana. Tutta la
rivelazione divina presenta gli esseri umani come creature dipenden-
ti, ma distinte da Dio (cfr. Is 45:11; 57:15; Gb 10:8,10).
Eppure, nonostante l’enfasi sulla dipendenza dell’uomo quale
creatura di Dio, questi rimane in una posizione di relazione del tutto
particolare con il Creatore. «Il carattere distintivo della sua umanità
non solo lo separa dalle altre creature di Dio, ma lo consacra anche al
servizio amorevole e grato verso il proprio Creatore».20
L’immagine di Dio
La caratteristica distintiva della relazione dell’uomo con Dio è conte-
nuta nell’espressione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme
alla nostra somiglianza» (Gn 1:26; cfr. 5:1,3; 9:6). Nella storia questa
espressione è stata commentata in diversi modi.21
Alcuni ritengono che l’immagine sia la somiglianza fisica tra Dio e
20 P.E. HUGHES, Hope for a Despairing World, Grand Rapids, 1997, p. 50.
21 Per maggiori dettagli circa le varie interpretazioni dell’immagine di Dio si può con-
sultare H.D. MCDONALD, The Christian View of Man, Westchester, Illinois, 1981, pp. 33-
41. In italiano B. MONDIN, Antropologia teologica, Edizioni Paoline, Alba, 1977 pp. 81-123.
42
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La creazione dell’uomo
22 Per esempio, C. RYDER SMITH afferma che i termini ebraici e l’equivalente in greco sug-
geriscano una somiglianza fisica tra Dio e l’uomo (cfr. The Bible Doctrine of Man,
London, 1951, pp. 29,30). Mentre H. GUNKEL fa riferimento al modo antropomorfico con
cui l’Antico Testamento descrive Dio (cfr. The Legend of Genesis, Chicago, 1901, pp. 8-10).
23 R. LAIRD-HARRIS, Man-God’s Eternal Creation: A Study of Old Testament Culture,
Chicago, 1971, p. 24.
24 J. CALVIN, Istituzione della religione cristiana (a cura di G. Tourn), Torino, Utet,
1971, 1, XV, 3, London, 1949, Vol. 1, pp. 294,295.
25 Il pensiero espresso da P. Jewett, seguace di K. Barth riguardo all’immagine di Dio
nell’uomo è polarizzato sull’espressione maschio-femmina. Egli dichiara: «Genesi
1:27b (“li creò maschio e femmina”) è una spiegazione di 1:27a (“Dio creò l’uomo a
sua immagine”)» Man: Male and Female, Grand Rapids, 1975, p. 33.
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Capitolo 1
tazione è che afferma troppo e, allo stesso tempo, troppo poco perché
riduce l’immagine di Dio esclusivamente all’uguaglianza dei due sessi.
L’interpretazione dell’immagine di Dio nella polarizzazione ses-
suale ha portato alcuni studiosi a ipotizzare Dio come un essere andro-
gino, contemporaneamente maschio e femmina. Questo concetto è
estraneo alla Bibbia dal momento che Dio non ha bisogno di una con-
troparte femminile per completare la sua identità. L’agire di Dio qual-
che volta è paragonato a quello di una madre compassionevole (Is
49:15), ma la persona di Dio è particolarmente rivelata, in Gesù Cristo,
quale Padre nostro.
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La creazione dell’uomo
La «persona vivente»
La seconda importante affermazione biblica per capire la natura umana
si trova in Genesi 2:7. Non deve sorprendere che questo testo costitui-
sca il fondamento per la riflessione concernente la natura umana. Esso
è, dopo tutto, l’unico racconto biblico che informi su come Dio abbia
creato l’uomo. Il testo dice: «E il Signore Iddio formò l’uomo della pol-
vere della terra, e gli alitò nelle nari un fiato vitale; e l’uomo fu fatto
anima vivente» (Diodati). La nuova Riveduta molto più correttamente
traduce: «Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli sof-
fiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente».
Storicamente, questo testo è stato letto attraverso le lenti del dua-
lismo classico. È stato dato per scontato che l’alito di vita che Dio ha
soffiato nelle narici dell’uomo fosse un’anima immateriale e immorta-
le immessa da Dio nel corpo materiale. Alla luce di questa interpreta-
zione, si sostiene che come la vita terrena ebbe inizio con l’innesto di
un’anima immortale in un corpo fisico, così la fine avverrà quando l’a-
nima lascerà il corpo. Genesi 2:7 è stato storicamente interpretato alla
luce del dualismo tradizionale corpo-anima. Ciò che ha portato a que-
sta errata e mistificante interpretazione va ricercato nel fatto che la
parola ebraica nefesh, tradotta «anima» in Genesi 2:7, è stata intesa
secondo la definizione tratta dal dizionario della lingua italiana:
«Principio immateriale della vita dell’uomo contrapposta al corpo e tra-
dizionalmente ritenuta immortale o addirittura partecipe del divino» o,
ancora: «Principio spirituale incarnato in esseri umani».26
Questa definizione riflette la concezione platonica dell’anima
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Capitolo 1
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29 J. PEDERSEN, Israel: Its Life and Culture, London, 1926, Vol. 1, p. 99.
30 Ibid., pp. 99,100.
31 H.W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, (trad. E. Buli), Brescia,
Queriniana, 1975, p. 18.
32 W. MORK, Linee di antropologia biblica, (trad. L. Bono), Fossano, ed. Esperienza,
1971, p. 48.
33 J. PEDERSEN, Op. cit., p. 171.
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Capitolo 1
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Capitolo 1
Anima e sangue
Oltre ai brani già considerati di Genesi capitolo 1, ci sono altri dieci
riferimenti nell’Antico Testamento nei quali la parola nefesh è applica-
ta agli animali. Due di questi potranno aiutare a capire meglio il signi-
ficato di «anima vivente» di Genesi 2:7. Questi brani rivestono un inte-
resse particolare perché associano nefesh al sangue.
In Levitico 17:11, si legge: «Poiché la vita della carne è nel sangue».
«Vita» è la traduzione dell’ebraico nefesh: «L’anima della carne è nel
sangue». Nel verso 14 dello stesso capitolo, si legge: «Perché la vita di
ogni carne è il sangue; nel suo sangue sta la vita; perciò ho detto ai figli
d’Israele: “Non mangerete il sangue di nessuna creatura, poiché la vita
di ogni creatura è il suo sangue”; chiunque ne mangerà sarà tolto via».
La parola «vita» è sempre usata per tradurre l’ebraico nefesh. Così, si
avrà: «Poiché il sangue è l’anima di ogni creatura; poiché l’anima di
ogni creatura è il suo sangue» (cfr. Dt 12:23). La frase «ogni creatura»
suggerisce che il riferimento al sangue si applichi a entrambi: all’uomo
e all’animale. Atkinson aggiunge: «Qui abbiamo un accostamento
molto importante riguardo all’essenza della natura umana: l’anima e il
sangue sono identici».39
È probabile che la ragione per cui l’anima sia tutt’uno con il san-
gue è che l’energia della vita risiede in questo. Nel sistema sacrificale,
il sangue espia il peccato grazie all’associazione con la vita. L’uccisione
sacrificale di un animale era richiesta per far comprendere che una
vita veniva immolata per espiare i peccati di un’altra nefesh.
Tory Hoff osserva: «La relazione ebraica tra la nefesh (vita) e il san-
gue rivela che la nefesh (vita) comunica un aspetto “sacro” all’esisten-
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za umana. Nefesh (vita) è un’opera di Dio (Gn 2:7), dipende dalle cure
di Dio (Gb 12:10) e a lui appartiene (Ez 18:4,20).
Gli ebrei sapevano che era proibito mischiarsi o interferire con l’e-
sistenza nefesh dal momento che era una realtà ricevuta dall’esterno.
Agli ebrei era proibito mangiare carne che contenesse ancora sangue
perché essa diveniva la stessa cosa con la nefesh (vita) e, dunque, que-
st’atto era offensivo nei confronti di Dio. L’eguaglianza tra il sangue e
la nefesh (vita) è così stretta che ingerire sangue equivaleva a commet-
tere un assassinio. Ognuno sosteneva la propria nefesh (vita) con la
nefesh (vita) di un altro».40
Questa associazione tra la nefesh degli animali e il sangue, ci ha
permesso di chiarire meglio il significato di «anima vivente» (Gn 2:7)
applicato ad Adamo. Questa espressione non significa che alla creazio-
ne Dio abbia aggiunto al corpo umano un’anima immortale, ma sem-
plicemente che l’uomo sia diventato una persona vivente mediante
l’intervento di Dio, con il suo soffio vitale. Questa conclusione è con-
fermata dal fatto che il termine nefesh viene utilizzato anche per gli
animali e per il sangue. Il sangue, tra l’altro, era considerato la mani-
festazione tangibile dell’energia vitale. Prima di proseguire lo studio
del significato di «anima» nell’Antico Testamento, è necessario com-
prendere il significato del «soffio vitale» di Genesi 2:7.
Il soffio vitale
Che cos’è «l’alito (neshamah) vitale» che Dio ha soffiato nelle narici di
Adamo? Alcuni concludono troppo frettolosamente che si tratti dell’a-
nima immortale che Dio avrebbe aggiunto al corpo mortale di Adamo.
Ma questa interpretazione contrasta con il significato e l’uso biblico di
«alito vitale», perché in nessun punto della Bibbia esso è identificato
con il concetto di anima immortale.
Nella Scrittura, neshamah è la potenza creatrice di Dio. In Giobbe
33:4 leggiamo: «Lo spirito (ruach) di Dio mi ha creato, e il soffio (nes-
hamah) dell’Onnipotente mi dà la vita». Il parallelismo tra «lo Spirito di
Dio» e «il soffio dell’Onnipotente» suggerisce che le due espressioni
siano interscambiabili perché entrambe si riferiscono al dono della vita
offerto da Dio alle sue creature.
Un altro chiaro esempio si trova in Isaia 42:5 «Così parla Dio, il
40 T. HOFF «Nefesh and the Fulfillment It Receives as Psyche» in Biblical View of Man:
Some Readings, editori Arnold H. De Graaff and James H. Olthuis, Toronto, 1978, p. 103.
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Capitolo 1
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La creazione dell’uomo
Conclusione
Dopo quanto abbiamo visto si può affermare che l’uomo divenne
anima vivente alla creazione, non perché ricevette la scintilla divina di
un’anima immortale e spirituale in un corpo materiale e mortale, ma
attraverso il principio vitale («alito di vita») donatogli da Dio stesso.
Quel principio anima il corpo e attraverso la respirazione rivela in con-
creto la presenza della vita.
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Capitolo 2
Persona bisognosa
In Antropologia dell’Antico Testamento, uno studio analitico da tutti
riconosciuto come pregevole, Hans W. Wolff intitola il capitolo sull’a-
nima «Nefesh l’uomo bisognoso».43 La ragione di nefesh come «uomo
bisognoso» diventa evidente quando si leggono i molti testi che illu-
strano nefesh (anima) in situazioni ed esperienze di vita o di morte.
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Capitolo 2
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46 Idem.
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Capitolo 2
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Anima e morte
La sopravvivenza dell’anima nell’Antico Testamento è legata alla
sopravvivenza del corpo, visto che il corpo è la manifestazione esterna
dell’anima. Questo spiega perché la morte di una persona è spesso
descritta come la morte dell’anima. «Quando sopraggiunge la morte»
scrive J. Pedersen «è l’anima che è privata di vita. La morte non può
colpire il corpo o qualsiasi altra parte dell’anima senza colpire la tota-
lità della persona. Per questo si dice “uccidere un’anima” o “colpire
un’anima” (cfr. Nm 31:19; 35:15,30; Gs 20:3,9); si dice anche “colpire
uno per quanto riguarda l’anima”, cioè colpirlo così che l’anima sia
uccisa (cfr. Gn 37:21; Dt 19:6,11; Ger 40:14,15). Non c’è nessun dubbio
che è l’anima che muore, e tutte le teorie che tentano di negare questo
fatto sono false. È detto deliberatamente che l’anima muore (cfr. Gdc
16:30; Nm 23:10), che è distrutta o consumata (cfr. Ez 22:25,27) e che si
spegne (Gb 11:20)».52
I lettori della Bibbia potrebbero mettere in dubbio la validità del-
l’affermazione di J. Pedersen che l’anima muore, perché la parola
«anima» non appare nel testo da lui citato. In Numeri 35:15 si parla
delle città rifugio dove trovava scampo «chiunque avesse ucciso qual-
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Capitolo 2
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Separazione dell’anima
Oltre ai passi appena considerati e nei quali l’anima nefesh è associata
alla morte, almeno due testi meritano una considerazione particolare
perché parlano della separazione e del ritorno dell’anima. Il primo è in
Genesi 35:18 che afferma che l’anima di Rachele «se ne andava» men-
tre stava per morire; il secondo, è in 1 Re 17:21,22, che racconta dell’a-
nima del figlio della vedova che ritorna in lui. Questi due testi sono
usati per sostenere l’idea che alla morte l’anima abbandoni il corpo e
ritorni poi nel corpo alla risurrezione.
Nel suo libro La morte e la vita ultraterrena, Robert A. Morey cita
questi due testi per sostenere la sopravvivenza dell’anima dopo la
morte del corpo. Egli scrive: «Se gli autori della Scrittura non avessero
creduto che l’anima lasci il corpo alla morte e vi ritorni alla resurre-
zione, non avrebbero usato questo tipo di fraseologia (separazione e
ritorno dell’anima). Il loro modo di parlare rivela, in effetti, che l’uomo,
alla fine, sarebbe sopravvissuto alla morte del corpo».56
È possibile giungere a simili conclusioni partendo da questi due
testi? Esaminiamoli con attenzione! Nel descrivere il travaglio di
Rachele, Genesi 35:18 dice: «Mentre l’anima sua se ne andava, perché
stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò
Beniamino». Se si interpreta la frase «l’anima sua se ne andava» come
se si trattasse dell’anima immortale di Rachele che stava per lasciare il
suo corpo al momento della morte, questa risulterebbe contraria all’in-
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Capitolo 2
Ritorno dell’anima
Nel racconto dell’episodio della risurrezione del figlio della vedova di
Sarepta grazie al profeta Elia, si parla del ritorno della nefesh. Il testo
dice: «Si distese quindi tre volte sul bambino e invocò il SIGNORE e disse:
“SIGNORE, mio Dio, ti prego, torni la vita di questo bambino in lui!”. Il
SIGNORE esaudì la voce di Elia: la vita del bambino tornò in lui, ed egli
visse» (1 Re 17:21,22).
A prima vista, si deve ammettere che questo testo potrebbe far cre-
dere che alla morte l’anima lasci il corpo e che possa essere richiama-
ta dalla preghiera di Elia. Questa è la conclusione cui giungono i soste-
nitori dell’immortalità dell’anima.
57 H.W. WOLFF, Op. cit. , p. 20.
58 E. JACOB, Art. cit., col. 1191.
59 T. HOFF, Op. cit. , p. 101.
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Conclusione
Lo studio sul significato di nefesh (anima) nell’Antico Testamento ha
mostrato come nemmeno una volta la parola sia usata per trasmette-
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Capitolo 2
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Capitolo 3
La realtà fisica
della natura umana
62 Le regole monastiche rivelano quanto fosse importante mortificare la carne fornendo al corpo
solo l’indispensabile per la sopravvivenza allo scopo di coltivare il benessere dell’anima. La
regola benedettina, per esempio, concede ai malati la possibilità di fare un bagno per lavarsi,
ma è molto restrittiva con le persone sane: «Dovrebbe essere concesso ai malati di fare un bagno
per lavarsi tutte le volte che lo necessitano: per i sani, specialmente la gioventù, dovrebbe acca-
dere più raramente». H. BETTENSON, Documents of the Christian Church, Oxford, 1967, p. 121.
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Capitolo 3
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Anche nel racconto del peccato originale della Genesi non trovia-
mo il minimo accenno al fatto che la disubbidienza sia dovuta a un uso
improprio del corpo. Una tradizione popolare ha identificato il peccato
originale con il rapporto sessuale dei nostri progenitori. Ma questa
interpretazione è totalmente priva di fondamento biblico. La sessuali-
tà è stata creata da Dio ed è inclusa nel commento che egli fa: tutto era
«molto buono» (tov meod). La tentazione era su un altro piano, certa-
mente non nei rapporti sessuali della prima coppia, piuttosto nel desi-
derio di diventare simili a Dio. La tentazione era situata nel «sarete
come Dio» (Gn 3:5). L’origine del peccato nella vita umana non ha
niente a che fare con il rapporto sessuale o qualsiasi altro atto fisico del
corpo. Piuttosto, deve essere ricercato nel fatto che l’uomo abbia cedu-
to alla tentazione di voler divenire come Dio, invece di accontentarsi di
rifletterne l’immagine. L’uomo ha messo se stesso al centro dei propri
interessi invece di trarre il senso della propria vita da Dio. Questa è
stata la manifestazione fondamentale del peccato.
L’origine del peccato, secondo la Bibbia, non è da ricercarsi in un
difetto della costituzione fisica del corpo umano, ma nella scelta sba-
gliata ed egocentrica compiuta da esseri liberi e quindi responsabili.
L’umanità oggi vive una condizione di peccato perché vive concentra-
ta su se stessa anziché trovare in Dio la propria ragion d’essere. A moti-
vo di questo egocentrismo e a causa delle potenzialità usate male, l’uo-
mo, pur essendo stato creato a immagine di Dio, sta vivendo una lunga
stagione di nonsenso e di crisi d’identità. «Quelle che sono delle poten-
zialità divine diventano attualità demoniache».64
Il racconto biblico della creazione e della caduta dell’umanità loca-
lizza l’origine del peccato non nel corpo, ma nella mente, cioè, nel desi-
derio di agire e di pensare come se fosse uguale a Dio. Il peccato è
volontario - un atto della volontà - e non una condizione biologica del
corpo. La Bibbia presenta il corpo umano come oggetto della creazio-
ne e della redenzione di Dio. Questo aspetto verrà ancora più appro-
fondito nel paragrafo successivo dedicato al significato e all’utilizzo del
termine basar (carne) nell’Antico Testamento.
64 Ibidem, p. 169.
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Capitolo 3
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Natura debole
Basar viene anche usata nella Bibbia per caratterizzare la debolezza e
la fragilità della natura umana. Hans Walter Wolff ha intitolato il capi-
tolo sulla basar (carne) in questo modo: «L’uomo nella sua infermità».65
Il titolo implica l’uso frequente di «carne» nell’Antico Testamento
per indicare la «nullità» umana agli occhi di Dio. In Giobbe 34:14,15 si
legge: «Se egli non si curasse che di se stesso, se ritirasse a sé il suo spi-
rito e il suo soffio, ogni carne (basar) perirebbe all’improvviso e l’uo-
mo ritornerebbe in polvere». Gli esseri umani sono deboli e fragili
(basar), per questo il Signore si ricorda di loro: «Ma egli, che è pietoso,
perdona l’iniquità... ricordando che essi erano carne (basar), un soffio
che va e non ritorna» (Sal 78:38,39).
In rapporto a Dio, l’uomo è carne, una creatura dipendente per la
propria, continua esistenza. «Ogni carne (basar) è come l’erba e tutta
la sua grazia è come il fiore del campo» (Is 40:6). Gli esseri umani sono
carne perché sono impotenti davanti a Dio. «In Dio confido, e non
temerò; che mi può fare il mortale (basar)?» (Sal 56:4; cfr. Is 31:3). Di
conseguenza è preferibile che gli esseri umani abbiano fiducia in Dio
e non nella loro «carne» (le risorse umane). «Maledetto l’uomo che
confida nell’uomo e fa della carne (basar) il suo braccio» (Ger 17:5). In
questo testo, basar indica il modo in cui spesso l’uomo si pone in con-
trasto con Dio. La carne non è malvagia in sé, neanche sul piano etico.
Può essere debole, ma non è peccaminosa in sé. Quando un «cuore di
pietra» è trasformato in un «cuore di carne», diventa un cuore che
ubbidisce a Dio (cfr. Ez 11:19). A motivo delle sue doti naturali la carne
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Capitolo 3
Conclusione
Questo studio sul significato e l’uso di carne nell’Antico Testamento ha
mostrato come generalmente la parola sia usata per descrivere la real-
tà concreta dell’esistenza umana nella sua prospettiva di fragilità e di
debolezza. Contrariamente al dualismo classico, la carne e l’anima non
sono mai considerate due forme diverse di esistenza, piuttosto manife-
stazioni della stessa persona e, di solito, intercambiabili.
Un buon esempio è nel Salmo 84:2 dove l’anima, il cuore e la
carne, esprimono tutti lo stesso desiderio verso Dio: «L’anima mia lan-
gue e viene meno, sospirando i cortili del Signore; il mio cuore e la mia
carne (basar) mandano grida di gioia al Dio vivente».
Il concetto unitario della natura umana ha permesso agli autori
biblici di vedere il corpo e l’anima come espressioni dello stesso orga-
nismo. Pedersen giustamente osserva che «l’affermazione che l’anima
sia come la carne è indissolubilmente connessa al suo contrario, e cioè
che la carne è come l’anima».66
Le due realtà sono indissolubilmente collegate perché il corpo è la
forma esteriore dell’anima e l’anima è la vita interiore del corpo.
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Capitolo 4
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Capitolo 4
festazione della vita. «Un cuore allegro rende il viso raggiante, ma per
l’afflizione del cuore lo spirito è abbattuto» (Prv 15:13). Persino la salu-
te è influenzata dalla condizione del cuore: «Un cuore allegro è un
buon rimedio, ma uno spirito abbattuto fiacca le ossa» (Prv 17:22).
Organi interni
Per chiarezza, si deve aggiungere che la sede delle emozioni non si
trova solo nel cuore, ma anche in altri organi interni, come per esem-
pio le viscere gereb. Quello che colpisce è che l’Antico Testamento con-
sidera alcune parti interne del corpo come sede e sorgente delle capa-
cità umane più elevate. Come osserva Hans Walter Wolff: «Le parti
interne del corpo e i suoi organi sono allo stesso tempo portatori degli
impulsi spirituali e morali dell’uomo».70
Alcuni esempi serviranno a illustrare questo aspetto. Geremia
chiede agli abitanti della città: «Gerusalemme, purifica il tuo cuore
dalla malvagità, affinché tu sia salvata. Fino a quando albergheranno
in te (nelle tue viscere gereb) i tuoi pensieri iniqui?» (4:14). Qui le visce-
re sono la sede dei pensieri malvagi. Mentre nei Proverbi i reni esulta-
no: «Il mio cuore (lett. kelayot, reni) esulterà quando le tue labbra
diranno cose rette» (23:16). Il salmista ringrazia Dio per il suo consiglio
e per le sue istruzioni: «Benedirò il SIGNORE che mi consiglia; anche il
mio cuore (kelayot reni) mi istruisce di notte» (Sal 16:7). Altrove, il sal-
mista associa le reni con il cuore come il più sensibile degli organi:
«Quando il mio cuore era amareggiato e io mi sentivo trafitto interna-
mente (nelle mie reni kelayot)» (Sal 73:21). Qui i reni operano come
coscienza dell’individuo. Anche il fegato può servire a esprimere pro-
fondo dolore. Geremia si lamenta: «I miei occhi si consumano in lacri-
me, le mie viscere si commuovono, il mio fegato (kabed) si spande in
terra per il disastro della figlia del mio popolo, al pensiero dei bambini
e dei lattanti che venivano meno per le piazze della città» (Lam 2:11).
Le parti non visibili dell’uomo descrivono, come il cuore, i senti-
menti interiori. Ciò è possibile perché nel pensiero biblico una parte
della persona rappresenta tutto l’insieme.
Sede dell’intelletto
Nella maggior parte dei casi, il cuore, nella Bibbia, funziona da fulcro
della vita intellettuale e precisamente si attribuisce al cuore tutto ciò
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71 Ibidem, p. 89.
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Capitolo 4
Conclusione
La breve indagine in merito alle funzioni del cuore nell’Antico
Testamento mostra come esso sia il centro e la fonte di tutte le attività
religiose, intellettuali e morali.
Nell’Antico Testamento il cuore rappresenta, più di ogni altra cosa,
il centro più profondo dell’esistenza umana poiché ciò che una perso-
na realmente è, lo è nel profondo del proprio essere. «Il SIGNORE non
bada a ciò che colpisce lo sguardo dell’uomo: l’uomo guarda all’appa-
renza, ma il SIGNORE guarda al cuore» (1 Sam 16:7).
In molti modi, il cuore è il centro unificante dell’intera persona,
corpo e anima. Alcune funzioni del cuore si sovrappongono con quelle
dell’anima, ma ciò non è sorprendente perché nella prospettiva biblica
non c’è nessuna distinzione radicale tra l’anima e il cuore. «Gesù gli
disse: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima e con tutta la tua mente”» (Mt 22:37).
«Il cuore» scrive J. Pedersen «è la totalità dell’anima come caratte-
re e potere operante... nefesh è la somma dell’anima nella sua totalità;
il cuore è l’anima nel suo valore interno».72
Quanto si è detto per l’anima spesso può esser applicato al cuore.
L’unità funzionale che esiste fra corpo, anima e cuore, nega l’insegna-
mento dualistico sulla natura umana, che separa l’anima dal corpo. Le
funzioni spirituali e morali della natura umana, che i dualisti vedono
come prerogativa dell’anima, sono molto spesso attribuite al cuore.
Nella Bibbia, è chiaro, l’anima non esiste e non opera come un’entità
distinta e immateriale separatamente dal corpo.
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Capitolo 5
Lo spirito, l’intelletto
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Capitolo 5
Significato di ruach
Ruach significa letteralmente «aria in movimento, vento». In Genesi
1:2, lo Spirito di Dio «aleggiava sulla superficie delle acque» e in Isaia
7:2 «gli alberi della foresta sono agitati dal vento (ruach)». Hans W.
Wolff puntualizza che ruach non significa aria statica ma «aria in movi-
mento»75 che genera una notevole potenza.
Non deve sorprenderci che la potenza formidabile del vento
(ruach) sia spesso intesa come una manifestazione della potenza di
Dio! Il vento di levante (ruach) porta le locuste (Es 10:13). Un vento
potente (ruach) asciuga il mar Rosso (Es 14:21). Un vento forte (ruach)
soffia sulla terra e calma le acque (Gn 8:1).
La potenza manifestata dal vento è associata nella Scrittura al sof-
fio di Dio, sua potenza creatrice e sostenitrice. La prima volta in cui tro-
viamo questa espressione è in Genesi: «Dio il SIGNORE formò l’uomo
dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale (nesha-
mah) e l’uomo divenne un essere vivente» (2:7).
In precedenza abbiamo esaminato questo importante testo per
vedere la relazione tra «alito vitale» e «anima vivente». Ora, si tratta di
capire più profondamente che cosa sia «l’alito di vita» tramite il quale
l’uomo diventa «anima vivente». La parola ebraica utilizzata non è
ruach ma un’espressione piuttosto rara, neshamah (respiro). Il signifi-
cato dei due termini è simile, come indicato dal fatto che appaiono in
parallelo in cinque passi (cfr. Is 42:5; Gb 27:3;32:8; 33:4; 34:14,15).
Nel libro di Giobbe troviamo: «Lo spirito di Dio (ruach) mi ha crea-
to, e il soffio (neshamah) dell’Onnipotente mi dà la vita» (33:4) Un po’
più avanti dice: «Se egli non si curasse che di se stesso, se ritirasse a sé
il suo spirito (ruach) e il suo soffio (neshamah), ogni carne perirebbe
all’improvviso e l’uomo ritornerebbe in polvere» (34:14,15).
In questi versetti, neshamah e ruach sono usati come sinonimi, ma
sembra che vi sia una piccola differenza: neshamah indica il respiro
calmo, pacifico, fisico, mentre ruach descrive la forma più attiva e
dinamica. Ruach sembra anche essere l’elemento che rende possibile
la respirazione, «finché avrò fiato (neshamah) e il soffio di Dio (ruach)
sarà nelle mie narici» (Gb 27:3). Qui l’alito vitale (neshamah) è nella
persona, mentre lo spirito è nella corrente d’aria che passa nelle nari-
ci. «Così parla Dio, il SIGNORE… che dà il respiro (neshamah) al popolo
che c’è sopra e lo spirito (ruach) a quelli che vi camminano» (Is 42:5).
75 Idem.
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Lo spirito, l’intelletto
Qui lo spirito indica più che il respiro, perché è dato solo a «quelli
che camminano per essa». Sembra che il soffio costituisca una delle
manifestazioni dello spirito di Dio. Quest’ultimo ha significati e funzio-
ni più ampi. Una delle funzioni dello Spirito di Dio è di dare e sostene-
re la vita attraverso il processo della respirazione.
Dom W. Mork ha detto: «Il soffio vitale dell’uomo è dono di Dio.
Egli respira “per grazia” di Dio».76
È interessante notare che la lettura marginale di Genesi 7:22 nella
versione autorizzata traduce «soffio vitale» con «il soffio dello Spirito di
vita». Questa traduzione letterale dall’ebraico trasmette l’idea che l’ali-
to di vita (neshamah) derivi dallo spirito (ruach) che dona la vita.
Commentando questo testo, Basil F. Atkinson scrive: «Il neshamah
(soffio) sembra essere una proprietà o una porzione del ruach (spirito)
e di essere collegato con ciò che oggi chiameremmo la vita fisica. Il
ruach, che è anche un principio di vita, è molto più ampio. Esso pro-
duce e sostiene la vita interna e anche esterna dell’uomo, il suo intel-
letto, i suoi pensieri astratti, le sue emozioni e desideri, coprendo
anche l’intera azione del neshamah sulla vita fisica».77
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Capitolo 5
Parola di Dio
Nel Salmo 33:6 troviamo un’interessante parallelismo fra lo spirito di
Dio e la sua Parola: «I cieli furono fatti dalla parola del SIGNORE, e tutto
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Lo spirito, l’intelletto
il loro esercito dal soffio della sua bocca». Qui lo Spirito di Dio è sino-
nimo della sua parola, poiché entrambi procedono dalla sua bocca. Il
parallelismo suggerisce che il soffio di Dio è qualcosa di più che la
semplice aria in movimento. Esso è la potenza della vita manifestata
attraverso la Parola di Dio.
Un altro esempio in cui la Parola è associata allo spirito si trova nel
Salmo 147: «Egli manda la sua parola e li fa sciogliere; fa soffiare il suo
vento (ruach) e le acque corrono» (v. 18). La parola di Dio è qui asso-
ciata al vento, presumibilmente perché l’espressione della parola pro-
cede dalla bocca mentre si respira. Dio è descritto con un antropomor-
fismo come se la sua parola procedesse dalla corrente del suo soffio.
Occorre ricordare che il pensiero ebraico non ha sviluppato i con-
cetti astratti, ma descrive le azioni attraverso l’osservazione concreta.
Per esempio esso ha notato che la parola è prodotta dalle vibrazioni
delle corde vocali grazie al passaggio dell’aria; era quindi naturale asso-
ciare l’alito di Dio con la sua parola. Così, il soffio divino deve essere
capito non come aria in movimento, ma come potenza vivificante mani-
festata attraverso l’espressione della sua parola. Quando Dio parla, le
cose sono, perché la sua parola non è vuota, ma potenza vivificante.
Rinnovamento morale
Il rinnovamento compiuto dallo Spirito di Dio non agisce solo sul fisico,
ma sul piano etico e morale. Davide pregò: «O Dio, crea in me un cuore
puro e rinnova dentro di me uno spirito ben saldo. Non respingermi
dalla tua presenza e non togliermi il tuo santo spirito» (Sal 51:10,11).
Lo spirito (ruach) «ben saldo» è l’immagine del peccatore riconci-
liato con il suo Signore, grazie all’azione dello Spirito Santo. Così lo spi-
rito è quello di Dio, ma anche quello dell’uomo. Dio dà lo Spirito per
creare e sostenere la vita. L’uomo riceve lo Spirito per vivere non più
sottomesso ai propri desideri ma in armonia con la volontà di Dio. F.
Baumgartel scrive: «Lo Spirito di Dio è una potenza creatrice e trasfor-
matrice, il cui scopo è di creare un ambiente di religione e di valori».78
Il profeta Ezechiele cita tre volte lo spirito per indicare il principio
di rigenerazione che Dio crea nel credente che si converte (cfr. Ez
11:19; 18:31; 36:26). «Io darò loro un medesimo cuore, metterò dentro
di loro un nuovo spirito (ruach), toglierò dal loro corpo il cuore di pie-
tra, e metterò in loro un cuore di carne». In questo caso ancora, il
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Capitolo 5
Potenza di Dio
Lo Spirito di Dio è manifestato non solo nella creazione e nel sosten-
tamento della vita, ma anche per qualificare gli uomini che sceglie per
dei compiti specifici. Quando Dio chiama Gedeone per liberare gli
Israeliti dalla tirannia dei madianiti, viene detto: «Ma lo spirito del
SIGNORE si impossessò di Gedeone…» (Gdc 6:34) e lo rese forte per gui-
dare gli israeliti alla vittoria. È stato lo Spirito del Signore a chiamarlo
a questo compito, visto che Gedeone metteva in dubbio le proprie qua-
lità: «Ah, signore mio, con che salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è
la più povera di Manasse, e io sono il più piccolo nella casa di mio
padre» (Gdc 6:15).
La stessa cosa accadde a Iefte: «Allora lo spirito del SIGNORE venne
su Iefte, che… marciò contro i figli di Ammon per fare loro guerra e il
SIGNORE glieli diede nelle mani» (Gdc 11:29,32). In queste circostanze
lo Spirito di Dio ha qualificato le guide d’Israele per compiere, in
momenti critici, atti fuori dal normale.
Lo Spirito di Dio è stato dato anche alle guide nazionali per com-
piere il piano divino per Israele. Quando lo Spirito del Signore investì
Saul, questi venne «trasformato in un altro uomo». Quando Samuele
unse Davide per succedere a Saul come re, «da quel giorno lo Spirito
(ruach) del SIGNORE investì Davide» (1 Sam 16:13). Quando Davide fu
unto come futuro re, «lo Spirito (ruach) del Signore si ritirò da Saul»
(1 Sam 16:14). Lo Spirito si ritirò da Saul ma questo non vuol dire che
la sua anima salì a Dio, dal momento che era ancora in vita. Il ritiro
dello Spirito ha coinciso con la squalifica di Saul come re d’Israele,
mentre il dono dello Spirito a Davide lo ha qualificato per regnare al suo
posto. È evidente che lo Spirito donato a Gedeone e a Iefte per giudica-
re e a Davide per regnare, non è lo stesso «soffio vitale» presente in ogni
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Lo spirito, l’intelletto
Impulso dominante
La potenza dello spirito indica altresì quello che chiameremmo incli-
nazione o impulso dominante di un individuo. Ogni essere umano ha
delle attitudini o degli impulsi che lo dominano, ma che egli deve vin-
cere. Anche in questo caso si utilizza il termine spirito, in questo caso
caratterizza lo spirito dell’uomo in contrapposizione a quello di Dio.
Osea lamenta che uno «spirito (ruach) di prostituzione» ha sviato i
sacerdoti (Os 4:12). Ezechiele denuncia: «Guai ai profeti stolti, che
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Capitolo 5
seguono il loro proprio spirito (ruach), e parlano di cose che non hanno
viste!» (Ez 13:3). Il Salmo 78:8 parla della generazione ostinata «il cui
spirito (ruach) non fu fedele a Dio». Proverbi 25:28 paragona un uomo
che non ha autocontrollo (lett. «non sa dominare il proprio spirito») a
una «città smantellata, priva di mura». L’Ecclesiaste assicura che «lo
spirito paziente vale più dello spirito altero» (7:8). In tutti questi casi, lo
spirito indica un’attitudine all’ubbidienza o alla disubbidienza a Dio e
non deve esser confuso con la funzione vivificante dello Spirito di Dio.
Certe volte lo spirito è la sede del dolore soprattutto nell’espressio-
ne «amarezza di spirito». Il popolo d’Israele non diede «ascolto a Mosè a
causa dell’angoscia del loro spirito e della loro dura schiavitù» (Es 6:9).
Anna, madre di Samuele, disse al sacerdote Eli: «No, mio signore,
io sono una donna tribolata nello spirito e non ho bevuto vino né
bevanda alcolica, ma stavo solo aprendo il mio cuore davanti al
SIGNORE» (1 Sam 1:15). Qui lo spirito afflitto è paragonato all’atto di
svuotare l’anima davanti a Dio.
Lo spirito e l’anima sono menzionati insieme perché ambedue
rappresentano la continuità della vita ferita dal dolore. In Proverbi
15:13 si legge: «Quando il cuore è triste, lo spirito è abbattuto». Se il
cuore è la sede del dolore, il dolore tocca anche lo spirito o la vita inte-
riore di una persona. L’interazione tra spirito e anima, o cuore e spiri-
to, ci ricorda ancora una volta il concetto biblico della natura umana,
dove i vari aspetti della personalità sono indivisibili .
In altri casi lo spirito costituisce la sede delle emozioni. Proverbi
16:32 dice: «Chi è lento all’ira vale più del prode guerriero; chi ha auto-
controllo (domina lo spirito suo) vale più di chi espugna città». Domi-
nare il proprio spirito significa controllare il proprio umore o la propria
ira. In parecchi casi, ruach è tradotto con «ira», «sdegno» (cfr. Gdc 8:3;
Ez 3:14; Prv 14:29; 16:32; Ec 7:9; 10:4;); in altri testi con coraggio:
«Appena l’abbiamo udito, il nostro cuore è venuto meno e non è più
rimasto coraggio (ruach) in alcuno» (Gs 2:11).
In altri passi ancora spirito è usato con il significato di tristezza:
«Poiché il Signore ti richiama come una donna abbandonata, il cui spi-
rito è afflitto (ruach)» (Is 54:6). «Il SIGNORE è vicino a quelli che hanno
il cuore afflitto, salva gli umili di spirito» (Sal 34:18).79
Lo spirito può anche indicare contrizione e umiltà. «Io dimoro nel
luogo eccelso e santo, ma sto vicino a chi è oppresso e umile di spirito
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Lo spirito, l’intelletto
per ravvivare lo spirito degli umili, per ravvivare il cuore degli oppres-
si» (Is 57:15). «Ecco su chi poserò lo sguardo: colui che è umile, che ha
lo spirito afflitto (ruach) e trema alla mia parola» (Is 66:2).
Questa breve indagine sui diversi usi del termine spirito
nell’Antico Testamento ha mostrato come esso sia un principio vitale
che proviene da Dio e conserva la vita umana. In modo figurato, lo spi-
rito è utilizzato in riferimento al rinnovamento morale interiore, alle
inclinazioni buone e cattive, agli impulsi dominanti, al dolore, al corag-
gio, alla tristezza, alla contrizione e all’umiltà. In nessun caso lo spiri-
to ha coscienza e personalità autonoma che, alla morte, si separa dalla
persona. La funzione dello spirito quale principio vivificante e sosteni-
tore cessa quando la persona muore.
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Capitolo 5
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Lo spirito, l’intelletto
essere in cui è alito di vita (ruach); tutto quello che è sulla terra peri-
rà (gava cesserà di respirare)» (Gn 6:17). «Perì ogni essere vivente che
si moveva sulla terra: uccelli, bestiame, animali selvatici, rettili di ogni
sorta striscianti sulla terra e tutti gli uomini. Tutto quello che era sulla
terra asciutta e aveva alito di vita (ruach) nelle sue narici, morì (gava
cessò di respirare)» (Gn 7:21,22).
Da testi come questi risulta chiaro che possedere l’alito o lo spiri-
to di vita non significa avere un’anima immortale. L’alito di vita è
semplicemente il dono della vita agli esseri umani e agli animali per
la durata della loro esistenza terrena. Lo spirito o l’alito di vita che
ritorna a Dio alla morte è semplicemente il principio di vita dato da
Dio agli esseri umani e agli animali.
Questo è affermato chiaramente nell’Ecclesiaste: «Infatti, la sorte
dei figli degli uomini è la sorte delle bestie; agli uni e alle altre tocca
la stessa sorte; come muore l’uno, così muore l’altra; hanno tutti un
medesimo soffio, e l’uomo non ha superiorità di sorta sulla bestia; poi-
ché tutto è vanità» (3:19). Coloro che mettono in discussione il fatto
che gli animali non abbiano lo spirito (ruach) di vita ma solo l’alito
(neshamah) di vita, ignorano il fatto che Ecclesiaste 3:21 e Genesi
7:15,22 chiaramente affermano che gli animali possiedono lo stesso
soffio vitale dato agli esseri umani.
Non c’è nessuna indicazione nella Bibbia che lo spirito di vita dato
all’uomo alla creazione fosse preesistente come entità cosciente.
Questo permette di credere che lo spirito di vita non abbia alcuna per-
sonalità consapevole quando fa ritorno a Dio. Infatti, lo spirito che
ritorna a Dio è semplicemente il principio vitale donato da Dio per la
durata dell’esistenza terrena.
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Conclusione I parte
Siamo così giunti alla fine dell’indagine sui quattro termini più impor-
tanti usati nell’Antico Testamento per descrivere la natura umana, cioè
anima, corpo, cuore e spirito. Indiscutibilmente si è pensato che questi
termini non rappresentino entità diverse, ognuna con le proprie fun-
zioni, ma piuttosto funzioni diverse integrate all’interno di un medesi-
mo organismo.
L’Antico Testamento vede la natura umana come un’unità, non
una dicotomia. Non esiste alcun contrasto fra il corpo e l’anima, come
questi termini potrebbero suggerire.
L’anima non è una parte semplice, spirituale e immortale della
natura umana che domina il corpo, ma ne indica la vitalità o il princi-
pio di vita. Il corpo è composto da elementi fisici a cui si aggiunge il
principio vitale donato da Dio, chiamato occasionalmente soffio (nes-
hamah) e, solitamente, spirito (ruach). Il corpo e il soffio divino insie-
me costituiscono l’anima vitale e attiva. La sede dell’anima è il sangue,
perché esso è la manifestazione tangibile della vita.
Da questo principio di vita, il termine anima (nefesh) è ampliato
per includere i sentimenti, le passioni, la volontà e la personalità di un
individuo e, inoltre, è usato come sinonimo per l’uomo stesso. Le per-
sone sono contate come anime (Gn 12:5; 46:27). La morte influisce sul-
l’anima (Nm 23:10) e sul corpo.
Lo spirito (ruach), che significa letteralmente «vento», è con una
certa frequenza riferito a Dio stesso. Lo spirito del Signore è il suo sof-
fio, la sua potenza manifestata nel creare e sostenere la vita (Sal 33:6;
104:29,30). Lo spirito dell’uomo viene dal soffio di Dio (Is 42:5; Gb
27:3). In senso figurato, lo spirito è un concetto esteso anche al rinno-
vamento morale, alle disposizioni buone e cattive, alla vita emotiva e
agli atti di volontà, sovrapponendosi così, in qualche modo, con l’ani-
ma (nefesh). La differenza tra l’anima e lo spirito è che il primo si rife-
risce maggiormente a una persona vivente in relazione con altri esse-
ri umani, mentre l’altro allude alla relazione con Dio. Comunque,
come abbiamo visto né l’anima né lo spirito sono considerati come
scintille di eternità, capaci di sopravvivere alla morte del corpo.
I riferimenti dell’Antico Testamento alla carne o al corpo non sug-
geriscono mai che le funzioni corporee siano puramente biologiche e
indipendenti dalle funzioni psicologiche dell’anima. Non c’è alcuna
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Conclusione I parte
81 R.W. DOERMANN, Sheol in the Old Testament, tesi di dottorato presso la Duke
University, 1961, p. 205.
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II PARTE
LA NATURA UMANA
NEL NUOVO TESTAMENTO
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Introduzione II parte
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Introduzione II parte
83 II Baruch 30, citato da R. H. CHARLES, The Apocrypha and Pseudepigrapha of the Old
Testament in English with Introductory and Critical Explanatory Notes to the Several
Books, Oxford, 1913, p. 498.
84 Nel commentare questo testo, R.H. CHARLES scrisse: «L’immortalità condizionata
dell’uomo è altresì presente in 1 Enoch 69:11; Sapienza 1:13,14; 2 Enoch 30:16,17; 4
Esdra 3:7» (Ibidem, p. 477).
85 Ibidem, p. 49. Secondo R. H. CHARLES: «Questa è la più antica affermazione relativa
a questa attesa nei due secoli che precedono la nascita di Gesù» (Ibidem, p. 10).
86 Ibidem, p. 538.
87 Cfr. 4 Maccabei 10:15; 13:17; 18:18; 18:23.
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mentre gli empi discendono verso il tormento eterno, che sarà più o
meno intenso.88
Durante il periodo intertestamentario, come ha ben sintetizzato
A.H. Wheeler Robinson, «l’interpretazione dualistica della relazione del
corpo e dell’anima (o spirito) si trova nella linea ellenistica del giudai-
smo (Sap. 9:15); ma è estranea alla scuola palestinese, che coniuga
direttamente il pensiero dell’Antico Testamento con quello del
Nuovo».89
Lo studio del Nuovo Testamento in merito alla natura umana non
autorizza a ignorare il possibile influsso del giudaismo ellenistico sugli
autori. Dopo tutto, con la possibile eccezione di Matteo, tutti i libri del
Nuovo Testamento furono scritti in greco e utilizzano le quattro grandi
parole antropologiche greche: psyche anima, pneuma spirito, soma
corpo e sarx carne. Questi termini erano comunemente usati nel perio-
do neotestamentario con il significato greco dualistico. Anima e spirito
indicavano la parte immateriale e immortale della natura umana,
mentre corpo e carne descrivevano la parte visibile e mortale.
Ci chiediamo: fino a che punto si possono colorare di significato
dualistico queste importanti parole greche delle Scritture del Nuovo
Testamento? Sorprendentemente, come si vedrà in questa sezione,
l’uso e il significato dualistico di questi termini è del tutto assente nel
Nuovo Testamento. Persino nei brani che indicano il contrasto tra
carne e spirito, apparentemente dualistici, da un esame più attento
rivelano un concetto unitario della natura umana. La carne e lo spirito
non rappresentano due parti separate della natura umana, bensì due
stili di vita opposti: egocentrico e teocentrico.
La ragione per l’assenza dell’influsso dualistico nel Nuovo
Testamento è da ricercarsi nel fatto che gli autori hanno preso in pre-
stito i termini della cultura ellenistica ma partendo dagli equivalenti
dell’Antico Testamento dai quali le idee prendono origine.
Si deve, inoltre, sempre tenere presente che «il collegamento fra
l’ebraico dell’Antico Testamento e il greco del Nuovo Testamento è
costituito dalla straordinaria traduzione dell’Antico Testamento dei
Settanta, detta Septuaginta, portata a termine ad Alessandria d’Egitto
nel terzo secolo a.C. La traduzione è stata compiuta da giudei che natu-
ralmente capivano sia il significato delle parole ebraiche sia quelle
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Introduzione II parte
Chiariamo i termini
In questa parte ci prefiggiamo di comprendere i concetti del Nuovo
Testamento a proposito della natura umana, analizzando i quattro ter-
mini antropologici fondamentali cioè, «anima», «spirito», «corpo» e
«cuore». Si tratta della stessa fraseologia considerata nella sezione pre-
cedente circa l’esame dei termini relativi all’uomo nell’Antico
Testamento. Il significato e l’uso dei sostantivi o delle espressioni sono
studiati per determinare se, in effetti, seguono, oppure no, il significa-
to e l’uso dei termini ebraici corrispondenti. Vedremo che esiste una
continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento circa la comprensione
della natura umana. La nozione di immortalità dell’anima, anche se
condivisa dalla cultura popolare di molti, proprio al tempo del Nuovo
Testamento è però assente dalle Scritture greche perché gli autori sono
rimasti fedeli agli insegnamenti veterotestamentari.
Il Nuovo manifesta una continuità con l’Antico Testamento non
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solo circa la natura umana e il suo destino, ma offre anche una com-
prensione più ampia proprio alla luce dell’incarnazione e degli inse-
gnamenti di Gesù. Infatti, Cristo è il nuovo capostipite della razza
umana, dal momento che Adamo «è la figura di colui che doveva veni-
re» (Rm 5:14). Mentre nell’Antico Testamento la natura umana è fon-
damentalmente collegata con Adamo in virtù della creazione e della
caduta, nel Nuovo Testamento la stessa è messa in relazione con Cristo
in virtù della sua incarnazione e redenzione. Cristo costituisce la pie-
nezza della rivelazione circa la natura umana, il suo significato e il suo
destino. Cristo dà un significato più profondo all’anima, al corpo e allo
spirito umano, perché l’effetto immediato della sua redenzione è costi-
tuito dalla donazione del suo Spirito che «dimora con voi e sarà in voi»
(Gv 14:17).
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Capitolo 6
È la persona intera
L’anima psyche nel Nuovo Testamento indica l’intera persona nello
stesso modo in cui nefesh la indica nell’Antico Testamento. Per esem-
pio, nella sua difesa davanti al Sinedrio, Stefano menziona che «settan-
tacinque anime (psyche)» della famiglia di Giacobbe scesero in Egitto
(At 7:14), figura e usanza, queste, presenti nell’Antico Testamento (cfr.
Gn 46:26, 27; Es 1:5; Dt 10:22). Nel giorno della Pentecoste, «tremila
anime (psyche)» (Atti 2:41) furono battezzate e «ogni anima (psyche)»
era presa da timore (At 2:43). Parlando della famiglia di Noè, Pietro
dice «otto anime (psyche) furono salvate attraverso l’acqua» (1 Pt 3:20).
È evidente in testi come questi, che il termine anima è usato come
sinonimo di persona. In questo contesto, merita considerare la nota
promessa di Cristo del riposo per le «anime» di coloro che accettano il
suo giogo (Mt 11:28). L’espressione «riposo per le vostre anime» deriva
da Geremia 6:16, in cui il riposo per l’anima è promesso a quanti cam-
minano secondo i comandamenti di Dio. Circa il riposo che Cristo offre
all’anima, Edward Schweitzer dice: «siamo assai lontani dalla mentali-
tà greca, secondo la quale l’anima trova riposo quando è liberata dal
corpo. Qui è mantenuta ferma l’unità e la totalità dell’uomo. Proprio
nel suo corporeo agire in ubbidienza l’uomo troverà il riposo in Dio».92
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Capitolo 6
È vita
La traduzione più frequente della parola psyche nel Nuovo Testamento
è «vita» (46 volte),93 In questi casi psyche si riferisce alla vita fisica. Nel
pieno della tempesta, Paolo rassicura i membri della nave che «non vi
sarà perdita della vita per nessuno di voi ma solo della nave» (At 27:22;
cfr. 27:10). In questo contesto, psyche è correttamente tradotto «vita»
perché Paolo sta parlando della perdita di vite umane. Un angelo disse
a Giuseppe: «Alzati, prendi il bambino e sua madre, e va’ nel paese
d’Israele; perché sono morti coloro che cercavano di uccidere il bam-
bino» (Mt 2:20). Questi sono alcuni dei numerosi testi che fanno riferi-
mento alla ricerca, alla soppressione e alla salvezza dell’anima e che
aiutano a capire che l’anima non è una parte immortale della natura
umana, ma la vita fisica stessa, esposta ai pericoli. Come nell’Antico
Testamento anche la psyche smette di esistere quando il corpo muore.
Gesù associava l’anima con il cibo e le bevande: «Non siate in ansia
per la vostra vita (psyche), di che cosa mangerete o di che cosa berre-
te; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita (psyche) più
del nutrimento, e il corpo più del vestito?» (Mt 6:25). Qui l’anima è
associata al nutrimento e ai vestiti (per coprire il corpo). Associando
l’anima con cibo e bevande, Gesù mostra come essa includa l’aspetto
fisico della vita, anche se ritiene che la vita valga più del cibo e delle
bevande. I credenti possono elevare i propri desideri e pensieri verso
le cose celesti e meditare sulla vita eterna. In questo modo, Gesù ha
esteso il significato dell’anima alla ricerca di un senso più elevato, cioè
la vita eterna che in lui è stata donata all’umanità. Rimane il fatto, però,
che associando l’anima agli alimenti e alle bevande, Cristo mostra
come l’anima costituisca l’aspetto fisico dell’esistenza e non una com-
ponente immateriale della nostra natura.
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Anima e carne
Un testo importante nel Nuovo Testamento pone l’anima psyche in
chiara antitesi con la carne sarx. Si trova in 1 Pietro 2:11 dove l’apostolo
dice: «Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi
dalle carnali (sarx) concupiscenze che danno l’assalto contro l’anima
(psyche)». Edward Schweitzer afferma che questo è l’uso più ellenisti-
co dell’anima nel Nuovo Testamento, dal momento che l’evidente anti-
tesi fra l’anima (psyche) e la carne (sarx) può suggerire una compo-
nente dualistica della natura umana.95
Uno sguardo più attento al testo mostra come Pietro fosse influen-
zato non dal dualismo greco, ma dalla comprensione dell’anima
dell’Antico Testamento. Nelle Scritture ebraiche abbiamo già visto in
quanti modi la nefesh fosse costantemente in pericolo e quanto avesse
bisogno di essere protetta. Lo stesso tema è presente nell’ammonizio-
ne di Pietro. La differenza è che Pietro si riferisce a un nemico che agi-
sce sull’anima dall’interno stesso dell’uomo: le passioni carnali che
guerreggiano contro l’anima e inducono la persona a vivere solo per
soddisfare gli appetiti fisici.
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non avesse necessità del corpo. Il seguito mostra giustamente che tale
non è il caso».97 Nel paragrafo precedente abbiamo visto che Cristo ha
ampliato il significato dell’anima psyche per indicare non solo la vita
fisica, ma anche la vita eterna, offerta a coloro che credono e stabili-
scono un’alleanza con lui. Questo testo, alla luce del significato dato da
Gesù si può comprendere in questo modo: «Non temete coloro che pos-
sono privarvi dell’esistenza terrena (soma) e non possono annullare la
vita eterna in Dio (psyche); temete piuttosto Dio che può distruggere
per sempre il vostro essere intero».
La morte dell’anima
L’insegnamento di Cristo difficilmente conduce all’immortalità dell’a-
nima. Egli insegna in che maniera Dio può distruggere sia l’anima sia
il corpo. Edward William Fudge osserva giustamente che «a meno che
Gesù stia facendo minacce vane, l’avvertimento stesso implica che Dio
eseguirà una tale sentenza su quelli che ostinatamente si ribellano alla
sua autorità e resistono a ogni proposta di misericordia».98 Fudge con-
tinua: «L’avvertimento di nostro Signore è chiaro: la capacità dell’uomo
di togliere la vita si limita al corpo e solo nel tempo presente. La morte
che l’uomo infligge non è finale, perché Dio chiamerà i morti dalla
terra e darà ai giusti l’immortalità. La capacità di Dio di uccidere e
distruggere è senza limite, va ben oltre l’aspetto fisico e il presente. Dio
può distruggere il corpo e l’anima, ora e nell’avvenire».99
Luca riporta le parole di Gesù, tralasciando il riferimento all’ani-
ma: «Non temete quelli che uccidono il corpo ma, oltre a questo, non
possono far di più. Io vi mostrerò chi dovete temere. Temete colui che,
dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella geenna. Sì, vi dico, teme-
te lui» (12:4,5). Luca tralascia l’anima (psyche) e si riferisce invece alla
persona intera che Dio può distruggere nella geenna. È possibile che
l’omissione del termine anima sia stata intenzionale per impedire un
malinteso nei lettori non ebrei abituati a considerare l’anima come una
componente indipendente e immortale che sopravvive alla morte. Per
rendere chiaro che niente sopravvive alla distruzione di Dio, Luca
omette di parlare dell’anima.
97 O. CULLMANN, Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia Cristiana, Roma: AVE, 1971, p.
208, nota 21. Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?, Paideia, Brescia, 1968,
p. 36, nota n. 9.
98 E.W. FUDGE, The Fire That Consumes, Houston, 1989, p. 173.
99 Ibidem, p. 177.
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Paolo e l’anima
In confronto all’Antico Testamento, o persino ai vangeli, l’uso del ter-
mine anima è raro negli scritti di Paolo che lo usa solo tredici volte101
101 «Sorprende in Paolo il raro uso di psyche. La sua mentalità non è né greca da far-
gli adottare la dottrina ellenistica dell’anima, né non greca da fargli dimenticare che
nell’ambito della cultura greca psyche significa qualcosa di diverso di nefesh». Ibidem,
coll. 1268, 1269. Così si è espresso anche T. Hoff: «Paolo non ha mai utilizzato il termi-
ne psyche per indicare una vita che sopravvive al corpo… perché sapeva come questa
concezione era stata distorta nel tempo. Egli sapeva che la tradizione platonica avreb-
be potuto creare una gran confusione nella mente dei non ebrei («Nefesh and the
Fulfillment it Receives as Psyche» in Toward a Biblical View of Man: Some Readings,
ed. Arnold H. De Graff and James H. Olthuis, Toronto, 1978, p. 114.
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tato dai vangeli, ma nel compito dello Spirito di Dio che rinnova la vita,
ora e alla risurrezione. Nell’esaltare la funzione dello Spirito, Paolo
nega l’immortalità dell’anima. Per lui è molto importante affermare l’i-
dea che la nuova vita del credente, nel tempo presente e nel futuro, sia
interamente un dono dello Spirito di Dio. L’uomo non è in possesso
della scintilla immortale della vita.
La stessa espressione «immortalità dell’anima» non appare nella
Scrittura. La parola greca che comunemente traduce «immortalità» è
athanasia. Questo termine appare solo due volte nel Nuovo Testamento;
la prima volta è riferita a Dio, «il solo che possiede l’immortalità (atha-
nasia) e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né
può vedere» (1 Tm 6:16). Ovviamente qui immortalità significa più del-
l’esistenza eterna. Paolo afferma che Dio è la fonte di vita (cfr. Gv 5:26)
e che tutti gli altri esseri ricevono la vita eterna solo da lui.
La seconda volta appare in 1 Corinzi 15:53,54 in relazione alla
natura mortale dell’uomo che si riveste di immortalità alla risurrezio-
ne: «Infatti bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità e che
questo mortale rivesta immortalità (athanasia). Quando poi questo
corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivesti-
to immortalità (athanasia), allora sarà adempiuta la parola che è scrit-
ta: “La morte è stata sommersa nella vittoria”».
Paolo qui non sta parlando di alcuna immortalità naturale dell’a-
nima, bensì della trasformazione dalla mortalità all’immortalità che i
credenti sperimenteranno quando Cristo ritornerà. Le implicazioni di
questo passo sono chiare: la natura umana non è dotata di nessuna
forma di immortalità naturale, perché essa è deperibile e mortale.
L’immortalità non è una caratteristica presente; è un dono che sarà
offerto ai credenti alla venuta di Cristo.
Nella filosofia di Platone, l’anima è considerata indistruttibile, per-
ché partecipa a una sostanza non creata ed eterna che il corpo non pos-
siede. È sconfortante notare come questo concetto dualistico di Platone
possa aver offuscato persino il pensiero di un grande riformatore come
Calvino, che afferma «sarebbe follia rivolgersi ai filosofi per avere una
definizione sicura dell’anima dato che nessuno di loro, eccettuato
Platone, ne ha mai affermato esplicitamente l’essenza immortale».103
Egli insiste, dicendo: «Abbiamo più sopra insegnato con la Scrittura che
si tratta di una sostanza senza corpo. Bisogna ora aggiungere che, seb-
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Anima e spirito
La distinzione tra anima e spirito appare in altri due importanti passi
nel Nuovo Testamento che si devono brevemente considerare: 1
Tessalonicesi 5:23 ed Ebrei 4:12. Scrivendo ai tessalonicesi, Paolo dice:
«Or il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero
essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibi-
le per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Ts 5:23).
Alcuni si appellano a questo testo per sostenere che l’uomo alla
creazione sia stato formato come un essere avente un corpo, un’anima
e uno spirito, ciascuno come entità separata. I cattolici riducono i tre
elementi a due, unendo lo spirito con l’anima. Il nuovo Catechismo
della Chiesa Cattolica fa riferimento a questo testo affermando che
«“Spirito” significa che sin dalla sua creazione l’uomo è ordinato al suo
fine soprannaturale, e che la sua anima è capace di essere gratuita-
mente elevata alla comunione con Dio».106
Per i cattolici, lo spirito e l’anima sono essenzialmente uno, perché
è lo spirito che crea ogni anima come entità spirituale e immortale. Il
Catechismo si esprime così: «La Chiesa insegna che ogni anima spiri-
tuale è creata direttamente da Dio - non è “prodotta” dai genitori - ed
è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal
corpo nella morte…».107
Questo insegnamento tradizionale cattolico non tiene conto del-
l’insegnamento biblico della natura umana. Secondo la Bibbia, l’anima
non è una sostanza immortale che si separa dal corpo alla morte; è la
105 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria vaticana, Città del Vaticano, 1992, pp.
106,107, n° 367.
106 Ibidem, p. 106, n° 366.
107 E. SCHWEITZER, Art. cit., coll. 1277,1278.
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vita fisica e mortale che può diventare immortale per chi accetta il
dono di Dio della vita eterna. Affermare che lo Spirito sia subordinato
alla natura «spirituale» e immortale dell’anima significa ignorare che
uno dei compiti dello Spirito di Dio è di dare vita ai nostri corpi morta-
li: «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi,
colui che ha risuscitato Cristo Gesù dai morti vivificherà anche i vostri
corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8:11).
Per prima cosa, è opportuno osservare che in 1 Tessalonicesi 5:23,
non si tratta di un’affermazione dottrinale ma di una preghiera. Paolo
auspica che i membri di Tessalonica possano esser totalmente santifi-
cati e conservati irreprensibili fino alla venuta di Cristo. È evidente che
quando l’apostolo prega che lo spirito, l’anima e il corpo dei tessaloni-
cesi possano essere conservati irreprensibili, non tenta di frazionare la
natura umana in tre parti, più di quanto Gesù non intendesse frazio-
nare la natura umana in quattro parti quando disse: «Ama dunque il
Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta
la mente tua, e con tutta la forza tua» (Mc 12:30).
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Ragione e sentimento
Il termine anima (psyche) è generalmente utilizzato nel Nuovo Testa-
mento per precisare che la vita fisica può diventare «vita eterna» quan-
do è vissuta con fede per Cristo. Esistono pochi casi in cui il termine
psyche è usato come sede del sentimento e sorgente dei pensieri e
delle azioni.
I cristiani di Antiochia erano turbati da insegnamenti erronei
impartiti da persone che sconvolgevano le loro «anime» (psyche) (At
15:24). «Anima» in questo caso si riferisce alle menti di questi credenti
confusi in seguito a falsi insegnamenti.
Un uso simile del termine, si trova in Giovanni 10:24, dove i giudei
chiedono a Gesù: «Fino a quando terrai sospeso l’animo (psyche)
nostro? Se tu sei il Cristo, diccelo apertamente». Qui «l’anima» rappre-
senta la mente che prende decisioni a favore o contro Cristo. L’anima
come mente può essere influenzata dal bene o dal male. Così, si legge,
che Paolo e Barnaba vennero ad Antiochia «fortificando gli animi
(psychas) dei discepoli, esortandoli a perseverare nella fede» (At 14:22).
In questo caso, gli animi, sono i discepoli incoraggiati a pensare e a
manifestare i loro sentimenti.
In Luca 12:19, si trova un esempio interessante dove il termine
anima è riferito a entrambe le attività, fisiche e psichiche. L’uomo ricco
la cui terra ha prodotto abbondantemente disse: «Dirò all’anima mia:
“Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; riposati, mangia,
bevi, divertiti”». Benché l’enfasi sia posta maggiormente sull’aspetto
fisico della vita, come mangiare, bere, essere felice, il fatto che l’anima
esprima soddisfazione di sé, suggerisce chiaramente anche una fun-
zione psichica. In questo brano, Dio pronuncia il suo giudizio su que-
st’anima così soddisfatta di sé: «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa stessa
notte l’anima tua ti sarà ridomandata”» (Lc 12:20). Il testo suggerisce
che tanto la vita quanto la morte dell’anima costituiscono finalmente,
il dono o la punizione di Dio.
I vangeli sinottici riportano le note parole di Gesù nelle quali l’a-
nima è utilizzata come un perfetto sinonimo di cuore: «Ama il Signore
Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima (psyche), con tutta
la tua mente e con tutta la tua forza» (cfr. Mc 12:30; cfr. Mt 22:37; Lc
10:37). In queste parole, riprese da Deuteronomio 6:5, il cuore, l’anima,
la mente e la forza, sono usati per esprimere l’impegno d’amore tanto
razionale quanto emotivo verso Dio.
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Conclusione
L’uso del termine «anima» nel Nuovo Testamento indica che non esiste
alcun fondamento biblico per il concetto di un’entità incorporea e
immortale che sopravvive alla morte del corpo. Non solo il Nuovo
Testamento nega la nozione di immortalità dell’anima, ma mostra
chiaramente come la psyche indichi la vita fisica, emotiva e spirituale
nella sua globalità. L’anima è la persona intesa come essere vivente,
con la propria personalità, i propri appetiti, le proprie emozioni e le
proprie abilità di pensiero. L’anima descrive l’intera persona vivente e
per questo è inseparabile dal corpo.
Si è trovato, inoltre, che benché Cristo abbia ampliato il significa-
to dell’anima psyche includendovi l’idea del dono della vita eterna
offerta a quanti sono pronti a sacrificare la loro vita terrena per lui, non
ha, però, mai alluso a un’anima incorporea e immortale. Al contrario,
Gesù ha insegnato che Dio può distruggere tanto l’anima quanto il
corpo dei peccatori impenitenti (cfr. Mt 10:28).
Neppure Paolo usa il termine psyche per indicare la vita oltre la
morte. Al contrario, identifica l’anima con il nostro organismo fisico
(psychikon) che è soggetto alla legge del peccato e della morte (1 Cor
15:44). Per essere certo che anche i credenti provenienti dal mondo
non ebraico capissero che non c’è nulla di immortale nella natura
umana, Paolo utilizza il termine «spirito» (pneuma) per descrivere la
nuova vita in Cristo che il credente riceve come dono dello Spirito di
Dio sia ora, sia alla risurrezione.
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Pneuma,
l’uomo in relazione con Dio
Quello che è vero per l’anima lo è anche per lo spirito umano. La venu-
ta di Cristo ha contribuito a rivelare il significato e la funzione più
ampia, rispetto all’Antico Testamento, di spirito ruach nella redenzione
dell’uomo. Il significato di spirito (pneuma) come principio di vita
include altresì l’esperienza della vita nuova, della rigenerazione mora-
le, tramite la redenzione di Cristo.
Lo spirito (pneuma) è sinonimo di psyche. I due vocaboli sono spes-
so intercambiabili tanto nell’Antico Testamento quanto nel Nuovo
anche se sono evidenti delle differenze: «Spirito» è frequentemente
usato per indicare Dio, mentre il termine «anima», non è mai usato in
questo senso. L’uso dei due termini, però, privilegia «spirito» per indi-
care prevalentemente la persona orientata verso Dio, mentre «anima»
è la persona orientata verso il prossimo. Volendo spiegare tutto questo
con altre parole, si potrebbe dire che l’anima generalmente descrive
l’aspetto fisico della natura umana, mentre lo spirito quello spirituale
della vita interiore che lega un individuo al mondo eterno.
Per capire il significato e la funzione di spirito (pneuma) della
natura umana nel Nuovo Testamento, è importante capire prima il
ruolo dello Spirito nella vita e nel ministero di Cristo.
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Capitolo 7
connesso con la vita e il ministero di Cristo, che Paolo può dire: «Il
Signore è lo Spirito» (2 Cor 3:17).
Lo Spirito che dimora in Cristo abita anche nella persona che è «in
Cristo» (Rm 8:2). Egli stesso rende testimonianza al nostro spirito che
siamo figli di Dio (Rm 8:16). L’effetto immediato della redenzione è il
dono dello Spirito che «…dimora in voi e sarà con voi» (Gv 14:17). Lo
Spirito che dimora in un credente non è la presenza autonoma di un’a-
nima immortale, ma la potenza divina che rigenera la vita presente e
crea una nuova creatura (cfr. Rm 7:6; Gal 6:8).
Cristo è l’uomo dello Spirito per eccellenza. È stato concepito dallo
Spirito (Mt 1:18, 20; Lc 1:25). Al suo battesimo, lo Spirito è disceso su di
lui sotto forma di una colomba (Mc 1:10; At 10:38). Dopo il suo battesi-
mo, è stato condotto «dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni, dove
era tentato dal diavolo» (Lc 4:1,2; Mt 4:1). Dopo la tentazione, Gesù,
«nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea» (Lc 4:14). Nel suo
discorso inaugurale, pronunciato nella sinagoga di Nazaret, Cristo
applicò a se stesso la profezia d’Isaia circa l’unzione dello Spirito del
Messia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; perciò mi ha unto per
evangelizzare i poveri… “Oggi, si è adempiuta questa Scrittura, che voi
udite”» (Lc 4:18,21). Mediante la potenza dello Spirito Santo, Cristo «è
andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano
sotto il potere del diavolo» (At 10:38).
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109 W. WHITE, «Spirit», The Zondervan Pictorial Encyclopedia of the Bible, ed. Merrill
C. Tenney, Grand Rapids, 1978, Vol. 5, p. 505.
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gessimo le sue parole nei due modi. I versetti 5 e 9 non perdono nulla
del loro significato profondo se avviene questo scambio. «Quelli che
sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito» (Rm 8:5). «Voi
però non siete nella carne ma nello spirito, se lo Spirito di Dio abita
veramente in voi» (Rm 8:9).
La relazione tra i due sembra essere stabilita dal fatto che lo spiri-
to che ogni persona possiede come principio vitale,rende capaci i cre-
denti di essere ricettivi e sensibili all’opera dello Spirito Santo. In altre
parole, è lo spirito come sede della vita psichica e razionale (il sé inte-
riore), donato a ogni persona, che rende possibile allo Spirito di Dio di
dimorare negli esseri umani. W. D. Stacey afferma proprio questo
quando dice: «Tutti gli uomini hanno il pneuma (spirito) dalla nascita,
ma il pneuma (spirito) cristiano, in comunione con lo Spirito di Dio,
assume un nuovo carattere e una nuova dignità (Rm 8:16)».110
110 D.W. STACEY, The Pauline View of Man, London, 1956, p. 135.
111 C. TRESMONTANT, Il problema dell’anima, Edizioni Paoline, Roma, 1972, p. 68.
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Henry Barclay Swete spiega: «Lo Spirito Santo non crea lo spirito
nell’uomo; esso è potenzialmente presente in ogni uomo, anche se
rudimentale e incolto. Ogni essere umano ha affinità con le cose spiri-
tuali ed eterne. In ogni individuo lo spirito dell’uomo (1 Cor 2:11)
risponde allo Spirito di Dio, per quanto un uomo limitato possa corri-
spondere con l’infinito… Benché lo Spirito trovi nell’uomo una natura
spirituale sulla quale possa operare, lo spirito umano è però in una
condizione così imperfetta e depravata che si rende necessario un
completo rinnovamento, persino una ri-creazione (2 Cor 5:17)».112
Permettere allo Spirito di Dio di rinnovare e trasformare la vita
non significa rinunciare alla propria personalità ma portarla a sotto-
missione. In linea con l’Antico, il Nuovo Testamento vede la natura
umana come un’unità psicosomatica indissolubile, dove corpo, anima
e spirito sono parti integranti dello stesso essere. Lo spirito è una forza,
inseparabile dal destino e dalla vita (Lc 8:56; 23:46), che rinnova la
mente (Ef 4:23) e rende una persona capace di diventare un uomo
nuovo, «creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità che pro-
cedono dalla verità» (Ef 4:24).
112 H.B. SWETE, The Holy Spirit in the New Testament, London, 1910, p. 342.
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15:13; cfr. Gal 3:14; 5:5). La vita nuova nello Spirito è manifestata spe-
cialmente nello spirito d’amore fraterno che si sprigiona da Cristo nella
vita del credente. «L’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5:5; cfr. 15:30; Col 1:8;
2 Cor 6:6). Lo Spirito trasmette forza per soffrire per la causa di Cristo:
«Se siete insultati per il nome di Cristo, beati voi! Perché lo Spirito di
gloria, lo Spirito di Dio, riposa su di voi» (1 Pt 4:14).
Infine, lo Spirito è la potenza miracolosa vivificante della terza per-
sona della divinità che produrrà la risurrezione del corpo: «Se lo Spirito
di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risu-
scitato Cristo Gesù dai morti vivificherà anche i vostri corpi mortali per
mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8:11; cfr. 1 Cor 6:14; 2 Cor
3:6; Gal 6:8).
Così, come lo Spirito era attivo al principio al momento della crea-
zione (Gn 2:7), così sarà all’opera nella risurrezione finale. In un’altra
sezione vedremo che la Bibbia non afferma mai che un corpo risusci-
tato si ricongiunge a un’anima disincarnata; essa insegna invece che il
corpo terreno sarà risuscitato come «corpo spirituale» (pneumatikos)
(1 Cor 15:44), e cioè in una persona completamente controllata dalla
potenza di vita dello Spirito del Signore.
114 Cfr. R.A. MOREY, Op.cit., p. 62; W. MORGAN, The Religion and Theology of Paul, New
York, 1917, pp. 17 e ss. Una presentazione classica dell’interpretazione dualistica di
carne e spirito si trova in O. PFLEIDERER, Primitive Christianity, New York, 1906, Vol. 1,
pp. 280 ss. Vedere anche il saggio di M. E. WHITE, «The Greek and Roman Contribution»
in the Heritage of Western Culture, ed. R.C. Chalmers, Toronto, 1952, pp. 19-21.
L’autrice sostiene che il contrasto tra carne e spirito scaturisca dal dualismo greco e
«ha avuto come conseguenza la mortificazione della carne; solo di recente i credenti
hanno ritrovato una posizione più equilibrata», p. 21.
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Spirito. Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo
Spirito è vita e pace» (Rm 8:5,6).
La prima cosa da mettere in rilievo è che Paolo, in questo brano e
in altri simili (Gal 5:16-26), non contrappone il «corpo» (soma)
all’«anima» (psyche), perché usa termini diversi, cioè sarx e pneuma,
tradotti con «carne» e «spirito». Se Paolo avesse inteso porre l’accento
sulla distinzione tra corpo mortale e anima immortale, avrebbe usato
la coppia di parole in uso anche nella filosofia dualistica greca. Paolo
ha in mente qualcosa di completamente diverso e, quindi, usa altre
parole per esprimere il suo pensiero.
Non c’è nessun dubbio che per Paolo «carne» e «spirito» implichi-
no, non due parti separate e opposte della natura umana, ma due
orientamenti etici diversi. Questo diventa ancora più chiaro nel con-
fronto tra la lista delle «opere della carne» (Gal 5:19,20) e quella del
«frutto dello Spirito» (Gal 5:22,23). I peccati attribuiti alla carne come
«idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosie, ire, contese, divi-
sioni, sette, invidie», non hanno niente a che fare con impulsi fisici:
«Potrebbero anche essere praticate da uno spirito disincarnato».115
Charles Davis sostiene chiaramente il significato biblico della
carne e dello spirito e afferma: «Egli (Paolo) è completamente ebreo
nel suo modo di vedere le cose; vede l’essere umano semplicemente
come un’unità. Conseguentemente la sua antitesi tra carne (sarx) e
spirito (pneuma) non è un’opposizione tra la materia e lo spirito o fra il
corpo e l’anima. La “carne” non è parte dell’uomo, ma è l’intero uomo
nella sua debolezza e mortalità, nel suo distacco da Dio, nella sua soli-
darietà con la creazione peccaminosa e corrotta. “Spirito” è l’uomo
aperto alla vita divina e appartenente alla sfera del divino; l’uomo sotto
l’influsso e l’attività dello Spirito. Carne e spirito sono due principi atti-
vi che influenzano l’uomo e combattono dentro di lui».116
George Eldon Ladd, dal canto suo, scrive che la «carne» si riferisce
«all’uomo nell’insieme, visto nel suo stato decaduto, opposto a Dio.
Quest’utilizzazione è uno sviluppo naturale dell’uso di basar (carne)
nell’Antico Testamento, che è l’uomo visto nella sua fragilità e debo-
115 D.E.H. WHITELEY, The Theology of St. Paul, Grand Rapids, 1964, p. 39.
116 C. DAVIS, «The Resurrection of the Body» in Theology Digest 1960, p. 100.
Cfr. O. CULLMANN, op. cit. p. 33,34 in cui afferma: «Carne e spirito sono due potenze
trascendenti attive che dall’esterno possono penetrare nell’uomo, ma nessuna delle
quali è implicita nell’uomo in quanto tale. L’antropologia cristiana, a differenza di
quella greca, è fondata sulla storia della salvezza».
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Capitolo 7
lezza davanti a Dio. Quando ciò è applicato al regno etico diventa l’uo-
mo nella sua debolezza etica, e cioè, nella sua peccaminosità davanti a
Dio. Sarx (carne) rappresenta non una parte dell’uomo, ma l’uomo nel
suo insieme, non rigenerato, decaduto e peccaminoso».117
La carne e lo spirito rappresentano rispettivamente la potenza
della morte e la potenza della vita che possono agire dentro una per-
sona. Oscar Cullmann stabilisce la differenza tra l’uomo biblico e quel-
lo greco in questi termini: «Ci interessa qui rilevare in cosa differisca
l’antropologia del Nuovo Testamento da quella dei greci. Corpo e
anima sono entrambi buoni, in quanto creati da Dio. Sono entrambi
cattivi in quanto la potenza della morte, la carne, il peccato, ne ha
preso possesso… La carne è la potenza del peccato che col peccato
d’Adamo è penetrata come potenza di morte nell’uomo intero… Lo
Spirito è il grande antagonista della carne, ma anche qui non in senso
antropologico; è una presenza che penetra nell’uomo dall’esterno. Lo
Spirito è il potere creatore di Dio, la grande potenza di vita, l’elemento
di risurrezione, come la carne è la potenza della morte. Nell’antica
alleanza lo Spirito opera solo temporaneamente nei profeti. Invece,
nella fase finale del secolo presente… questa potenza di vita è operan-
te in tutti i membri della chiesa di Cristo».118
La potenza vivificante dello Spirito Santo è manifestata in questa
vita presente nella «nostra natura interiore (la quale) è rinnovata ogni
giorno» (cfr. 2 Cor 4:16; cfr Ef 4:23,24).
117 G.E. LADD, A Theology of the New Testament, Grand Rapids, 1974, p. 472.
118 O. CULLMANN, Op. cit., pp. 33-35.
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Conclusione
L’analisi dell’uso del termine «spirito» nel Nuovo Testamento ci fa con-
cludere che per l’anima non vi sia alcun elemento indipendente della
natura umana che opera separatamente dal corpo; al contrario, lo spi-
rito costituisce il principio vitale che agisce sul corpo fisico e rigenera
tutta la persona.
119 Per un’interessante discussione circa i malintesi del dualismo paolino cfr. R.L.
HALL, «Dualism and Christianity: A Reconsideration» Center Journal, Autunno 1982,
pp. 43-55.
120 H.W. ROBINSON, Op.cit., p. 117.
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Capitolo 7
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Capitolo 8
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Capitolo 8
del Nuovo Testamento non può mai accusare i suoi autori di denigrare
il corpo umano o l’ordine fisico. Il fatto che il Figlio di Dio abbia preso
forma umana per vivere su questa terra dà dignità e importanza al
corpo e all’intero regno fisico.
È anche indicativo notare che la stessa Parola, per mezzo della
quale «ogni cosa è stata fatta» (Gv 1:3) alla creazione, è venuta in que-
sto mondo per redimere e ristabilire non solo «l’anima», ma l’intero
essere umano e l’intero mondo. «Questo è il significato della dottrina
della risurrezione del corpo che più d’ogni altra cosa faceva inorridire
e che il mondo greco respingeva. Questa dottrina accettava, nel modo
più forte possibile, il concetto del Nuovo Testamento che vuole che non
solo una parte dell’uomo (per esempio l’anima razionale) sia destinata
al pieno benessere nell’eternità, ma è persona intera che avrà un posto
nel piano di Dio».121
La dottrina della risurrezione del corpo, che vedremo nella sesta
parte, insegna come la natura fisica e il mondo materiale, assumano un
ruolo vitale nel plasmare l’esistenza terrena, un significato eterno nel
progetto divino delle cose. Questo insegna che, come dice in modo con-
vincente Ronald Hall, «anche nell’aldilà, il corpo non è un semplice
ornamento dello spirito ma un elemento essenziale dell’essere, della
persona. È difficile capire come Paolo abbia potuto mantenere il pro-
prio convincimento nella risurrezione se avesse pensato diversamente.
Per esempio, se avesse pensato che la salvezza aveva a che fare solo
con un’anima disincarnata liberata dal corpo, sicuramente non avreb-
be fatto così tanta pressione per la risurrezione del corpo; si sarebbe
accontentato della nozione greca di un’anima immortale».122
La fede nella risurrezione del corpo è basata sulla risurrezione cor-
porea di Cristo: «Se Cristo non è stato risuscitato», esclama Paolo, «…
anche quelli che sono morti in Cristo, sono dunque periti» (1 Cor
15:17,18). L’incarnazione di Cristo in un corpo umano e la sua risurre-
zione in un corpo glorificato (Gv 20:27), indicano quanto il corpo abbia
un significato eterno nel disegno di Dio per questo mondo. Rivela anche
che il corpo non costituisce una prigione temporanea o un terreno di
prova per le «anime» destinate all’annientamento finale. Piuttosto,
lascia intendere che il corpo simboleggi l’intera personalità che Dio
desidera conservare e far tornare in vita nel giorno della risurrezione.
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Capitolo 8
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Conclusione
Il corpo nel Nuovo Testamento indica la persona nel suo insieme, sia
letteralmente, nella realtà concreta dell’esistenza umana, sia metafori-
camente, nella propria sottomissione da un lato, all’influsso della po-
tenza dello Spirito Santo e dall’altro, a quello nefasto del peccato. Il
Nuovo Testamento vede il corpo come un aspetto essenziale dell’inte-
ra persona che non è separabile dall’anima né può essere eliminato.
Il significato del corpo nel Nuovo Testamento è rafforzato dall’in-
carnazione di Cristo che ha preso forma di corpo umano per compiere
su questa terra la sua missione redentrice. L’incarnazione di Cristo e la
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Capitolo 8
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Capitolo 9
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127 Per una panoramica esauriente sui teologi e gli studiosi che attraverso la storia
cristiana hanno abbracciato la teoria di una natura umana unica e quindi di una
immortalità condizionata; cfr. i due volumi monumentali di L.R.E. FROOM, The
Conditionalist Faith of our Fathers: The Conflict of the Ages over the Nature and
Destiny of Man, Washington D.C., 1965.
128 W. TEMPLE, Christian Faith and life, London, 1954, p. 81.
129 W. TEMPLE, Man, Nature and God, London, 1953, p. 472.
130 O. CULLMANN Op .cit., p. 28.
131 O. CULLMANN, Op. cit., p. 7.
132 Ibidem.
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Capitolo 9
133 M.J. HEINECKEN, Basic Christian Teachings, Philadelphia, 1949, pp. 37, 133.
134 B.F.C. ATKINSON, The Pocket Commentary of the Bible, London, 1954, part 1, p. 32.
135 C. TRESMONTANT, Il problema dell’anima, (trad. G. Gismondi), Ed. Paoline, Roma, 1972,
pp. 63,64. Sulla medesima falsariga, Y.B. TREMEL, studioso domenicano francese, fa
un’ammissione degna di nota quando dice che «Il Nuovo Testamento chiaramente non
concepisce una vita dell’essere umano dopo la sua morte né filosoficamente né nei ter-
mini dell’immortalità dell’anima. Gli autori sacri non pensano alla vita futura come fine
di un processo naturale. Al contrario, per loro essa è sempre il risultato della salvezza e
della redenzione; è condizionata dalla volontà di Dio e dalla vittoria del Cristo». («Man
Between Death and Resurrection,» Theology Digest, Autumn, 1957, p. 151).
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136 C. TRESMONTANT, Paolo da Tarso, (Trad. P. Rossi), A. Mondadori, Milano, 1961 p. 139.
137 W. MORK, Linee di antropologia biblica, Editrice Esperienze, Fossano, 1971, p. 8.
138 W. MORK, Op. cit,. p. 64.
139 R. NIEBUHR, The Nature and Destiny of Man, New York, 1964, p. 295.
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Capitolo 9
rito. Il corpo è una prigione dalla quale l’anima è liberata alla morte
per continuare la propria esistenza non fisica. Così la questione della
vita dopo la morte è stata una disputa sulla dimostrazione dell’immor-
talità, della capacità dell’anima di sfidare la morte. Il corpo è di poca
importanza. Questo modo di pensare è estraneo alla Bibbia. Fedele alla
Scrittura e rifiutando definitivamente l’opinione greca, il credo cristia-
no non dice “Io credo nell’immortalità dell’anima”, ma “Io credo nella
risurrezione del corpo”».140
Nel suo impressionante studio sul concetto biblico della natura
umana intitolato Corpo e Anima, R.G. Owen, già rettore del Trinity
College, dell’Università di Toronto, offre un’analisi penetrante del con-
trasto tra la posizione greca dualistica e quella biblica unitaria della
natura umana. Owen crede che nella Bibbia l’uomo costituisca «un’u-
nità psicosomatica» e che «non vi possa essere nessun elemento divisi-
bile dall’uomo che sopravviva alla morte fisica».141 Egli prosegue: «La
Bibbia afferma che la natura umana è un’unità indivisibile; nel Nuovo
Testamento il destino finale dell’uomo coinvolge, con la risurrezione
del corpo, tutto l’uomo».142 R.G. Owen suggerisce che «l’antica dottrina
dell’immortalità dell’anima separata dal corpo debba essere gentil-
mente accompagnata nel mondo degli estinti».143
Emile Brunner, noto teologo svizzero, trova la concezione dualista
della natura umana assolutamente inconciliabile con l’insegnamento
biblico unitario e scrive: «In qualche luogo vi deve essere quindi nella
stessa fede cristiana una porta aperta, attraverso la quale è penetrata
questa dottrina estranea. Certo, secondo il modo di vedere della Bibbia
è “solo Dio, che possiede l’immortalità” (1 Tm 6:16). La concezione che
noi siamo uomini mortali, mentre le nostre anime sono indistruttibili,
perché di essenza divina, è incompatibile, una volta per tutte, con la
conoscenza biblica di Dio e dell’uomo».144
Brunner discute diverse implicazioni negative del concetto duali-
stico intorno alla natura umana:
1. Riconosce che «il dualismo platonico non si esprime solo nel ren-
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Capitolo 9
149 B.R. REICHENBACH, Is Man the Phoenix? A Study of Immortality, Grand Rapids, 1978, p. 54.
150 D.G. BLOESCH, Essentials of Evangelical Theology, San Francisco, 1979, Vol. 2, p. 188.
151 A. HOEKEMA, The Bible and the Future, Grand Rapids, 1979, p. 90.
152 F.F. BRUCE, «Paul on Immortality», Scottish Journal of Theology 24, 4 (nov 1971), p. 469.
153 M. HARRIS, «Resurrection and Immortality: Eight Theses» Themelios 1, no. 2, pri-
mavera, 1976, p. 53.
154 Idem.
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155 R.W. DOERMANN, Sheol in the Old Testament (tesi di dottorato alla Duke University)
1961, p. 205.
156 H. DOOYEWEERD, «Kuypers Wetenschapsleer», Philosophia Reformata, IV, pp.
199,201, citato da G.C. BERKOUWER, Man: The Image of God, Grand Rapids, 1972, pp.
255,256.
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Conclusione II parte
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III PARTE
LA MORTE E IL MORIRE
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Capitolo 10
157 R.S. ANDERSON, La fede, la morte e il morire, (trad. R. Fabbri), Claudiana, Torino,
1993, p. 133
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162 D. HUME, «Trattato sulla natura umana» in Opere, Bari, Laterza, 1971, vol. 1.
David Hume (A.D. 1711–1776), filosofo e storico inglese. Ha messo in dubbio l’immorta-
lità dell’anima, perché credeva che tutta la conoscenza derivasse dalle percezioni sen-
sorie del corpo (cfr. R.A. MOREY, Death and the Afterlife, Minneapolis, 1984, pp. 173-184).
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163 K. OSIS and E. HARALDSSON, At the Hour of Death, Avon, 1977, p. 13. Italiano Quello
che videro nell’ora della morte, (trad. D. Dettori), Milano, Armenia, 1988.
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Capitolo 10
164 Ibidem, pp. 13,14. cfr. W.D. REES, The Hallucinations of Widowhood BMJ 4, 1971,
pp. 37-41; G.N.M. TYRRELL, Apparitions, Duckworth, 1953, pp. 76,77.
165 P. BADHAM and L. BADHAM, Immortality or Extinction?, Totatwa, New Jersey, 1982,
pp. 93,94.
166 Ibidem, p. 94.
167 Ibidem, p. 98.
168 Ibidem, pp. 95-98.
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169 Queste caratteristiche sono tratte da uno studio dello psichiatra americano Raymond
A. Moody, che ha scritto due libri fondamentali su questo soggetto: Life after Life (1976)
e Reflections on Life after Life (1977). Lo studio di Moody è citato da Hans Schwarz (note
14), pp. 40,41. R.A, Moody, La vita oltre la vita, (trad. A.L. Zozo), Mondadori, Milano,
1997 e Nuove ipotesi sulla vita oltre la vita, Mondadori, Milano, 1998.
170 Per un approfondimento riguardante esperienze ravvicinate con la morte nel
corso della storia, cfr. H. SCHWARZ, Beyond the Gates of Death: A Biblical Examination
of Evidence for Life After Death, Minneapolis, 1981, pp. 37,48.
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Capitolo 10
171 PLATONE, Opere complete, vol. VI: Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia, Laterza,
Bari, 1982, Repubblica X, 614, p. 337.
172 Repubblica X, 621, op.cit., p. 345.
173 Cfr. C.S. KING, Psychic and Religious Phenomena, New York, 1978. Per approfondi-
re ulteriormente l’argomento consigliamo STANISLAV GROF e CHRISTINA GROF, Beyond
Death: the Gates of Consciousness, New York, 1989; M. RAWLINGS, Beyond Death’s Door,
New York, 1981; J. HEANEY, The Sacred and the Psychic: Parapsychology and the
Christian Theology, New York, 1984; H. Schwarz, Beyond the Gates of Death: A Biblical
Examination of Evidence for Life After Death, Minneapolis, 1981.
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182 Alcuni dei più importanti studi sul movimento del New Age sono: VI SHAL
MANGALWADI, When the New Age Gets Old: Looking for a Greater Spirituality, Downers
Grove, Illinois, 1992; T. PETERS, The Cosmic Self. A Penetrating Look at Today’s New
Age Movements, New York, 1991; M. PERRY, Gods Within: A Critical Guide to the New
Age, London, 1992; R. BASIL, ed., Not Necessarily the New Age, New York, 1988.
183 Il movimento del New Age è attraversato da una profonda crisi e l’ottimismo ini-
ziale ha esposto il movimento a un profondo ripensamento, ma l’uomo non si arren-
de e continua a sognare un millennio di pace o una epoca d’oro non più nella nuova
era, ma nella Next Age (cfr. M. INTROVIGNE, P. ZOCCATELLI e V. FANTONI, Il sogno del New
Age, Edizioni ADV, Impruneta, 2000, pp. 50-70)
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Capitolo 10
184 E. MILLER, A Crash Course on the New Age Movement, Grand Rapids, 1989, p. 183.
185 Ibidem, p. 141.
186 Ibidem, p. 144.
187 L. SMITH, «The New, Chic Metaphysical Fad of Channeling», Los Angeles Times
del 5 dic.1986, Part V.
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Conclusione
La menzogna di Satana, «non morirete» (Gn 3:4), è sopravvissuta fino
al nostro tempo in diverse forme e ha accompagnato tutta la storia
umana. Mentre nel medioevo la vita ultraterrena era promossa da rap-
presentazioni letterarie, artistiche e superstiziose della beatitudine dei
santi e dei tormenti per i peccatori, oggi questa convinzione è diffusa
in maniera più sofisticata tramite i medium, le ricerche «scientifiche»,
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Capitolo 11
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Capitolo 11
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Il peccato e la morte
Per capire l’insegnamento biblico sulla morte, bisogna ritornare al rac-
conto della creazione dove la morte è presentata, non come un pro-
cesso naturale voluto da Dio, ma come qualcosa di innaturale contra-
rio a Dio. Il racconto della Genesi insegna che la morte è entrata nel
mondo dopo il peccato. Dio ha ordinato ad Adamo di non mangiare del-
l’albero della conoscenza del bene e del male e ha aggiunto questo
avvertimento: «Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai»
(Gn 2:17). Il fatto che Adamo ed Eva non siano morti nel giorno della
loro trasgressione, ha condotto alcuni a concludere che gli esseri
umani di fatto non muoiono perché sono in possesso di un’anima
cosciente che sopravvive alla morte del corpo.
Quest’interpretazione metaforica difficilmente può essere sostenu-
ta perché, se tradotto letteralmente, il testo dice: «morendo, morirete».
Ciò che Dio ha semplicemente inteso dire è che nel giorno in cui aves-
sero disubbidito, il processo di morte sarebbe iniziato. Da una situa-
zione nella quale era per loro possibile non morire (immortalità con-
dizionata), sono passati a uno stato nel quale era per loro impossibile
non morire (mortalità incondizionata). Prima della caduta, l’assicura-
zione dell’immortalità era concessa dall’albero della vita. Dopo la
caduta, Adamo ed Eva non hanno più avuto accesso a esso (Gn 3:22,23)
e, di conseguenza, hanno dovuto sperimentare la realtà del processo di
morte. Nella visione profetica della nuova terra, l’albero della vita si
trova ad ambedue i lati del fiume come simbolo del dono della vita
eterna donata ai redenti (Ap 21:2).
La dichiarazione che si trova in Genesi 2:17 stabilisce un chiaro
rapporto fra la morte umana e la trasgressione del comandamento di
Dio. Quindi, la vita e la morte nella Bibbia hanno un significato reli-
gioso ed etico perché dipendono dall’ubbidienza o dalla disubbidienza
dell’uomo nei confronti di Dio. L’insegnamento fondamentale della
Bibbia è chiaro: la morte è entrata in questo mondo quale risultato
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Capitolo 11
della disubbidienza umana (cfr. Rm 5:12; 1 Cor 15:21). Tutto ciò, però,
non diminuisce la responsabilità dell’individuo per la propria parteci-
pazione al peccato (Ez 18:4,20). La Bibbia comunque fa distinzione fra
la prima morte, che ogni essere umano sperimenta come risultato del
peccato d’Adamo (cfr. Rm 5:12; 1 Cor 15:21), e la seconda morte che
avverrà dopo la risurrezione (Ap 20:6) come castigo per i peccati com-
messi (Rm 6:23).
197 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria vaticana, Città del Vaticano, 1992, p. 265.
198 A.H. STRONG, Systematic Theology , Old Tappan, New Jersey, 1970, p. 982.
199 H.C. THIESSEN, Lectures in Systematic Theology, Grand Rapids, 1979, p. 338.
200 F. PIEPER, Christian Dogmatics, trans. Theodore Engelder, St. Louis, 1950, vol. 1, p. 536.
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Capitolo 11
208 E. JACOB, «Death», The Interpreter’s Dictionary of the Bible, Nashville, 1962, vol. 1, p. 802.
209 H. BAVINK, «Death», The International Standard Bible Encyclopaedia, Grand Rapids,
1960, Vol. 2, p. 812.
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nere dottrine fondate sulla tradizione, piuttosto che cercare una com-
prensione più vicina agli insegnamenti della Parola di Dio su questio-
ni primarie della vita.
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Capitolo 11
dal significato letterale. Per esempio, Paolo dice: «Siamo giunti a que-
sta conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono» (2
Cor 5:14). Evidentemente non fa riferimento alla morte fisica, ma agli
effetti della morte di Cristo nella vita del credente davanti a Dio. Si
potrebbe tradurre «perciò tutti sono morti» come «perciò tutti sono con-
siderati come morti». Nessun uso letterale e metaforico dell’ebraico
muth o del greco apothanein suggeriscono che «l’anima» o lo «spirito»
sopravvivano alla morte dell’individuo.
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211 H.W. TEPKER, Problems in Eschatology: The Nature of Death and the Intermediate
State, The Springfielder, Summer 1965, p. 26.
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212 B.F.C. ATKINSON, Life and Immortality, Taunton, England, n.d., p. 38.
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Capitolo 11
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213 R.W. NICHOL (editore), Expositor’s Bible, New York, 1908, p. 362.
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Capitolo 11
214 L. MORRIS, The Epistles of Paul to the Thessalonians, Grand Rapids, 1982, p. 86.
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te, egli avrebbe sicuramente insistito sulla loro condizione beata nel
cielo per spiegare ai tessalonicesi che il loro cordoglio era sproporzio-
nato. Perché piangere per i propri cari se essi stavano già godendo la
celeste beatitudine?
Paolo non li ha incoraggiati in questo modo perché, ovviamente,
sapeva che i morti addormentati non erano in cielo, ma nelle loro
tombe. Questa conclusione è incoraggiata da un altro messaggio di
consolazione: i credenti viventi non avrebbero incontrato Cristo, alla
sua venuta, prima di quelli che si sono addormentati. «Noi viventi, i
quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo
quelli che si sono addormentati» (1 Ts 4:15). La ragione è che i morti in
Cristo risusciteranno per primi; poi «noi viventi, che saremo rimasti,
verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore
nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (1 Ts 4:16,17).
Il fatto che i santi viventi incontreranno Cristo nello stesso mo-
mento dei santi addormentati, indica che questi ultimi non sono stati
ancora uniti con Cristo nel cielo. Se le anime dei santi addormentati
stessero già godendo della comunione con Cristo nel cielo e poi doves-
sero scendere sulla terra con Cristo al suo secondo avvento, allora,
ovviamente, gioirebbero di una evidente priorità sui santi viventi. In
realtà, però, sia i credenti addormentati sia i credenti viventi, aspetta-
no la loro attesa unione con il Salvatore, unione che sperimenteranno
tutti nel giorno della venuta di Cristo.
La discussione di Paolo sui santi dormienti in 1 Corinzi 15, confer-
ma quanto già trovato in 1 Tessalonicesi 4. Dopo aver affermato l’im-
portanza fondamentale della risurrezione di Cristo per la fede e la spe-
ranza cristiana, Paolo spiega: «Se Cristo non è stato risuscitato… anche
quelli che sono morti in Cristo, sono dunque periti» (vv. 17,18).
L’apostolo difficilmente avrebbe potuto dire che i santi addormen-
tati sarebbero periti senza la garanzia della risurrezione di Cristo, se in
realtà avesse creduto che le loro anime fossero immortali e stessero già
godendo della beatitudine del paradiso. Se Paolo avesse creduto tutto
questo, probabilmente avrebbe detto che senza la risurrezione di
Cristo l’anima dei santi addormentati sarebbe rimasta addormentata
per tutta l’eternità. Ma Paolo credeva che l’intera persona, corpo e
anima, sarebbe «perita» senza la garanzia della risurrezione di Cristo.
È significativo che nell’intero capitolo consacrato all’importanza e
alle dinamiche della risurrezione, Paolo non accenni mai alla riunione
del corpo con l’anima al momento della risurrezione. Se Paolo avesse
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Capitolo 11
215 A. BARNES, Notes on the New Testament. Luke and John, Grand Rapids, 1978, p. 297.
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mente si pensa al fatto che non ci sia più alcuna speranza per riportar-
la in vita. Quando però si dice che una persona sta dormendo nel
Signore, si esprime la speranza del suo ritorno alla vita, nel giorno
della risurrezione. B. Reichenbach nota che la metafora del sonno non
sia soltanto un modo piacevole per parlare della morte, ma qualcosa di
ancora più importante: «Essa suggerisce con forza come la morte non
costituisca la fine dell’esistenza umana. Esattamente come una perso-
na che sta dormendo può rialzarsi, così anche i morti, «addormentati»,
hanno la possibilità di essere ricreati e di vivere di nuovo. Questo è
forse il significato del difficile racconto in Matteo 9:24 dove Gesù affer-
ma che la giovane in realtà non è morta, ma sta solo dormendo. Le per-
sone la consideravano morta e non nutrivano alcuna speranza per lei.
Gesù l’ha considerata come se stesse dormendo e ha visto che c’era
speranza perché poteva risuscitare a nuova vita. Ha visto in lei poten-
zialità che gli altri, inconsapevoli della potenza di Dio, non potevano
vedere. La metafora del «sonno», allora, non descrive lo stato ontologi-
co dei morti [cioè, la condizione del dormire], ma piuttosto si riferisce
alla possibilità dei defunti che, anche se non esistono più, mediante la
potenza di Dio possono essere ricreati per vivere di nuovo».216
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Capitolo 11
mente a motivo dei forti attacchi di Calvino contro questa dottrina. Nel
suo Commentario sulla Genesi, scritto nel 1537, Lutero osserva:
«L’anima defunta non dorme in questa maniera [il sonno regolare];
parlando correttamente, essa è sveglia e conversa con gli angeli e con
Dio».219 Il cambiamento di posizione di Lutero, che è passato dalla con-
vinzione dello stato incosciente alla dottrina dello stato consapevole
dei morti, serve a mostrare come persino i riformatori non abbiano
saputo sottrarsi alle pressioni teologiche del loro tempo.
Come Lutero, oggi la maggior parte dei cristiani crede che la
metafora del «sonno» sia usata nella Bibbia per insegnare, non lo stato
di incoscienza dei morti, ma per dire che «c’è una risurrezione e un
risveglio».220
Certi studiosi sostengono che la morte sia paragonata a un sonno
«non perché una persona sia incosciente, ma perché i morti non ritor-
nino su questa terra e non sappiano che cosa sia successo e non sap-
piano in quale posto abbiano una volta vissuto».221 In altre parole, i
morti sono inconsapevoli per quanto riguarda ciò che accade sulla
terra, mentre sono consapevoli per ciò che riguarda la loro vita in cielo
o nell’inferno.
Questa conclusione non è basata sulla Scrittura, ma sull’uso della
metafora del «sonno» nella letteratura intertestamentaria. Per esempio,
in 1 Enoc (circa 200 a.C.) si parla dei giusti che dormono un «lungo
sonno» (100:5), mentre le loro anime sono in cielo, consapevoli e atti-
ve (cfr. 102:4,5; 2 Baruch 36:11; Esd 7:32). Dopo aver esaminato questi
documenti, John Cooper conclude: «La metafora del sonno e del ripo-
so è usata per persone nello stato intermedio dove sono consapevoli e
attive, ma non in maniera terrena e corporea».222
Il significato biblico della metafora del «sonno» non può esser deci-
so sulla base dell’uso che ne fa la letteratura intertestamentaria, per-
ché, durante quel periodo, i giudei ellenisti cercavano di armonizzare
gli insegnamenti dell’Antico Testamento con la filosofia dualistica
greca del loro tempo. I risultati di questa operazione, hanno condotto
all’accettazione dell’immortalità dell’anima, della ricompensa o della
219 E. PLASS, What Luther Says, St. Louis, 1959, vol. 1, par. 1132.
220 H.W. TEPKER, Op. cit., p. 26.
221 Ibidem
222 J.W. COOPER, Body, Soul, and life Everlasting, Grand Rapids, 1989, p. 151. Lo stes-
so punto di vista è espresso anche da K. HANHART, The Intermediate State of the Dead,
Franeker, 1966, pp. 106-114; H. MURRAY, Raised Immortal, London, 1986, pp. 134-137.
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223 «Egeiro», in A Greek-English Lexicon of the New Testament, ed. William F. Arndt
and F. Wilbur Gingrich, Chicago, 1979, p. 214.
224 V.A. HANNAH, «Death, Immortality and Resurrection: A Response to John Yates, The
Origin of the Soul, in The Evangelical Quarterly n. 62/3, 1990, p. 245.
225 S. MIKOLASKI, ed., The Creative Theology of P. T. Forsyth, Grand Rapids, 1969, p. 249.
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Capitolo 11
Conclusione
La tradizione popolare considera che la morte riguardi solo il corpo e
non l’anima che continuerebbe la propria esistenza.
Vern Hannah giustamente afferma: «Una tale, radicale ridefinizio-
ne della morte, è infatti un rinnegamento della morte – una definizio-
ne, senza dubbio, che l’astuto serpente antico di Genesi 3, troverebbe
molto attraente».227
La Bibbia si accosta alla questione della morte in maniera decisa-
mente più seria. La morte è l’ultimo nemico (1 Cor 15:26) e non il libe-
ratore dell’anima immortale. Come dice Oscar Cullmann, «la morte è
la distruzione di tutta la vita creata da Dio. Perciò è la morte e non il
corpo che deve esser vinta nella risurrezione».228
H. Thielicke osserva che l’idea dell’immortalità dell’anima è una
scappatoia che permette alla persona «reale» di evitare la morte. È un
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229 H. THIELICKE, Tod und Leben, pp. 30,43, as cited by G.C. BERKOUWER, Man: The
Image of God, Grand Rapids, 1972, p. 253.
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IV PARTE
LO STATO INTERMEDIO
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Introduzione IV parte
Sete di eternità
La teoria di una vita dopo la morte sembra risorta. Ogni settimana nei
mezzi di comunicazione di massa ci sono notizie, commenti, esperien-
ze relative alla sopravvivenza dell’anima. I libri più venduti Life After
Death di Moody e Kubler-Ross e Beyond Death’s Door di Maurice
Rawlings esaminano casi di esperienze extracorporee. Persino alcuni
sacerdoti hanno ripreso a predicarla.
Una volta considerata dalla comunità laica come residuo di un
passato superstizioso, e dai credenti, come qualcosa di troppo difficile
da comprendere, la fede nella vita dopo la morte sta riacquistando ter-
reno. Nonostante un declino significativo nelle dottrine religiose,
secondo un recente sondaggio Gallup, il 71 per cento degli americani
crede in qualche forma di vita dopo la morte.230 «Persino molti di colo-
ro che dichiarano di non possedere alcuna fede religiosa si aspettano
che la vita continui dopo la morte: il 46 per cento crede al cielo, il 34
per cento nell’inferno».231
Le elaborate disposizioni funebri che dovrebbero preservare i resti
corporei dei defunti riflettono la credenza consapevole o subconscia in
una vita oltre la morte. Nel mondo antico, si pensava ai morti provve-
dendo per la loro vita futura con cibi, bevande, posate e vestiti. A volte,
per provvedere alle comodità necessarie alla vita futura, venivano sep-
pelliti con il cadavere persino servi e animali.
Oggi, i rituali funebri sono diversi, ma ancora rivelano una certa
qual fede conscia o subconscia in una vita oltre la morte. Il cadavere,
in taluni casi, viene imbalsamato e sigillato ermeticamente in una
cassa metallica galvanizzata per ritardarne il disfacimento. Viene vesti-
230 Cfr. Tavola 2.1 Religious Belief, Europe and the USA, in T. WALTER, The Eclipse of
Eternity, London, 1996, p. 32.
231 «Heaven and Hell: Who Will Go Where and Why?», Christianity Today, 27 maggio
1991, p. 29.
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Introduzione IV parte
to dei suoi più bei vestiti e posato su una fodera di raso e morbidi
cuscini. È come introdotto sulla «sua via» accompagnato da oggetti cari
alla sua vita, come anelli e ritratti di famiglia. Poi silenziosamente o
con fastosi cerimoniali viene sepolto in un cimitero, ben curato e ben
tenuto da mani esperte, circondato da fiori e prati. I morti vengono
consegnati alla «cura perpetua» del Signore in un cimitero mantenuto
e pianificato in modo professionale, in un bel paesaggio dove i bambi-
ni non giocano e dove nessun visitatore possa disturbarli.
L’interesse delle persone di introdurre i loro cari nel mondo dei
defunti con dignità ed eleganza rivela il desiderio di assicurare loro
comodità nella vita ultraterrena. Ma che tipo di vita può esserci dopo la
morte? I morti sono consapevoli o inconsapevoli? Se sono consapevoli,
sono capaci di comunicare con i vivi? Possono già godere le beatitudi-
ni del paradiso o subire i tormenti dell’inferno?
Si è già notato come la convinzione di una vita ultraterrena sia oggi
promossa, da un lato, da medium e spiritisti, i quali pretendono, perfi-
no sotto i riflettori dei mezzi di comunicazione, di mettere i vivi in con-
tatto con gli spiriti dei loro cari; dall’altro, troviamo le sofisticate ricer-
che «scientifiche» sulle esperienze ravvicinate con la morte e i «canali-
sti» del New Age.
Nonostante i reiterati tentativi di provare un’esistenza consapevo-
le nella vita ultraterrena, la Bibbia definisce chiaramente la morte
come la cessazione della vita per la persona tutt’intera, anima e corpo.
Obiettivi
In questa parte ci concentreremo sulla condizione dei morti nel perio-
do fra la morte e la risurrezione. Questo periodo è comunemente noto
come «stato intermedio». La domanda fondamentale alla quale cerche-
remo di rispondere è la seguente: i morti dormono in uno stato incon-
scio fino al mattino della risurrezione? Oppure l’anima dei salvati spe-
rimenta la beatitudine del paradiso mentre quella dei non salvati pati-
sce il tormento dell’inferno?
Questa parte è divisa in due capitoli. Il capitolo 12 esamina l’inse-
gnamento dell’Antico Testamento circa lo stato dei morti. Lo studio si
concentra specialmente sul significato e l’uso della parola sheol, comu-
nemente usata nell’Antico Testamento per designare il luogo di riposo
dei morti. Vedremo che, contrariamente alle credenze prevalenti, nes-
sun riferimento suggerisce che lo sheol sia il luogo della punizione
degli empi (l’inferno) o un luogo d’esistenza consapevole per le anime
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Sete di eternità
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Capitolo 12
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Capitolo 12
232 A. HEIDEL, The Gilgamish Epic and the Old Testament Parallels, Chicago, 1949, pp.
170-207.
233 Cfr. D. ALEXANDER, «The Old Testament View of Life After Death», Themelios II, 2,
1986, p. 44.
234 R.A. MOREY, Death and the Afterlife, Minneapolis, 1984, p. 72.
235 Selected Shorter Writings of B.B. Warfield, ed. J. Meeter, Trenton, New Jersey, 1970,
pp. 339,345.
236 G.E. LADD, «Death» The New Bible Dictionary, eds. F. F. Bruce and others, Grand
Rapids, 1962, p. 380.
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spirito, o ruach, ritornava a Dio, non allo sheol. Ma nello sheol, un luogo
di tenebre, di silenzio e di oblio, la vita era già prevista e ombrosa».237
Sulla base di testimonianze come queste, Morey conclude: «La let-
teratura moderna intende lo sheol come riferito al luogo dove l’anima
o lo spirito dell’uomo vanno alla morte. La letteratura lessicografica
non definisce lo sheol come tomba o momento del trapasso».238 Certi
studiosi propongono un concetto modificato sostenendo che lo sheol
sia esclusivamente il luogo di punizione degli empi e abbia «lo stesso
significato dell’inferno moderno».239
Queste interpretazioni che inducono a credere che lo sheol sia la
dimora delle anime (piuttosto che luogo di riposo del corpo nella
tomba) o il luogo di punizione per gli empi, noto come inferno, non
reggono alla luce dell’uso biblico di sheol. Questo fatto è riconosciuto
persino da John W. Cooper che ha prodotto forse ciò che costituisce il
tentativo più dotto per difendere il punto di vista dualistico tradizio-
nale della natura umana dagli assalti della critica moderna. Cooper
afferma: «È necessario, da parte dei cristiani tradizionali, prendere
coscienza che lo sheol sia il luogo di riposo dei morti indipendente-
mente dalla religione professata durante la loro vita. Lo sheol non è
“l’inferno” al quale gli empi sono condannati e dal quale i fedeli del
Signore sono risparmiati in gloria. Benché l’Antico Testamento accen-
ni al fatto che persino nella morte il Signore risparmi e comunichi con
i suoi giusti, non c’è nessun dubbio, come vedremo, che i credenti e i
non credenti tutti scendano nello sheol quando muoiono».240
Il liberale Interpreter’s Dictionary of the Bible afferma ancor più
energicamente: «Da nessuna parte nell’Antico Testamento, la dimora
dei morti è considerata come un posto di punizione o di tormento. Il
concetto di un “inferno” è sviluppato in Israele solo durante il periodo
ellenistico».241
Il tentativo di Morey e altri di fare una differenza tra sheol, dimo-
237 J.G.S.S. THOMSON, Death and the State of the Soul after Death, in Basic Christian
Doctrines, ed. Carl F.H. Henry, New York, 1962, p. 271.
238 R.A. MOREY, Op. cit., p. 73.
239 W.G.T. SHEDD, The Doctrine of endless Punishment, New York, 1886, p. 23. Cfr. L.
BERKHOF, Systematic Theology, Grand Rapids, 1953, p. 685; J.E. BRAUN, Whatever
Happened to Hell?, Nashville, 1979, pp. 130-142.
240 J.W. COOPER, Body, Soul, and Life Everlasting: Biblical Anthropology and the
Monism-Dualism Debate, Grand Rapids, 1989, p. 61.
241 T.H. GASTER, «Above of the Dead», The Interpreter’s Dictionary of the Bible,
Nashville, 1962, p. 788.
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Capitolo 12
242 J. PEDERSEN, Israel: Its life and Culture, Atlanta, 1991, vol. 1, p. 462.
243 R.W. DOERMANN, Sheol in the Old Testament, Ph. D., dissertation, Duke University,
1961, p. 191.
244 T.H. GASTER, Op. cit., p. 787.
245 R.W. DOERMANN, Op. cit., p. 37.
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Capitolo 12
luogo della distruzione, dimostra che il regno dei morti fosse visto
come luogo di annientamento e non come quello della sofferenza eter-
na degli empi.
Lo sheol è anche caratterizzato come «terra delle tenebre e del-
l’ombra di morte» (Gb 10:21), dove i morti non vedranno mai più la
luce (Sal 49:19; 88:13). Esso è anche «il luogo del silenzio» (Sal 94:17;
cfr. 115:17) e la terra senza ritorno: «La nuvola svanisce e si dilegua;
così chi scende nel soggiorno dei morti (sheol) non ne risalirà; non tor-
nerà più nella sua casa e il luogo dove stava non lo riconoscerà più»
(Gb 7:9,10).
248 A.A. HOEKEMA, The Bible and the Future, Grand Rapids, 1979, p. 96.
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249 H.W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia, 1975, p. 137.
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Capitolo 12
so dei corpi morti che dormono nei sepolcri. «Se aspetto come casa mia
il soggiorno dei morti (sheol), se già mi sono fatto il letto nelle tenebre
al sepolcro dico: “Tu sei mio padre”, e ai vermi: “Siete mia madre e mia
sorella”. Dov’è dunque la mia speranza? Questa speranza mia chi la
può scorgere? Essa scenderà alle porte del soggiorno dei morti (sheol),
quando nella polvere troveremo riposo assieme» (Gb 17:13-16).
I morti dormono nello sheol fino alla fine: «Così l’uomo giace, e
non risorge più; finché non vi siano più cieli egli non si risveglierà né
sarà più destato dal suo sonno» (Gb 14:12). «Finché non vi siano più
cieli» è possibilmente un accenno alla venuta del Signore alla fine dei
tempi per risuscitare i santi. In tutte le sue sofferenze, Giobbe non ha
mai rinunciato alla sua speranza di vedere il Signore persino dopo la
rovina del suo corpo. «Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine
si alzerà sulla polvere. E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto que-
sto corpo, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò a me favorevole;
lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desi-
derio, mi si consuma!» (Gb 19:25-27).
Riassumendo, la condizione dei morti nello sheol, il regno dei
morti, è la più completa incoscienza caratterizzata dall’inoperosità,
sonno, riposo che dureranno fino al giorno della risurrezione. Nessuno
dei testi esaminati suggerisce che lo sheol sia il luogo di purificazione
per gli empi (l’inferno) o di sopravvivenza cosciente delle anime o
degli spiriti dei defunti morti. Non ci sono anime nello sheol semplice-
mente perché nell’Antico Testamento l’anima non sopravvive alla
morte del corpo. Come chiaramente afferma N.H. Snaith: «Il cadavere
di un uomo, di un uccello o di qualsiasi altro animale è senza nefesh
(anima). Nello sheol, la dimora dei morti, non c’è nessuna nefesh
(anima)».250
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conversare gli uni con gli altri e persino di emettere giudizi morali
sullo stile di vita dei nuovi arrivati (cfr. Is 14:9, 20; 44:23; Ez 32:21).
Sono quindi entità consapevoli mentre sono nello sheol».251
In vista dell’alto valore attribuito a questi passi in favore di una
sopravvivenza cosciente nell’aldilà, sarà necessario esaminarli, anche
se in modo conciso.
L’oracolo contenuto in Isaia 14 è un rimprovero contro l’altezzoso
re di Babilonia, dove le «ombre» dei morti, i re soggiogati dalle armi
vincenti di Nabucodonosor, sono personificate per esprimere la con-
danna di Dio al re dispotico. Quando il re li raggiunge nello sheol, que-
sti sovrani defunti sono ritratti come «ombre» refain (termine che
vedremo più avanti), che si sollevano dai loro troni d’ombra per bef-
farsi del tiranno decaduto, dicendo: «“Anche tu dunque sei diventato
debole come noi? Anche tu sei divenuto dunque simile a noi?” Il tuo
fasto e il suono dei tuoi saltèri sono stati fatti scendere nel soggiorno
dei morti (sheol); sotto di te sta un letto di vermi, e i vermi sono la tua
coperta» (Is 14:10,11).
Siamo in presenza della descrizione del cadavere del re nella
tomba, corroso da grilli e vermi; non di un’anima che goda della beati-
tudine del cielo o subisca i tormenti dell’inferno. Il linguaggio del
brano è adeguato non già per l’immagine degli «spiriti deceduti», ma
per descrivere i morti sepolti. È evidente che se i re fossero stati «spi-
riti deceduti» nello sheol, non starebbero seduti sui troni. In questa
impressionante parabola, persino i cipressi e i cedri del Libano sono
personificati (Is 14:8) e in grado di esprimere rimproveri beffardi con-
tro il tiranno caduto.
È evidente che tutti i caratteri di questa parabola, alberi personifi-
cati, sovrani caduti, sono finti. Servono non già per descrivere la
sopravvivenza delle anime nello sheol, ma per preannunciare con un
linguaggio figurato che attira l’attenzione il giudizio di Dio circa l’op-
pressore d’Israele da un lato, e il suo infamante destino ultimo, corro-
so dai vermi in una tomba piena di polvere, dall’altro. Interpretare
questa parabola come una descrizione letterale della vita ultraterrena
significa ignorare la natura altamente figurativa e metaforica del
brano, che è stato costruito così per descrivere la condanna di un tiran-
no che esaltava se stesso. Ripetutamente, nel corso di questo studio, si
rimane sorpresi dal fatto che persino studiosi di grande spessore spes-
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252 R.A. PETERSON, Hell on Trial: The Case for Eternal Punishment, Phillipsburgh, New
Jersey, 1995, p. 28.
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253 Cfr. Gb 26:5; Ps 88:10; Prv 2:18; 9:18; 21:16; Is 14:9; 26:14,19.
254 R.A. MOREY, Op. cit., p. 78.
255 P. HAUPT, «Assyrian Rabu, “To Sink” - Hebrew “rapha”», American Journal of
Semitic Languages and Literature 33, 1916,1917, p. 48.
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Capitolo 12
Refain e i morti
La relazione fra i morti e i refain è esplicita in Isaia 26:14, dove il pro-
feta mette in contrapposizione il Signore Dio con i sovrani terreni,
dicendo, di questi ultimi: «Quelli sono morti, e non rivivranno più;
sono ombre (refain), e non risorgeranno più». Il parallelismo suggeri-
sce che refain e i morti siano la stessa cosa. Inoltre, dice che i refain
«non risorgeranno». L’implicazione è che questi refain, cioè i malvagi
sovrani morti, non verranno risuscitati. I refain sono menzionati di
nuovo nel verso 19, dove il profeta parla della risurrezione del popolo
di Dio: «I tuoi morti torneranno a vita, il mio corpo morto anch’esso, e
risusciteranno. Risvegliatevi, e giubilate, voi che abitate nella polvere;
perciocché, quale è la rugiada all’erbe, tal sarà la tua rugiada, e la
terra gitterà fuori i trapassati (refain)» (Is 26:19 Diodati). John Cooper
usa questo testo per affermare che i refain sono gli spiriti dei morti che
saranno riuniti con i loro corpi alla risurrezione.257
Cooper scrive: «È molto significativo per la nostra inchiesta che il
termine refain per i defunti, sia presente nel v. 14b e anche nel v. 19d
e che questa medesima parola venga usata in Isaia 14 come attraver-
so tutto l’Antico Testamento per designare gli abitanti dello sheol. Così
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258 Ibidem.
259 Incidentalmente, «fare nascere» i refain difficilmente sostiene la nozione che que-
sti sono spiriti viventi, consapevoli e disincarnati.
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Capitolo 12
La maga di Endor
La precedente discussione in merito allo sheol fornisce un utile retro-
scena per prendere in esame l’unica descrizione completa che si trovi
nella Bibbia intorno alla comunicazione con uno spirito nello sheol. In
breve, questo è il racconto. Quando Saul ha rifiutato di ricevere una
guida per il suo futuro da parte di Dio attraverso i sogni, l’urim e i pro-
feti (1 Sam 28:6), nella disperazione ha cercato una donna, la maga di
Endor, affinché evocasse lo spirito del defunto Samuele (1 Sam 28:7).
Travestendosi per evitare d’essere riconosciuto, Saul si reca dalla
donna di notte e le chiede di far risalire il profeta defunto e di solleci-
tarne informazioni (1 Sam 28:8). Quando la donna, sapendo dell’inter-
detto reale contro la negromanzia, esita, (v. 3), Saul le garantisce che
non le sarebbe successo niente e insiste perché faccia risalire Sa-
muele (vv. 9,10). La donna ubbidisce e dice a Saul: «Io vedo un dio (elo-
him) che sale dalla terra» (v. 13). Descrive a Saul ciò che vede: un vec-
chio «avvolto in un mantello» (v. 14).
260 B.F.C. ATKINSON, Life and Immortality: An Examination of the Nature and meaning of
Life and Death as They Are Revealed in the Scriptures, Taunton, England, s.d., pp. 41,42.
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Capitolo 12
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Conclusione
Lo studio della parola ebraica che indica «il regno dei morti» (sheol)
mostra che in nessuno dei testi esaminati, lo sheol sia il luogo di puni-
zione per gli empi (l’inferno) o il luogo per anime e spiriti che hanno
una vita cosciente dopo la morte. Il regno dei morti consiste in uno
stato di incoscienza, di inattività e di sonno, che continua fino al gior-
no della risurrezione.
Anche il termine refain, tradotto generalmente con «debole» o
«ombra», indica non spiriti disincarnati che galleggiano nel mondo sot-
terraneo ma morti che abitano nella polvere. Si è anche trovato che i
morti vengono definiti «i deboli» (refain), (Is 14:10) perché sono privi di
forza. Il racconto dell’apparizione «dello spirito» di Samuele a Endor
dice molto poco circa l’esistenza cosciente dopo la morte, perché quel-
lo che ha visto la medium era un falso dio (elohim, 1 Sam 28:13) o uno
spirito maligno che personificava Samuele, non l’anima del profeta.
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Capitolo 13
Il Nuovo Testamento dice molto poco circa lo stato dei morti durante il
periodo intermedio. Dobbiamo accettare ciò che dice G. C. Berkouwer
quando afferma che quello che il Nuovo Testamento dice circa lo stato
intermedio non è più di un sussurro.263
L’interesse primario del Nuovo Testamento è negli eventi che
segnano la transizione da quest’era all’era futura: il ritorno di Cristo e
la risurrezione dei morti. La nostra maggiore fonte di informazione in
merito allo stato dei morti sono i riferimenti all’ades (l’equivalente
greco dell’ebraico sheol) e cinque passi generalmente citati a sostegno
di un’esistenza cosciente dell’anima dopo la morte.
I cinque brani riguardano: la parabola del ricco e Lazzaro (Lc
16:19-31), la conversazione tra Cristo e il ladrone in croce (Lc
23:42,43), l’espressione paolina di «partire ed essere con Cristo» (Fil
1:23), la similitudine della casa terrena e celeste e del vestire o essere
svestito (2 Cor 5:1,10) dove Paolo esprime il suo desiderio di «partire
dal corpo e abitare con il Signore» (2 Cor 5:8) e le anime dei martiri che
gridano a Dio perché vendichi il loro sangue (Ap 6:9,11).
263 G.C. BERKOUWER, The Return of Christ, Grand Rapids, 1972, p. 63. A.A. HOEKEMA sot-
tolinea che la traduzione inglese della frase che si trova a p. 63 del libro The Return
of Christ non interpreta fedelmente la parola olandese «fluistering» (sussurrare), sce-
gliendo la parola «proclamazione:», «Chi avrebbe la pretesa di sapere aggiungere
altro alla proclamazione del Nuovo Testamento?». A.A. HOEKEMA, The Bible and the
Future, Grand Rapids, 1979, p. 94.
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Capitolo 13
264 E.W. FUDGE, The Fire That Consumes. A Biblical and Historical Study of the Final
Punishment, Houston, 1989, p. 205.
265 Per un’istruttiva discussione sull’adozione della concezione greca dell’ades duran-
te il periodo dell’intertestamento, cfr. J. JEREMIAS, «Ades» art. In G. KITTEL, G. FREIDRICH,
Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, 1965 vol. 1, col. 395.
266 Cfr. Mt 11:23; 16:18; Lc 10:15; 16:23; At 2:27, 3 1; Ap 1:18, 6:8; 20:13; 20:14.
267 Cfr. 1 Cor 15:55.
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Gesù e l’ades
Nei vangeli, Gesù fa riferimento per ben tre volte all’ades. La prima si
trova in Matteo 11:23, dove Gesù lancia un rimprovero contro
Capernaum: «E tu, Capernaum, sarai innalzata fino al cielo? Sarai
abbassata fino all’ades» (cfr. Lc 10:15). Qui l’ades, come lo sheol
nell’Antico Testamento (cfr. Am 9:2,3; Gb 11:7,9), indica il posto più
basso dell’universo esattamente come il cielo è il posto più elevato.
Questo significa che Capernaum sarà umiliata fino al regno dei morti,
il posto più basso.
La seconda occasione in cui Gesù utilizza il termine ades si trova
nella parabola del ricco e di Lazzaro (Lc 16:23). Si ritornerà successi-
vamente su questo episodio. La terza volta si trova in Matteo 16:18,
dove Gesù esprime la propria fiducia affermando che «le porte dell’a-
des non potranno vincere» la chiesa. Il significato della frase «Le porte
dell’ades» è illuminato dalla stessa espressione nell’Antico Testamento
e nella letteratura giudaica (cfr. 3 Maccabei 5:51; Sapienza di Salomone
16:13) dove è utilizzato quale sinonimo per la morte. Per esempio,
Giobbe pone una domanda retorica: «Ti sono state mostrate le porte
della morte, o hai forse visto le porte delle tenebre profonde?» (Gb
38:17; cfr. Is 38:18). Il mondo sotterraneo era ritratto come circondato
da scogliere, dove i morti erano rinchiusi. Quindi Gesù voleva dire con
«le porte dell’ades» che la morte non avrebbe vinto la chiesa, perché
lui, ovviamente, avrebbe ottenuto la vittoria sulla morte.
Come tutti i morti, Gesù è andato nell’ades, cioè, nella tomba, ma
a differenza degli altri, egli è stato vittorioso sulla morte. «Poiché tu non
lascerai l’anima mia nell’ades, e non permetterai che il tuo Santo veda
la corruzione» (At 2:27; cfr. 2:31). Qui l’ades è la tomba dove il corpo di
Cristo ha riposato per soli tre giorni e, di conseguenza, non ha visto «la
corruzione», il processo di decomposizione che avviene a seguito di un
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Capitolo 13
Il ricco e Lazzaro
La parola ades appare anche nella parabola dell’uomo ricco e Lazzaro,
ma con un significato diverso. Mentre nei dieci testi appena esaminati
l’ades si riferisce alla tomba o al regno dei morti, nella parabola del
ricco e Lazzaro indica il luogo di punizione per gli empi (Lc 16:23).
269 K. HANHART giunge sostanzialmente alla stessa conclusione nella sua tesi di laurea
presentata all’Università di Amsterdam. Ella scrive: «Giungiamo alla conclusione che
questi passaggi non fanno piena luce sulla questione che stiamo trattando (lo stato
intermedio). Nel senso di potere della morte, regno degli abissi e luogo nel quale si
manifestano un’umiliazione assoluta e il giudizio, il termine ades non va oltre il signi-
ficato che ha Sheol nell’Antico Testamento» (K. Hanhart, The Intermediate State in the
New Testament, Doctoral dissertation, University of Amsterdam, 1966, p. 35).
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271 F. JOSEPHUS, Discourse to the Greeks Concerning Hades, in Complete Works, (trad.
da W. Whiston) Grand Rapids, 1974, p. 637.
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Giuseppe Flavio sostiene inoltre che l’ades sia divisa in due sezio-
ni. Una è «la regione della luce» dove le anime dei morti giusti sono
portate dagli angeli al «luogo che chiamiamo seno di Abramo».272 La
seconda regione è nelle «tenebre eterne» e le anime degli empi sono
trascinate con forza «dagli angeli loro assegnati per la punizione».273
Questi angeli trascinano gli empi «nel quartiere dell’inferno stesso»,
così che possano vedere e sentire il calore delle fiamme.274 Ma non
vengono gettati nell’inferno medesimo fino a dopo il giudizio finale.
«Un caos profondo e largo è posto fra di loro, a tal guisa che un uomo
giusto, che avesse pietà di loro, non potrebbe varcarlo. Nemmeno un
ingiusto, se fosse sfacciato abbastanza da tentarvi».275
Le impressionanti similitudini fra la descrizione dell’ades di
Giuseppe Flavio e la parabola del ricco Epulone e Lazzaro sono evi-
denti: nei due racconti abbiamo due regioni che separano i giusti dagli
empi, il seno d’Abramo è la dimora dei giusti, c’è un grande abisso che
non può essere attraversato e gli abitanti di una regione possono vede-
re quelli dell’altra.
La descrizione di Giuseppe Flavio dell’ades non è unica. Si trova-
no descrizioni simili in altri scritti giudaici.276 Questo significa che
Gesù cita una tradizione popolare del suo tempo circa la condizione dei
morti nell’ades e questo non per approvare queste vedute, ma per sot-
tolineare l’importanza di dare ascolto oggi agli insegnamenti di Mosè e
dei profeti perché questo fatto può determinare la beatitudine o la
miseria nel mondo futuro.
272Ibidem.
273Ibidem.
274Ibidem.
275Ibidem.
276 Per un breve sunto della letteratura intertestamentaria sulla condizione dei
defunti nell’ades cfr. K. HANHART, Op. cit., pp. 18-31.
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ladrone pentito credeva che Gesù fosse il Messia e gli chiese: «Gesù,
ricordati di me quando verrai nel tuo regno» (Lc 23:42). Gesù gli rispo-
se: «In verità ti dico oggi tu sarai con me in paradiso» (Lc 23:43).
Una questione fortemente dibattuta relativamente all’interpreta-
zione di questo testo è data dalla posizione della virgola che nella mag-
gior parte delle traduzioni è posta prima di «oggi». Così la maggior
parte dei lettori e dei commentatori ritengono che Gesù abbia detto:
«Oggi sarai con me in paradiso». Questa lettura può significare che «in
quel giorno»280 il ladrone sarebbe asceso al paradiso con Cristo.
Il testo originale greco, comunque, non ha nessuna punteggiatura
e, tradotto letteralmente, dice: «In verità a te dico oggi con me sarai in
paradiso». L’avverbio «oggi» (semeron) si trova fra il verbo «dico» (lego)
e «sarai» (ese). Questo significa che grammaticalmente l’avverbio
«oggi» può applicarsi a ciascuno dei due verbi. Se è riferito al primo
verbo, allora è come se Gesù avesse detto: «In verità ti dico oggi, tu
sarai con me in paradiso».
I traduttori hanno posto la virgola prima dell’avverbio «oggi», non
per ragioni grammaticali, ma perché spinti dalla convinzione teologica
che i morti ricevano alla morte la loro ricompensa. Sarebbe davvero
opportuno che i traduttori si limitassero a tradurre il testo e lasciasse-
ro al lettore il compito di interpretare.
Qual è la domanda che il testo ci pone? Gesù voleva dire: «In veri-
tà, io ti dico oggi…» oppure «Oggi tu sarai con me in paradiso»? Coloro
che sostengono che Gesù volesse dire: «Oggi tu sarai con me in para-
diso» si appellano al fatto che l’avverbio «oggi» non appaia altrove con
la frase frequentemente usata: «In verità ti dico».
Questa è un’osservazione valida, ma la ragione per quest’insolita
unione dell’avverbio «oggi» alla frase: «In verità io ti dico» potrebbe
essere giustamente data dal contesto immediato. Il ladrone ha chiesto
a Gesù di ricordarsi di lui in futuro quando avrebbe stabilito il suo
regno messianico. Gesù risponde ricordando immediatamente al con-
dannato pentito «oggi» rassicurandolo che sarebbe stato con lui in
paradiso.
Quest’interpretazione poggia su tre considerazioni importanti: il
significato di paradiso nel Nuovo Testamento, il tempo in cui i salvati
erederanno la loro ricompensa in paradiso e il tempo del ritorno di
Gesù in paradiso.
280 N. GELDENHUYS, Commentary on the Gospel of Luke, Grand Rapids, 1983, p. 611.
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lui non ha nessuna consapevolezza del tempo che passa. Come dice
Thielicke: «La rimozione del senso del tempo significa, per coloro che
si svegliano dalla lunga notte della morte, che essa è un semplice punto
matematico perché chiamati a una vita completa».282
I tentativi di cogliere in questa frase di Paolo un sostegno per la
sopravvivenza dell’anima o la sua ascensione subito dopo la morte, non
sono fondati perché, come osserva giustamente Ray S. Anderson,
«Paolo non pensava che la questione della condizione della persona fra
la morte e la risurrezione fosse una questione da considerare».283
La ragione per Paolo è che quanti «muoiono in Cristo» stanno «dor-
mendo in Cristo» (cfr. 1 Cor 15:18; 1 Ts 4:14). La loro condizione con
Cristo è di immediatezza, perché non hanno nessuna consapevolezza
del passare del tempo fra la morte e la risurrezione, sperimentando
quello che può esser chiamato «tempo eterno». Per quanti continuano
a vivere nel tempo limitato, legato alla terra, c’è un intervallo fra la
morte e la risurrezione. La difficoltà è posta dal fatto che non è possi-
bile sincronizzare l’orologio del tempo eterno con quello temporale.
Questo è il tentativo che ha condotto a controverse e sfortunate specu-
lazioni sul cosiddetto stato intermedio.
Con il suo desiderio di «essere con Cristo», Paolo non stava in alcun
modo esprimendo la certezza dottrinale di quello che succede dopo la
morte, ma stava semplicemente esprimendo il proprio desiderio di
vedere la fine della sua tormentata esistenza ed essere con Cristo.
Attraverso i secoli i cristiani hanno sinceramente espresso lo stesso
desiderio, senza necessariamente attendersi di essere introdotti alla
presenza di Cristo al momento della loro morte. L’affermazione di
Paolo deve essere interpretata sulla base dei suoi chiari insegnamenti
in merito al momento in cui i credenti saranno uniti con Cristo.
282 H. THIELICKE, Living with Death, (trad. da Geoffrey W. Bromiley), Grand Rapids,
1983, p. 177.
283 R.S. ANDERSON, On Being Human, Grand Rapids, 1982, p. 117.
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a. Lo stato intermedio;
b. La risurrezione del corpo dopo la morte;
c. La risurrezione del corpo alla venuta di Cristo.
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a. Lo stato intermedio
La maggior parte degli studiosi del passato e del presente ritengono
che in questo brano Paolo descriva l’esistenza del credente in cielo con
Cristo durante lo stato intermedio tra la morte e la risurrezione.287 In
altre parole, questo pensiero potrebbe essere così riassunto: la tenda e
il vestito presente sono l’esistenza terrena; l’essere spogliati significa
morire, con il risultato d’esser in uno stato di nudità che significhereb-
be l’esistenza dell’anima senza il corpo durante lo stato intermedio.
L’edificio che abbiamo nel cielo rappresenta, per alcuni, il corpo che
sarà riunito all’anima alla risurrezione, mentre per altri, è l’anima stes-
sa che dimora nel cielo.
Robert Morey è di questo parere: «Dove nella Scrittura viene detto
che il nostro corpo risorto è già creato e ci sta aspettando nel cielo?
L’unica risposta logica è che Paolo parla della dimora dell’anima nel
cielo».288 Sulla base di questi versetti, Morey afferma che «la dimora
(dell’anima) quando la persona è in vita è la terra, mentre il luogo della
dimora dopo la morte è il cielo».289 Esistono tre grandi problemi nel-
l’interpretazione dello stato intermedio a proposito di questo passo.
Primo, s’ignora che il contrasto tra l’edificio celeste e la tenda ter-
rena è relativo allo spazio e non al tempo. Paolo mette in contrapposi-
zione l’esistenza celeste con quella terrena. L’apostolo non vuole affat-
to sapere qual è lo stato dell’anima tra la morte e la risurrezione. Ora,
se l’apostolo si fosse aspettato d’essere con Cristo dopo la morte con la
sua anima liberata dalla «prigione» del corpo, perché non l’ha detto più
chiaramente? Avrebbe potuto dire: «Sappiamo che se la tenda terrena
dove abitiamo è distrutta… noi saremo con le nostre anime alla pre-
senza di Dio nel cielo». Paolo, in tutti i suoi scritti, non allude mai alla
sopravvivenza e all’esistenza dell’anima alla presenza di Cristo.
Perché? Semplicemente perché questa nozione è assente dai suoi pen-
sieri ed estranea alla Scrittura.
Secondo, se lo stato di nudità fosse l’esistenza dell’anima alla pre-
senza di Cristo durante lo stato intermedio, perché Paolo è così esitan-
te davanti al pensiero di esser «trovato nudo»? (2 Cor 5:3). Dopo tutto,
287 Cfr, per esempio, G.C. BERKOUWER, The Return of Christ, Grand Rapids, 1972, pp.
55-59; G. CALVINO, Second Epistle of Paul, the Apostle to the Corinthians, ad. loc.; R.V.G.
TASKER, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, (Trad. M. Fanelli), GBU, Roma, 1978
(cfr. Il commento al capitolo 5 vv. 1-10).
288 R.A. MOREY, op.cit., p. 210.
289 Ibidem.
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Capitolo 13
290 Cfr. C.H. DODD, The Bible and the Greeks, New York, 1954, pp. 191-195; FILONE
Alessandrino, Le allegorie delle leggi, 2, 57,59 in La creazione del mondo e le allegorie
delle leggi, (a cura di G. Reale), Rusconi, Milano, 1978, pp. 229,230.
291 Per una lista esauriente di tutti gli studiosi che sostengono questa posizione cfr.
M.J. HARRIS, Raised Immortal: Resurrection and Immortality in the New Testament,
London, 1986, p. 255 n. 2.
292 Cfr. F.F. BRUCE, Paul: Apostle of the Heart Set Free, Grand Rapids, 1977, p. 310.
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293 Cfr. J. DENNEY, Second Epistle to the Corinthians, New York, 1903, ad loc.; F. V.
FILSON, The Second Epistle to the Corinthians, in The Interpreter’s Bible, New York,
1952, vol. 10, ad loc.; P.E. HUGHES, Paul’s Second Epistle to the Corinthians, Grand
Rapids, 1976, ad loc.; B.F.C. ATKINSON, Op. cit., pp. 64-65; The Seventh-day Adventist
Commentary, Washington, DC, 1957, vol. 6, pp. 861-863.
294 K. HANHART, Op.cit., p. 156.
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Capitolo 13
In modo più diretto possiamo dire che coloro che propongono que-
sta opinione interpretano le metafore di Paolo in questo modo: mentre
l’uomo vive sulla terra è rivestito con la «tenda terrena» del corpo mor-
tale; alla morte viene «spogliato» e i corpi sono «distrutti» nella tomba.
Alla venuta di Cristo, ci «vestiremo con la dimora celeste» scambiando
il nostro corpo mortale con un corpo glorioso immortale.
Quest’interpretazione è in armonia con il messaggio biblico, eppu-
re anch’essa presenta un punto debole. I commentatori si concentrano
principalmente sul corpo, sia che si intenda il «corpo spirituale» dato
individualmente ai credenti alla morte o a tutti i credenti insieme alla
venuta di Cristo. Paolo, invece, non cerca di definire lo stato del corpo
prima della morte, dopo la morte o alla venuta di Cristo, ma di infor-
mare intorno a due modi diversi di esistere.
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vivono nel cielo, dopo la morte, come spiriti coscienti. Per esempio,
Robert Morey con convinzione afferma: «Le anime sono gli spiriti di-
sincarnati dei martiri che gridano a Dio per ottenere la vendetta sui
loro nemici… Questo passo ha da sempre creato grande difficoltà a
coloro che negano che i credenti ascendano al cielo dopo la morte. Nel
linguaggio di Giovanni, è chiaro che queste anime sono consapevoli e
attive nel cielo».296
Quest’interpretazione, però, ignora che i ritratti apocalittici non
sono stati intesi come fotografie di realtà concrete, ma rappresentazio-
ni simboliche di realtà spirituali quasi inimmaginabili. A Giovanni non
è stata data una visione di come in effetti realmente sia il cielo. È evi-
dente che non possano esservi nel cielo cavalli bianchi, rossi, neri o pal-
lidi con cavalieri marziali. Non è pensabile che Cristo possa apparire in
cielo nella forma di un agnello con una ferita sanguinante (Ap 5:6).
Allo stesso modo, nel cielo non esistono «anime» di martiri pigiate
alla base dell’altare. L’intera scena è semplicemente una rappresenta-
zione simbolica volta a rassicurare coloro che affrontano il martirio e
la morte perché alla fine sarà fatta loro giustizia. Una tale rassicura-
zione è particolarmente incoraggiante per coloro che, come Giovanni,
dovevano affrontare terribili persecuzioni visto che si rifiutavano di
partecipare al culto imperiale.
L’uso della parola «anima» (psychas), in questo passo, è unica per
il Nuovo Testamento e non viene mai usata in riferimento agli esseri
umani nello stato intermedio. La ragione di questo uso è suggerita
dalla morte innaturale dei martiri il cui sangue è stato versato per la
causa di Cristo. Nel sistema espiatorio dell’Antico Testamento, il san-
gue dei sacrifici veniva versato alla base dell’altare degli olocausti (Lev
4:7,18,25,30). Il sangue conteneva l’anima (17:11) della vittima inno-
cente che veniva offerta da parte dei peccatori penitenti come sacrifi-
cio espiatorio a Dio.
Il linguaggio della morte espiatoria è usato altrove nel Nuovo
Testamento per designare il martirio. Nel suo testamento spirituale e
sentendo prossima la morte, Paolo scrive: «Quanto a me, io sto per esse-
re offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto» (2 Tm 4:6).
Ai filippesi scrive: «Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio
e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi»
(Fil 2:17). Così i martiri cristiani sono considerati sacrifici offerti a Dio.
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Conclusione
Il presente studio sullo stato dei morti durante il periodo intermedio fra
la morte e la risurrezione ha mostrato come sia l’Antico sia il Nuovo
Testamento unanimemente insegnino che la morte rappresenta la ces-
sazione dell’intera persona. Lo stato dei morti è, quindi, uno stato di
inconsapevolezza, di inattività e di sonno che continuerà fino al giorno
della risurrezione. L’analisi dell’uso della parola sheol nell’Antico
Testamento e ades nel Nuovo hanno mostrato che entrambi i termini
indicano la tomba o il regno dei morti e non il luogo di punizione per
gli empi. Non c’è nessuna beatitudine o punizione subito dopo la
morte, ma un riposo nella completa incoscienza fino al giorno della
risurrezione.
La nozione di ades come luogo di tormento per gli empi deriva
dalla mitologia greca non dalla Scrittura. Nella mitologia l’ades era il
mondo sotterraneo dove le anime coscienti dei morti venivano riparti-
te in due luoghi principali: i dannati nel luogo di tormento e i buoni in
quello della beatitudine. Questa concezione greca ha influenzato alcu-
ni intellettuali ebrei durante il periodo intertestamentario i quali adot-
tarono l’idea che subito dopo la morte le anime dei giusti sarebbero
ascese alla felicità celeste, mentre le anime dei reprobi sarebbero
scese nel luogo di tormento, cioè l’ades. Questo scenario popolare è
rintracciabile nella parabola del ricco e Lazzaro.
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Capitolo 13
300 Nel Nuovo Testamento non c’è una precisa descrizione dell’aldilà. Il cattolico Hans
BIETENHARD ammette che nel tardo giudaismo o nel cristianesimo medievale vi sia stata
la tendenza a voler dire una parola complementare. «Forse è stato proprio il silenzio
del Nuovo Testamento sui particolari dell’aldilà e sulla situazione intermedia fino alla
parusia che ha provocato la curiosità pseudodevozionale e ha fatto sì che non ci si
accontentasse di porre la propria speranza in Cristo, ma ha condotto a pensare di
dover completare le affermazioni della Scrittura con fantasie umane: il che, in defini-
tiva, sta a dimostrare una mancanza di fede. A questo movimento ha contribuito anche
il fatto che al posto della fede neotestamentaria nella risurrezione dei morti (1 Cor 15)
sia subentrata in un certo senso la dottrina greca dell’immortalità dell’anima, che
rimane tuttora l’opinione prevalente anche fra i cristiani, senza che si rendano conto
veramente della profonda originalità della speranza cristiana». Dizionario dei concetti
biblici del Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna, 1976, p. 855 (ndr).
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V PARTE
L’INFERNO:
TORMENTO ETERNO
O
IL NULLA?
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Introduzione V parte
Esiste l’inferno?
301 B. RUSSELL, Perché non sono cristiano, Longanesi, Milano, 1960, pp. 23-25.
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Introduzione V parte
302 J.F WALVOORD, «The Literal View», in Four Views on Hell, W. Crockett ed., Grand
Rapids, 1992, p. 12.
303 C.H. PINNOCK, «Response to John F. Walvoord» in Four Views on Hell, W. Crockett
ed., Grand Rapids, 1992, p. 39.
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Capitolo 14
Le pene eterne
nell’Antico Testamento
304 Per una breve ma interessante presentazione della visione metaforica dell’inferno,
si consiglia W.V. CROCKETT, «The Metaphorical View», in Four Views of Hell, ed.William
Crockett, Grand Rapids, 1992, pp. 43-81. Il principio del contrappasso è la rigorosa cor-
rispondenza della pena alla colpa: contra-passum (passum da pati cioè «soffrire»).
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Capitolo 14
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a. Lo sheol
John F. Walvoord dice: «Lo sheol era un luogo di punizione e di retri-
buzione. In Isaia 14:9,10 i babilonesi uccisi nel giudizio divino sono raf-
308 R.A. PETERSEN, Hell on Trial! The Case for Eternal Punishment, Phillipsburg, New
Jersey, 1995, pp. 200-201.
309 Cfr. J.F. WALVOORD, Op. cit., pp. II-31; R.A. MOREY, Death and the Afterlife, Minneapolis,
1984, pp. 100-172; E.B. PUSEY, What Is the Faith as to Eternal Punishment?, Oxford, 1880.
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Capitolo 14
figurati come salutati nello sheol da quelli che sono morti prima».310
Sullo sheol, il nostro studio della parola, nel capitolo 13, mostra che
nessuno dei testi incoraggi l’uso dello sheol come luogo di punizione
per gli empi. Il termine descrive il regno dei morti dove esiste inco-
scienza, inattività e sonno. Anche il canto di rimprovero di Isaia contro
l’arrogante re di Babilonia è una parabola dove i caratteri, gli alberi
personificati e i sovrani decaduti sono fittizi. Servono non già per rive-
lare la punizione degli empi nello sheol, ma a predire, con un linguag-
gio grafico e pittoresco, il giudizio di Dio sull’oppressore d’Israele e il
suo infamante destino finale in una tomba polverosa dove è corroso dai
vermi. Interpretare questa parabola come una descrizione letterale
dell’inferno, significa ignorare la natura altamente figurata, metaforica
del brano, la cui intenzione invece è di descrivere la condanna del
tiranno che ha esaltato se stesso.
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alzò al mattino, ecco, erano tutti cadaveri» (Is 37:36). Quest’evento sto-
rico potrebbe esser servito a prefigurare la sorte degli empi. Va notato
che i giusti guardano ai «corpi morti» (ebraico: pegerim), non a perso-
ne viventi. Quello che vedono è distruzione e non tormento eterno.
I «vermi» sono menzionati in collegamento con i corpi morti, per-
ché accelerano la decomposizione e rappresentano l’ignominia dei
cadaveri privi di sepoltura (Ger 25:33; Is 14:11; Gb 7:5; 17:14; At 12:23).
La figura del fuoco che non si estingue è spesso usata nella Scrittura
per significare un fuoco che consuma (Ez 20:47,48) e riduce a niente
(Am 5:5,6; Mt 3:12). Edward W. Fudge giustamente spiega: «Entrambi,
i vermi e il fuoco, parlano di una distruzione totale e finale. Ambedue
i termini rendono questa, una scena “disgustosa”».312
Per capire il significato della frase «il fuoco non si estinguerà» è
importante ricordare che mantenere un fuoco vivo per bruciare cada-
veri, richiedeva in Palestina uno sforzo considerevole. I cadaveri non
bruciano facilmente e la legna da fuoco che serviva per consumarli era
scarsa. Nei miei viaggi nel Medio Oriente e in Africa, ho visto spesso
delle carcasse parzialmente bruciate perché il fuoco si era spento
prima di aver consumato i resti di una bestia.
L’immagine di un fuoco inestinguibile è presentato semplicemen-
te per esprimere il pensiero di una consumazione completa. Non ha
niente a che vedere con la punizione eterna delle anime immortali. Il
passo parla chiaramente di «corpi morti» consumati e non di anime
immortali eternamente tormentate. È spiacevole che i tradizionalisti
interpretino questo testo, e affermazioni simili di Gesù, alla luce del
proprio concetto di punizione finale, piuttosto che sulla base di quello
che possa realmente significare.
c. «Eterna infamia»
Il secondo testo importante dell’Antico Testamento utilizzato dai tradi-
zionalisti per sostenere la punizione eterna è Daniele 12:2: «Molti di
quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni
per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia».
Peterson conclude la sua analisi del testo dicendo: «Daniele insegna
che mentre i devoti saranno risuscitati a una vita senza fine, gli empi
saranno risuscitati a una disgrazia senza fine (Dn 12:2)».313
312 E.W. FUDGE, The Fire That Consumes. A Biblical and Historical Study of the final
Punishment, Houston, 1982, p. 112.
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Capitolo 14
Conclusione
Forse la descrizione più chiara della distruzione totale degli empi si
trova nell’ultima pagina dell’Antico Testamento nella Bibbia (italiana,
non ebraica): «Poiché, ecco, il giorno viene, ardente come una fornace;
allora tutti i superbi e tutti i malfattori saranno come stoppia. Il giorno
che viene li incendierà, dice il SIGNORE degli eserciti, e non lascerà loro
né radice né ramo» (Mal 4:1).
Qui, l’immagine del fuoco che consuma tutto, che non lascia «né
radice né ramo», suggerisce assoluta consumazione e distruzione, non
un tormento perpetuo. La stessa verità è espressa dall’ultimo profeta
dell’Antico Testamento, Giovanni il battista, che gridava nel deserto
chiamando la gente a ravvedimento in vista dell’approssimarsi del
fuoco del giudizio di Dio (Mt 3:7,12).
314 A. LACOCQUE, Daniel et son temps, Labor et Fides, Genève, 1983, p. 214.
315 E. PETAVEL, The Problem of Immortality, London, 1892, p. 323.
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Capitolo 15
Tormento eterno
Il secondo libro di Esdra si chiede se l’anima dei perduti sarà torturata
subito alla morte o dopo il rinnovamento della creazione (2 Esd 7:15).
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Capitolo 15
Annientamento totale
In altri libri extra-canonici, comunque, i peccatori sono consumati
come nell’Antico Testamento. Tobia (circa 200 a.C), per esempio,
descrive il tempo della fine, dicendo: «Tutti gli Israeliti che saranno
scampati in quei giorni e si ricorderanno di Dio con sincerità, si radu-
neranno e verranno a Gerusalemme e per sempre abiteranno tran-
quilli il paese di Abramo… coloro che commettono il peccato e l’ingiu-
stizia spariranno da tutta la terra» (Tobia 14:7,8). La stessa opinione è
316 Le citazioni dagli apocrifi sono tratte da R.H. CHARLES, The Apocrypha and
Pseudepigrapha of the Old Testament in English, Oxford, 1913, vol. 1.
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Capitolo 15
zioni sono che persino fra gli esseni vi fossero coloro che non le condi-
videvano. Per esempio, i rotoli del mar Morto, comunemente associati
alla comunità essena, parlano chiaramente dell’annichilimento totale
dei peccatori. Il Documento di Damasco, un’importante rotolo del mar
Morto, descrive la fine dei peccatori paragonando la loro sorte a quel-
la degli antidiluviani che perirono nel diluvio e a quella degli israeliti
increduli che morirono nel deserto. La punizione di Dio sui peccatori
non lascia «nessun restante rimasuglio di loro o nessun sopravvissuto»
(Documento di Damasco 2,6,7). Saranno «come se non fossero mai esi-
stiti» (Documento di Damasco 2,20). La stessa opinione è espressa da
un altro rotolo, il Manuale di disciplina che parla dello «sterminio»
degli uomini di Belial (Satana) attraverso il «fuoco eterno» (Manuale di
disciplina 2:4-8).320
È notevole che il Manuale di Disciplina descriva la punizione di
quanti seguono lo spirito di perversione invece dello spirito di verità, in
un modo apparentemente contradittorio, cioè, come una punizione
senza fine che si conclude con la distruzione totale. Il testo afferma:
«Per quanto riguarda la visitazione di tutti coloro che camminano in
questo (spirito di perversione), essa consiste di un’abbondanza di colpi
somministrati da tutti gli angeli della distruzione nella fossa eterna dal-
l’ira furiosa della vendetta di Dio, di terrore e vergogna senza fine e
della disgrazia di distruzione di fuoco della regione delle tenebre. E
tutto il loro tempo di età in età è di triste malumore e la sfortuna più
amara è una calamità tenebrosa finchè saranno distrutti senza che nes-
suno scampi o sopravviva» (Manuale di disciplina 4:11,14).321
Il fatto che il «terrore e la vergogna senza fine» non siano eterni ma
durino solo finchè «saranno distrutti», mostra che ai tempi del Nuovo
Testamento, le persone utilizzavano termini come «interminabile»,
«senza fine» o «eterno» con un significato diverso da quello che si dà
oggi. Per noi, la punizione «interminabile» significa «senza fine», e non
fino a quando gli empi vengano distrutti. Il riconoscimento di questo
fatto è essenziale per interpretare più tardi le parole di Gesù circa il
fuoco eterno e risolvere l’apparente contraddizione che si trova nel
Nuovo Testamento fra la «punizione eterna» (Mt 25:46) e la «distruzio-
ne eterna» (2 Ts 1:9). Per quanto riguarda la punizione degli empi,
«interminabile» significa semplicemente «finchè siano distrutti».
320 L. MORALDI, I manoscritti di Qumram, UTET, Torino, 1971, 1QS 2,4-8, p. 137.
321 Ibidem, Manuale di disciplina 4,11-14, p. 144.
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Conclusione
Questi esempi, tratti dalle testimonianze dalla letteratura intertesta-
mentaria, indicano che in quel periodo non c’era nessuna «opinione
giudaica» uniforme sulla sorte degli empi. Nonostante la maggior parte
dei documenti riflettano l’opinione dell’Antico Testamento della distru-
zione totale dei peccatori, alcuni parlano chiaramente del tormento
interminabile degli empi. Questo significa che non si possano leggere
le parole di Gesù o degli scrittori del Nuovo Testamento pensando che
riflettano una credenza uniforme all’eterno tormento mantenuto dai
giudei di quel tempo.
Gli insegnamenti del Nuovo Testamento devono essere esaminati
sulla base della loro testimonianza interna.
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Capitolo 16
1. La testimonianza di Gesù
Gesù ha insegnato il tormento eterno?
I tradizionalisti credono che Gesù fornisca loro il sostegno maggiore
per la loro fede nell’eterna punizione degli empi. Kenneth Kantzer, uno
dei leader evangelici più rispettati del nostro tempo, dice: «Coloro che
riconoscono Gesù Cristo come Signore, non possono prescindere dal
linguaggio chiaro ed inequivocabile con il quale parla della terribile
verità della punizione eterna».322
Il teologo australiano Leon Morris concorda con Kantzer e afferma
con convinzione: «Perché si dovrebbe credere all’inferno in questi gior-
ni di così gran sapere? Semplicemente perché Gesù lo ha insegnato.
Gesù ha parlato più frequentemente dell’inferno che del cielo. Non
possiamo fare a meno di questo fatto.
Possiamo capire che ci siano quelli a cui non piace l’idea dell’in-
ferno, neanche a me piace. Ma se siamo seri nella nostra comprensio-
ne di Gesù come il Figlio di Dio incarnato, dobbiamo mettere in conto
che egli stesso ha dichiarato che alcune persone trascorreranno l’eter-
nità all’inferno».323
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Capitolo 16
324 «Hell» in Protestant Dictionary, C. SYDNEY and G.E. ALISON Weeks ed., London,
1933, p. 287.
325 F. JOSEPHUS, La guerra giudaica , vol. II, 6,8,5; 5,12,7.
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Capitolo 16
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Distruzione eterna
Il termine «eterno» il più delle volte si riferisce alla conseguenza dell’a-
zione del fuoco e non a un processo continuo. Per esempio, Giuda 7 dice
che Sodoma e Gomorra hanno subìto «la pena di un fuoco eterno (aio-
nios)». È evidente che il fuoco che ha distrutto le due città è eterno, non
a motivo della sua durata ma a motivo dei suoi risultati permanenti.
Esempi simili a questi si possono trovare nella letteratura interte-
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Capitolo 16
«Punizione eterna»
La solenne dichiarazione di Cristo: «Questi se ne andranno a punizio-
ne eterna ma i giusti a vita eterna» (Mt 25:46) è generalmente conside-
rata come la prova più lampante della sofferenza consapevole che i
330 R.V.G. TASKER, The Gospel According St. Matthew. An Introduction and
Commentary, Grand Rapids, 1963, p. 240.
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Capitolo 16
Il significato di «eterno»
Alcuni ritengono che «se la parola “eterna” significhi senza fine, quan-
do è applicata alla beatitudine futura dei credenti, bisogna concludere
almeno, che non esiste l’evidenza chiara del contrario, e cioè che que-
sta parola non significhi pure senza fine quando è usata per descrive-
re la punizione futura dei perduti».333
Harry Buis sostiene questa idea con molto vigore: «Se aionios
descrive la vita che è senza fine, così aionios deve descrivere la puni-
zione eterna. Qui la dottrina del cielo e la dottrina dell’inferno si reg-
gono o cadono insieme».334
Questo ragionamento non tiene conto che quello che determina il
significato di «eterno» è l’oggetto qualificato. Se l’oggetto è la vita dona-
ta da Dio ai credenti (Gv 3:16), allora la parola «eterna» ovviamente
significa «senza fine, eterna», perché la Scrittura dice che la «natura
mortale» dei credenti sarà resa «immortale» da Cristo alla sua venuta
(1 Cor 15:53).
D’altra parte, se l’oggetto qualificato è la «punizione» o la «distru-
zione» dei perduti, allora «eterna» può solo significare «permanente,
totale, finale», perché da nessuna parte la Scrittura insegna che gli
empi risusciteranno immortali per poter soffrire per sempre. La puni-
zione eterna richiede anche il possesso naturale d’una natura immor-
tale o il dono divino d’una natura immortale nel momento in cui la
punizione viene inflitta. La Scrittura non insegna da nessuna parte che
o l’una o l’altra di queste condizioni esistano.
La punizione degli empi è eterna in qualità e in quantità. In quali-
tà, perché appartiene all’età futura, in quantità, perché i suoi risultati
non finiranno mai. Come il «giudizio» (Eb 6:2), la «redenzione» (Eb
9:12) e la «salvezza» (Eb 5:9) sono tutti eterni in quanto sono il risulta-
to di azioni compiute, così la «punizione» sarà eterna nei suoi risultati:
la distruzione completa e irrevocabile degli empi.
È importante notare che la parola greca aionios, tradotta «eterna»
o «incessante» significa letteralmente «durare per un’epoca». Antichi
papiri greci contengono numerosi esempi di imperatori romani defini-
ti come aionios. Ciò che stanno ad indicare è che hanno mantenuto la
loro carica per tutta la vita. Sfortunatamente, le parole italiane «eterno»
o «incessante» non interpretano accuratamente il significato di aionios.
333 A.A. HOEKEMA, The Bible and the Future, Grand Rapids, 1979, p. 270.
334 H. BUIS, The Doctrine of Eternal Punishment, Philadelphia, 1957, p. 49.
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Il significato di «punizione»
Bisogna anche prendere nota della parola «punizione» usata per tra-
durre la parola greca kolasis. Uno sguardo al Vocabulary of the Greek
Testament di Moulton e Milligan mostra che la parola era usata in quel
tempo con il significato di «potare» o «tagliare» del legno morto. Se que-
sto è il suo significato, esso riflette la frase frequentemente usata
nell’Antico Testamento: «sarà tagliato fuori dal suo popolo» (cfr. Gn
17:14; Es 30:33,38; Lev 7:20,21,25,27; Nm 9:13). Questo significherebbe
che la «punizione eterna» degli empi consista nel fatto che sono taglia-
ti fuori permanentemente dall’umanità.
Come osservazione finale, è importante ricordare che l’unico
modo per cui una punizione eterna degli empi possa essere inflitta,
richiederebbe da parte di Dio che li risuscitasse con vita immortale al
fine di essere indistruttibili. Ma, secondo la Scrittura, solo Dio possiede
l’immortalità in se stesso (1 Tm 1:17; 6:16). Egli offre l’immortalità
come dono (2 Tm 1:10). Nel testo più conosciuto della Bibbia, viene
detto che coloro che non «credono in Lui» «periranno (apoletai)», inve-
ce di ricevere la «vita eterna» (Gv 3:16). La sorte finale degli empi è la
distruzione non la punizione per mezzo del tormento eterno. La nozio-
ne dell’eterno tormento degli empi può solo essere difesa accettando
l’opinione greca dell’immortalità e dell’indistruttibilità dell’anima, un
concetto questo, estraneo alla Scrittura.
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Capitolo 16
2. La testimonianza di Paolo
La parola «inferno» (geenna) non appare negli scritti di Paolo. In qual-
che caso troviamo un accenno al giudizio di Dio nei confronti degli
empi al momento della venuta di Cristo. I tradizionalisti citano alcuni
di questi testi per sostenere la loro posizione in merito alla punizione
eterna dei perduti.
Abbiamo già esaminato il testo di 2 Tessalonicesi 1:9, dove Paolo
dice che coloro che non conoscono Dio o non ubbidiscono al vangelo
di Gesù saranno «puniti di eterna rovina» e che gli empi soffriranno alla
venuta di Cristo. Ancora una volta si è notato che la distruzione degli
empi è eterna (aionios), non perché il processo della distruzione duri
per sempre, ma perché i risultati sono permanenti.
Il «giorno dell’ira»
Un altro passo significativo di Paolo spesso citato per sostenere il con-
cetto del fuoco dell’inferno letterale e perenne, è quello relativo al
«giorno dell’ira» quando sarà rivelato il giusto giudizio di Dio. Poiché
egli renderà a ciascuno secondo le sue opere, a coloro che non ubbidi-
scono alla verità ma ubbidiscono all’ingiustizia, spetta indignazione e
ira. «Tu, invece, con la tua ostinazione e con l’impenitenza del tuo
cuore, ti accumuli un tesoro d’ira per il giorno dell’ira e della rivela-
zione del giusto giudizio di Dio» (Rm 2:5). «Ira e indignazione a quelli
che, per spirito di contesa, invece di ubbidire alla verità ubbidiscono
all’ingiustizia» (Rm 2:9). «L’indignazione, l’ira, la tribolazione e l’ango-
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scia» sono visti dai tradizionalisti come descrittivi del tormento consa-
pevole dell’inferno.336
Il quadro che Paolo tratteggia per il «giorno dell’ira», quando cioè
gli empi sperimenteranno indignazione, ira, tribolazione e angoscia,
molto probabilmente è tratto dal profeta Sofonia, il quale presenta il
giorno escatologico del Signore in questo modo: «Quel giorno è un
giorno d’ira, un giorno di sventura e d’angoscia, un giorno di rovina e
di desolazione, un giorno di tenebre e caligine, un giorno di nuvole e
di fitta oscurità» (Sof 1:15). Poi il profeta aggiunge: «Tutto il paese sarà
divorato dal fuoco della sua gelosia; poiché egli farà una distruzione
improvvisa e totale di tutti gli abitanti del paese» (Sof 1:18).
Si ha ragione di credere che Paolo esprima la stessa verità: il gior-
no del Signore porterà una fine improvvisa ai malfattori. Paolo non
accenna mai al tormento incessante dei perduti. Perché?
Semplicemente perché, per lui, l’immortalità è dono di Dio ai salvati
alla venuta di Cristo (1 Cor 15:53-54) e non un elemento naturale di
ogni persona.
Quando Paolo presenta la visione del giorno del Signore, attinge a
piene mani dal vocabolario profetico dell’Antico Testamento, che però
illumina con la fulgida luce del Vangelo. Non accenna ai terribili det-
tagli del tormento eterno.
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Capitolo 17
Il destino dell’uomo
nell’Apocalisse
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Capitolo 17
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Ger 25:15-38; Sal 60:3; 75:8). Dio versa il calice «puro», cioè non dilui-
to, per garantirne gli effetti mortali. I profeti hanno usato un linguag-
gio simile: «Risvegliati, risvegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevu-
to il calice, la coppa di stordimento, e l’hai succhiata sino in fondo!» (Is
51:17; cfr. Ger 25:18,27,33). Lo stesso calice dell’ira di Dio è offerto a
Babilonia, la città che corrompe il popolo. «Nel calice in cui ha versato
ad altri, versatele il doppio» e il risultato è «morte, lutto e fame» e
distruzione (Ap 18:6,8). La fine di Babilonia, distrutta dal fuoco, simbo-
leggia anche la fine degli empi che bevono il calice puro di Dio.
b. Fuoco e zolfo
La sorte degli empi è descritta attraverso le immagini del giudizio più
terribile che si sia abbattuto su questa terra, la distruzione mediante
fuoco e zolfo di Sodoma e Gomorra. «Sarà tormentato con fuoco e zolfo
davanti ai santi angeli e davanti all’Agnello» (Ap 14:10). Le immagini
del fuoco e dello zolfo che hanno distrutto queste due città sono fre-
quentemente usate nella Bibbia per indicare l’annientamento totale
(cfr. Gb 18:15,17; Is 30:33; Ez 38:22).
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Capitolo 17
340 H.E. GUILLEBAUD, The Righteous Judge: A Study of the Biblical Doctrine of everlast-
ing Punishment, Taunton, England, s.d., p. 24.
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a. Lo stagno di fuoco
Per determinare il significato dello «stagno di fuoco», bisogna esami-
nare le quattro volte in cui è presente nell’Apocalisse, unico libro nella
Bibbia dove si trova questa espressione. Il primo riferimento si trova in
Apocalisse 19:20, dove viene detto che la bestia e il falso profeta «furo-
no gettati vivi nello stagno ardente di fuoco e di zolfo». Il secondo rife-
rimento si trova in Apocalisse 20:10, dove Giovanni descrive la conse-
guenza dell’ultimo grande assalto di Satana contro Dio: «E il diavolo
che le aveva sedotte fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove
sono anche la bestia e il falso profeta; e saranno tormentati giorno e
notte, nei secoli dei secoli». Quando Dio getta il diavolo nello stagno di
fuoco, viene così ad aumentare i suoi abitanti da due a tre.
Il terzo e il quarto riferimento si trovano in Apocalisse 20:15 e 21:8,
dove tutti gli empi sono anch’essi gettati nello stagno di fuoco. È evi-
dente che si assiste a un crescendo: tutte le potenze malefiche insieme
agli esseri umani ribelli, sperimenteranno la punizione finale nello sta-
gno di fuoco.
La domanda fondamentale rimane questa: lo stagno di fuoco, rap-
presenta un’inferno che brucia sempre e dove gli empi dovrebbero
essere tormentati per tutta l’eternità, oppure simboleggia la distruzio-
ne permanente del peccato e dei peccatori? Quattro maggiori conside-
razioni portano a credere che lo stagno di fuoco rappresenti l’annichi-
limento finale e completo del male e dei malfattori.
- La bestia e il falso profeta, che sono gettati vivi nello stagno di
fuoco, sono due personaggi simbolici, non persone fisiche ma autori-
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Capitolo 17
342 G.E. LADD, A Commentary on the Revelation of John, Grand Rapids, 1979, p. 270.
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«Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco» (Ap 20:14; cfr. 21:8).
Alcuni tradizionalisti interpretano «la morte seconda», non come
la morte definitiva, ma come la separazione definitiva dei peccatori da
Dio. Per esempio, Robert A. Peterson afferma: «Quando Giovanni dice
che “la morte e l’ades furono gettati nello stagno di fuoco” (Ap 20:14),
indica che lo stato intermedio lascia il posto allo stato finale. Dice que-
sto, rivelando che lo “stagno di fuoco è la morte seconda” (Ap 20:14).
Siccome la morte significa separazione dell’anima dal corpo, così la
morte seconda indica la separazione definitiva degli empi dall’amore
del loro Creatore. Di conseguenza, Dio riunisce le anime dei morti
non salvati ai loro corpi, per preparare i perduti a subire la punizione
eterna. Se la vita eterna significa conoscere per sempre il Padre e il
Figlio (Gv 17:3), la sua antitesi, la morte seconda, significa esser pri-
vati della comunione con Dio per tutta l’eternità».343
È difficile capire come Peterson possa interpretare «la morte
seconda» come separazione cosciente ed eterna da Dio quando, come
abbiamo visto in precedenza, la Bibbia indica molto chiaramente che
non c’è nessuna consapevolezza nella morte. La «morte seconda» è
l’antitesi della «vita eterna», ma l’antitesi della vita eterna è la «morte
eterna» e non l’eterna separazione consapevole da Dio. Inoltre, la
nozione delle anime dei perduti, che sono riunite con i loro corpi dopo
lo stato intermedio, per prepararli alla punizione eterna, può solo
essere sostenuta sulla base di una comprensione dualistica della natu-
ra umana. Secondo la prospettiva biblica, la morte costituisce la ces-
sazione della vita e non la separazione del corpo dall’anima. Il senso
della frase «morte seconda», dev’essere determinato sulla base della
testimonianza interna del libro dell’Apocalisse e della letteratura
ebraica contemporanea, piuttosto che sulla base del dualismo greco,
estraneo alla Bibbia.
Attraverso tutto il libro dell’Apocalisse, Giovanni spiega il signifi-
cato di un primo termine mediante l’uso di un secondo. Per esempio,
spiega che le coppe di incenso sono le preghiere dei santi (Ap 5:8). «Il
lino fino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19:8). La vita futura dei
santi e il loro regno con Cristo per mille anni «è la prima risurrezio-
ne» (Ap 20:5). Allo stesso modo spiega esplicitamente che «lo stagno di
fuoco è la morte seconda» (Ap 20:14; cfr. 21:8).
Alcuni tradizionalisti definiscono la morte seconda come lo stagno
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Capitolo 17
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Capitolo 17
Conclusione
Volendo concludere quest’indagine sull’opinione tradizionale dell’in-
ferno come luogo di punizione eterna e letterale degli empi, si posso-
no fare tre considerazioni:
- Il concetto di inferno è fortemente dipendente dalla visione dua-
listica della natura umana che ammette la sopravvivenza eterna dell’a-
nima sia nella beatitudine celeste sia nel tormento. È già stato posto in
evidenza come questo dogma sia estraneo all’uomo biblico che è indi-
visibile e completo, dove la morte indica la cessazione di vita per la
persona nel suo insieme.
- L’inferno secondo la tradizione si basa su un’interpretazione let-
terale delle immagini simboliche come la geenna, lo stagno di fuoco e
la morte seconda. Tali immagini non possono essere interpretate lette-
ralmente perché, lo ripetiamo, sono descrizioni metaforiche della di-
struzione totale del male e degli empi. Incidentalmente, gli stagni sono
pieni d’acqua e non di fuoco.
- Il pensiero che il Dio della Bibbia, che è misericordia e giustizia,
possa infliggere un castigo eterno per i peccati commessi nello spazio
di una vita che per quanto lunga è comunque brevissima rispetto all’e-
ternità, è un pensiero che non offre una spiegazione ragionevole. La
dottrina del tormento eterno in uno stato di coscienza è decisamente
incompatibile con la rivelazione biblica dell’amore e della giustizia
divini. Questo punto, tuttavia, costituirà oggetto d’analisi quando ver-
ranno considerate le implicazioni morali del tormento eterno.
In conclusione, possiamo dire che forse era più facile accettare l’i-
dea dell’inferno durante il medioevo, quando la maggior parte della
350 H. ALFORD, Apocalypse of John in The Greek Testament, Chicago, 1958, vol. 4, pp.
735,736.
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Capitolo 18
Le metafore dell’inferno
Le metafore
Nella sua singolare metafora dell’inferno, William Crockett sostiene
351 B. GRAHAM, «There is a Real Hell», in Decision n. 25, July-August 1984, p. 2. Altrove
Graham si chiede: «Può essere che il fuoco di cui parla Gesù indichi una ricerca eter-
na di Dio che non si estingue mai? In caso contrario non può trattarsi che dell’infer-
no. Essere separati per sempre da Dio, allontanati dalla sua presenza». (in The
Challenge: Sermons from Madison Square Garden, Garden City, New York, 1969, p. 75).
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Capitolo 18
che i credenti non dovrebbero avere difficoltà a credere che «una parte
della creazione trovi riposo nel cielo, mentre l’altra parte patisca nel-
l’inferno».352 La sua soluzione consiste nel riconoscere che «il fuoco e
lo zolfo dell’inferno non siano descrizioni letterali, ma espressioni
metaforiche che comunicano agli empi l’imminente condanna».353
Crockett cita Calvino, Lutero e una moltitudine di studiosi contempo-
ranei, i quali «interpretano metaforicamente il fuoco dell’inferno o
almeno ammettono la possibilità che l’inferno possa essere qualcos’al-
tro rispetto al fuoco letterale».354
Crockett sostiene che «la ragione più forte per interpretarle (le
immagini dell’inferno) come metafore, sia data dal linguaggio con-
traddittorio usato nel Nuovo Testamento per descrivere l’inferno.
Come può l’inferno essere un fuoco letterale quando è anche descritto
come tenebre? (cfr. Mt 8:12; 22:13; 25:30; 2 Pt 2:17; Gd 13)».355
Continua, ponendo questa domanda: «Gli scrittori del Nuovo Testa-
mento si aspettavano che interpretassimo letteralmente le loro parole?
Certamente, Giuda no! Egli descrive l’inferno come «fuoco eterno» nel
versetto 7, e più avanti lo descrive come «l’oscurità delle tenebre in
eterno» nel versetto 13. Fuoco e tenebre, naturalmente, non sono le
uniche immagini che siano date dell’inferno nel Nuovo Testamento. È
detto degli empi che piangono e digrignano i denti (Matteo 8:12; 13:42;
22:13; 24:51; 25:30; Lc 13:28), il loro verme non muore mai (Mc 9:48),
e sono colpiti da molte battiture (Lc 12:47). Nessuno pensa che l’infer-
no implichi ricevere battiture o che sia un luogo dove i vermi dei morti
diventano eterni. Similmente, nessuno pensa che lo stridore dei denti
sia qualcos’altro dell’immagine della realtà orribile dell’inferno. Nel
passato, alcuni si preoccupavano per quanti fossero entrati nell’infer-
no senza denti. Come avrebbero potuto digrignare i loro denti?356 La
risposta che alcuni hanno dato è questa: “Delle dentiere saranno forni-
te nel mondo avvenire, affinché i condannati possano piangere e digri-
gnare i denti”».357
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Le metafore dell’inferno
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Capitolo 18
nitivamente che esso è un luogo più tollerabile per gli empi, dove pos-
sano trascorrere l’eternità, quanto nel capire la natura della punizione
finale che, come vedremo, consiste nella distruzione totale e non nel
tormento eterno.
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Le metafore dell’inferno
359 J. ELLUL, Apocalypse, The Book of Revelation, New York, 1977, p. 212.
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Capitolo 18
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Le metafore dell’inferno
Conclusione
L’interpretazione metaforica e quella universale dell’inferno rappre-
sentano due tentativi tesi a «togliere l’inferno dall’inferno».
Sfortunatamente, non rendono giustizia ai dati biblici e così, alla fine,
travisano la dottrina biblica della punizione finale dei non salvati.
La saggia soluzione ai problemi dell’opinione tradizionale si deve
trovare, non abbassando o eliminando il quoziente di dolore da un
inferno letterale ma, accettando l’inferno per ciò che è, la punizione fi-
nale e l’annichilimento totale degli empi. Come dice la Bibbia: «Ancora
un po’ e l’empio scomparirà» (Sal 37:10) perché «la fine dei quali è la
distruzione» (Fil 3:19).
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Capitolo 19
Distruzione o punizione?
Introduzione
La distruzione eterna degli empi è stata associata principalmente alle
posizioni di alcune chiese come gli avventisti, i testimoni di Geova e
alcuni gruppi minori (per esempio la chiesa di Dio, la chiesa universa-
le di Dio, la chiesa unita di Dio, la chiesa globale di Dio e la chiesa
internazionale di Dio).
Questo fatto ha indotto molti evangelici e cattolici a rigettare a
priori la dottrina dell’annichilimento semplicemente perché si tratta di
una posizione «settaria» e non di una dottrina che fa parte del patrimo-
nio protestante o cattolico. Questa dottrina è considerata «un’assurdi-
tà»360 e sarebbe il prodotto di un sentimentalismo laico.361
In gran parte, tutti noi siamo figli delle tradizioni. La fede che
abbiamo ricevuta ci è stata trasmessa dai sermoni, dai libri, dall’edu-
cazione ricevuta a casa, a scuola o in chiesa. Leggiamo la Bibbia alla
luce di ciò che abbiamo imparato da queste varie fonti. Quindi, è diffi-
cile quantificare quanto la tradizione abbia potuto modificare nel pro-
fondo la nostra interpretazione della Scrittura. Ma come cristiani, non
possiamo permetterci di essere schiavi di tradizioni umane, siano esse
«cattoliche», «evangeliche» o «denominazionali». Non si può mai dare
per scontato l’assoluta correttezza delle nostre dottrine semplicemente
perché sono state santificate dalla tradizione. È importante che si
difenda, quando è necessario, il diritto-dovere di provare i nostri inse-
gnamenti e, se necessario, cambiarli con l’aiuto della Scrittura.
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Capitolo 19
Strategie aprioristiche
La tattica di rigettare una dottrina a priori a motivo del fatto che essa
viene insegnata presso minoranze cristiane, è resa visibile attraverso
quelli che possono essere definiti atteggiamenti scorretti adottati con-
tro studiosi evangelici che ultimamente hanno abbandonato l’interpre-
tazione tradizionale dell’inferno, intesa come tormento eterno coscien-
te, e hanno adottato la posizione della distruzione eterna. Le tattiche,
come abbiamo già notato nell’introduzione, consistono nel diffamare
questi studiosi associandoli ora con i liberali ora con gli avventisti. Il
teologo canadese Clark Pinnock scrive: «Sembra che sia stato scoperto
un nuovo criterio per definire la verità, secondo il quale se gli avventi-
sti o i liberali difendono una determinata posizione, allora deve essere
sicuramente sbagliata. Chiaramente si può vedere che una verità può
essere stabilita in base a un’adesione, e non ha bisogno di essere pro-
vata dall’opinione pubblica attraverso un dibattito aperto e franco. Un
tale argomento, inutile in una discussione intelligente, potrebbe avere
un qualche effetto sulle persone meno preparate perché sedotte dalla
retorica».362
Malgrado queste tattiche di maltrattamento, l’opinione dell’anni-
chilimento infernale sta guadagnando terreno tra gli evangelici. La
pubblica approvazione di quest’opinione da parte di John R. W. Stott,
teologo e predicatore britannico, sta sicuramente incoraggiando que-
sta tendenza. «In un piacevole brano, pieno di ironia», scrive Pinnock,
«sta creando una linea di credito per adesione, offrendo le stesse tatti-
che usate contro di esse. È diventato impossibile pretendere che solo
gli eretici o quanti a essi vicini (come gli avventisti), mantengano que-
sta posizione, anche se, sono sicuro, qualcuno rigetterà l’ortodossia di
Stott precisamente su questo terreno».363
John Stott esprime ansietà sulle conseguenze dirompenti delle sue
nuove opinioni all’interno della comunità evangelica di cui è sicura-
mente un dirigente in prima linea. Egli scrive: «Sono esitante in meri-
to alle cose scritte, perché da una parte ho un grande rispetto per la tra-
dizione di vecchia data, particolarmente quando afferma come verità
un’interpretazione della Scrittura, e non l’accantono a cuor leggero.
Inoltre, l’unità della comunità mondiale evangelica ha sempre avuto
un gran significato per me. Ma la questione è troppo importante per
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Distruzione o punizione?
essere soppressa, e le sono grato (scrive a David Edwards) del suo invi-
to a rendere noto il mio attuale pensiero. Non credo che la posizione a
cui sono giunto sia assoluta, ma per il momento la tengo ferma; alzo la
mia voce affinché un dialogo schietto, basato sulla Scrittura, possa
avvenire tra noi evangelici».364
Ragioni emotive e bibliche hanno portato John Stott ad abbando-
nare l’opinione tradizionale dell’inferno e ad adottare l’opinione del-
l’annichilimento. Stott scrive: «Emotivamente, io trovo il concetto (del-
l’eterno tormento) intollerabile e non capisco come le persone possa-
no conviverci senza cautelare i loro sentimenti o soccombere sotto lo
sforzo. Ma le nostre emozioni sono una guida incostante, inattendibili
quanto alla verità e non devono essere esaltate al posto della suprema
autorità nel determinarla. Come evangelico impegnato, la mia doman-
da deve essere - ed è - non ciò che il mio cuore mi dice, ma, che cosa
afferma la parola di Dio? E per rispondere a questa domanda, abbiamo
bisogno di investigare nuovamente il materiale biblico e di aprire le
nostre menti (non solo i nostri cuori) alla possibilità che la Scrittura ci
indichi la direzione dell’annichilimento e che l’eterno tormento con-
sciente sia una tradizione che debba cedere il passo alla suprema auto-
rità della Scrittura».365
Rispondendo alla supplica di Stott di riconsiderare con rinnovato
impegno l’insegnamento biblico della punizione finale, merita che si
riesaminino brevemente la testimonianza dell’Antico e del Nuovo
Testamento considerando i seguenti punti:
1. La morte è una punizione del peccato?
2. Qual è il linguaggio della distruzione?
3. Quali sono le implicazioni morali del tormento eterno?
4. Quali sono le implicazioni giuridiche del tormento eterno?
5. Quali sono le implicazioni cosmologiche del tormento eterno?.
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366 J.D.G. DUNN, Paul’s Understanding of the Death of Jesus, in Reconciliation and
Hope: New Testament Essays on Atonement and Eschatology, Robert Banks ed.,
Grand Rapids, 1974, p. 136.
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367 Per uno studio sulla tipologia del giorno dell’espiazione e del suo adempimento,
cfr. S. BACCHIOCCHI, God’s Festivals. Part 2: The Fall Festivals, Berrien Springs, 1996,
pp. 127-205.
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Capitolo 19
368 L. MORRIS, The Cross in the New Testament, Grand Rapids, 1965, p. 47.
369 B.F.C. ATKINSON, Op.cit., p. 103.
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370 Per un’analisi di questo argomento, vedere E.W. FUDGE, Op.cit., pp. 232-233.
371 E. WHITE, Life of Christ: A Study of the Scripture Doctrine on the Nature of Man, the
Object of the Divine Incarnation, and the Condition of Human Immortality, London,
1878, p. 241.
372 B.F.C. ATKINSON, Op.cit., pp. 85-86.
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Capitolo 19
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Capitolo 19
non portano frutto, tagliati (Lc 13:7); i tralci secchi bruciati (Gv 15:6).
Anche per descrivere la condanna degli empi Gesù ha utilizzato
illustrazioni dalla vita umana: i vignaioli infedeli, distrutti (Lc 20:16); il
servo malvagio, tagliato (Mt 24:51); i galilei che perirono (Lc 13:2, 3);
le diciotto persone schiacciate dalla torre di Siloe (Lc 13:4, 5); gli anti-
diluviani distrutti dal diluvio (Lc 17:27); gli abitanti di Sodoma e
Gomorra distrutti dal fuoco (Lc 17:29); i servitori ribelli che furono
uccisi al ritorno del loro padrone (Lc 19:14,27).
Tutte queste figure sono lì a indicare la punizione capitale, sia per
gli individui sia per la collettività. Tutte significano una morte prece-
duta da sofferenze più o meno grandi. Le illustrazioni usate dal
Salvatore descrivono in maniera visiva la distruzione finale o la disso-
luzione degli empi. Gesù chiese: «Quando verrà il padrone della vigna,
che farà a quei vignaiuoli?» (Mt 21:40). E la gente rispose: «Li farà peri-
re (apollumi) malamente, quei malvagi» (Mt 21:41).
Gesù ha insegnato la distruzione finale degli empi non solo attra-
verso illustrazioni, ma anche attraverso dichiarazioni esplicite. Ha
detto: «E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono
uccidere l’anima; temete piuttosto colui (Dio) che può far perire l’ani-
ma e il corpo nella geenna» (Mt 10:28).
John Stott afferma giustamente: «Se uccidere significa privare il
corpo della vita, l’inferno sembrerebbe suggerire la privazione della
vita sia fisica sia spirituale, cioè, l’estinzione dell’essere».373
Nello studio di questo testo nel terzo capitolo, si è notato come
Cristo non consideri l’inferno come un luogo di eterno tormento, ma
come la distruzione permanente dell’intero essere, anima e corpo.
Gesù ha spesso contrastato la vita eterna con la morte o la distruzione.
«Io do loro la vita eterna, e non periranno mai» (Gv 10:28).
«Entrate per la porta stretta; poiché larga è la porta e spaziosa la
via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per
essa. Stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e
pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7:13,14). Qui abbiamo un sempli-
ce contrasto fra la vita e la morte. Non c’è nessun motivo scritturale per
torcere la parola «perire» o «distruzione» in modo da significare un tor-
mento interminabile.
Abbiamo già visto che Cristo utilizza sette volte l’immagine della
geenna per descrivere la distruzione degli empi nell’ades.
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nianza biblica, non posso che unirmi a Clark Pinnock quando afferma:
«Spero sinceramente che i tradizionalisti la smettano di dire che non
esiste nessun fondamento biblico per sostenere l’annichilimento quan-
do, in realtà, è tanto solido quanto convincente».375
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L’inferno e l’inquisizione
Viene seriamente da chiedersi se il dogma dell’inferno come luogo
dove Dio brucerà eternamente i peccatori con fuoco e zolfo non possa
aver ispirato l’Inquisizione a imprigionare, torturare ed eventualmen-
te bruciare al rogo i cosiddetti «eretici» che rifiutavano d’accettare gli
insegnamenti tradizionali della chiesa. I libri di storia della chiesa, in
genere, non stabiliscono un legame tra i due, evidentemente perché gli
inquisitori non giustificavano la loro azione sulla base della loro fede
nel fuoco infernale per gli empi.
Mi chiedo: che cosa ha spinto papi, vescovi, consigli delle chiese,
monaci domenicani e francescani, re e principi cristiani a torturare e a
estirpare i cristiani dissidenti come gli albigesi, i valdesi e gli ugonotti?
Che cosa ha spinto, per esempio, Calvino e il Consiglio della Città di
Ginevra a bruciare Serveto sul rogo visto che ha continuato a persiste-
re nelle sue credenze anti trinitarie? Una lettura della condanna di
Serveto, pubblicata il 26 ottobre 1553 dal Consiglio della Città di
Ginevra, mi fa pensare che quei fanatici calvinisti credevano, come gli
inquisitori cattolici, di avere il diritto di bruciare gli eretici allo stesso
modo in cui Dio li avrebbe poi bruciati nell’inferno. La sentenza dice:
«Noi ti condanniamo, Michele Serveto, a esser legato e condotto al
luogo di Champel, lì, poi, a esser legato al rogo ed esser bruciato vivo,
unitamente al tuo libro… finché il tuo corpo sia ridotto in cenere. In
questo modo finirai i tuoi giorni e servirai d’esempio ad altri che desi-
derassero commettere la stessa cosa».379
Il giorno seguente, dopo che Serveto ha confutato la condanna per
eresia, «il carnefice lo ha legato con catene di ferro al rogo in mezzo a
fascine, ha messo una corona di foglie coperte di zolfo sul suo capo e
377 C.H. PINNOCK, «The Destruction of the Finally Impenitent», Criswell Theological
Review 4, n. 2, 1990, p. 247.
378 J. HICK, Death and Eternal Life, New York, 1976, pp. 199,201.
379 Citato da P. SCHAFF, History of the Christian Church, Grand Rapids, 1958, vol. 8, p. 782.
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Gradazioni di punizione
L’estinzione non esclude la possibilità di livelli di punizione. Il princi-
pio dei livelli di responsabilità basati sulla luce ricevuta è insegnato da
385 C.H. PINNOCK, Op. cit., pp. 152-153.
386 H. KÜNG, Eternal Life, Life after Death as a Medical, Philosophical, and Theological
Problem, New York, 1984, p. 137.
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Capitolo 19
387 E.G.WHITE, La speranza dell’uomo, Edizioni ADV, Impruneta, FI, 1998, p. 489.
388 J. STOTT , Op. cit., p. 319.
389 Idem.
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Distruzione o punizione?
Conclusione
Concludendo questo studio sulle diverse interpretazioni dell’inferno,
è importante ricordare che la dottrina della punizione non è il
Vangelo, ma è il risultato del rifiuto del Vangelo. Essa non è assoluta-
mente la dottrina più importante della Scrittura, ma sicuramente può
determinare un modo di comprendere ciò che la Bibbia insegna in
altre aree vitali come la natura umana, la morte, la salvezza, il carat-
tere di Dio, il destino dell’uomo e il mondo futuro.
La definizione tradizionale dell’inferno come tormento eterno
impone che la risposta venga cercata all’interno della Parola di Dio. Si
tratta di prendere atto di questo: non è possibile trovare alcun soste-
gno biblico. Quello che si è trovato è che i tradizionalisti hanno ten-
tato di interpretare il linguaggio e le ricche immagini della distruzio-
ne degli empi sulla base delle visioni ellenistiche della natura umana
e del dogma ecclesiastico.
Oggi, l’opinione tradizionale dell’inferno è messa in discussione
e sempre più abbandonata dagli studiosi appartenenti a diverse deno-
minazioni religiose, sulla base di considerazioni bibliche, morali, giu-
ridiche e cosmiche. Biblicamente, la pena eterna dei reprobi nega il
principio fondamentale che il salario del peccato è la morte, la cessa-
zione della vita e non il tormento eterno. Inoltre, le immagini e il ricco
linguaggio della distruzione che troviamo in tutta la Bibbia indicano
chiaramente che la punizione finale termina nella distruzione e non
nel castigo infinito.
Moralmente, la dottrina dell’eterna tortura è incompatibile con la
rivelazione biblica dell’amore e della giustizia divina. L’intuizione
morale che Dio ha posto nelle nostre coscienze non potrebbe giustifi-
care un’insaziabile crudeltà da parte di un Dio che sottoponga i pec-
catori a una punizione interminabile. Un Dio così, appare più come
un mostro assetato di sangue che non come il Padre amorevole rive-
latoci da Gesù Cristo.
Giuridicamente, la dottrina del castigo eterno risulta in contrasto
con l’insegnamento biblico della giustizia, che richiede una pena pro-
porzionata al male commesso. La nozione di vendetta illimitata è
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Capitolo 19
estranea alla Bibbia. La giustizia non può mai esigere che venga inflit-
ta una pena di eterno dolore per i peccati commessi durante il tempo
della vita umana, specialmente dal momento che una tale punizione
non consegue alcun risultato pedagogico.
Infine la dottrina dell’eterno tormento ammette e riconosce un
dualismo cosmico che contraddice la visione profetica di nuovo mondo
dal quale il peccato e i peccatori sono passati per sempre. Se i pecca-
tori sofferenti dovessero rimanere una realtà eterna nel nuovo univer-
so di Dio, allora, difficilmente si potrebbe dire che non vi sarà più «
morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima son
passate» (Ap 21:4).
La definizione dell’inferno come tormento cosciente è oggi in serie
difficoltà. Le obiezioni a tale opinione sono così forti e il sostegno così
debole che sempre più persone la stanno abbandonando, adottando
invece la nozione della salvezza universale al fine di evitare l’orrore
sadico dell’inferno. Per recuperare la dottrina biblica del giudizio e
della punizione finale degli empi, è importante che i cristiani riesami-
nino quello che la Bibbia realmente insegna in merito alla sorte dei
perduti.
L’indagine dei dati biblici su questo argomento ha mostrato che gli
empi saranno risuscitati per subire il giudizio divino. Questo impliche-
rà un’espulsione permanente dalla presenza di Dio in un luogo dove
sarà il pianto e lo stridor di denti. Dopo un periodo di sofferenza gli
empi saranno consumati senza alcuna speranza di restaurazione o di
recupero. La restaurazione finale dei credenti e l’estinzione dei pecca-
tori da questo mondo proveranno, allora, che la missione della reden-
zione di Cristo è stata vittoriosa. La vittoria di Cristo significa «che le
cose di prima sono passate» (Ap 21:4), e solo luce, amore, pace e armo-
nia prevarranno di secolo in secolo.
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VI PARTE
Introduzione VI parte
Un destino glorioso
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Introduzione VI parte
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Capitolo 20
Il ritorno di Cristo
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Capitolo 20
390 A.J. WILHELM, Christ among Us. A Modern Presentation of the Catholic Faith, New
York, 1985, p. 417.
391 Ibidem, p. 416,
392 O. CULLMANN, Cristo e il Tempo, (trad. B. Ulianich), Il Mulino, Bologna, 1963, p. 178,
nota 3.
393 Citato da G.C. BERKOUWER, The Return of Christ, Grand Rapids, 1972, p. 34. La stessa
visione è espressa da R. F. ALDWINCINCKLE, Death in the Secular City, London, 1972, p. 82.
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Il ritorno di Cristo
Immortalità o risurrezione?
La speranza in un’immortalità individuale e immediata scavalca la
speranza biblica della restaurazione finale di questa creazione e delle
sue creature (cfr. Rm 8:19,23; 1 Cor 15:24-38). Quando il solo futuro
che veramente conti sia la sopravvivenza individuale dopo la morte,
l’angoscia dell’umanità può avere solo un interesse periferico e il
valore della redenzione di Dio per questo mondo intero viene a esse-
re fortemente sminuito.
Il concetto della sopravvivenza dell’anima è radicato nella filoso-
fia greca. Si è già sottolineato il fatto che per i greci la risurrezione del
corpo era impensabile, in quanto il corpo, cioè materia composta, era
di minor valore quindi indegno di sopravvivere rispetto all’anima, per
natura semplice quindi indivisibile. Nel pensiero biblico, tuttavia, il
corpo non è la tomba dell’anima, ma il tempio dello Spirito Santo,
quindi, degno di essere creato e risuscitato.
«Dalla concezione greca della morte», scrive Oscar Cullmann,
«non si poteva che approdare alla dottrina “dell’immortalità dell’ani-
ma”. Al contrario, la fede nella risurrezione è possibile solo sulle basi
bibliche dove… la morte e la vita dopo la morte non costituiscono un
processo organico, naturale, ma un combattimento fra potenze straor-
dinarie. Nella Bibbia, perché la vita risorga dalla morte, è necessario
un miracolo… La speranza nella risurrezione presuppone la fede
nella creazione. Siccome Dio è il creatore dei corpi, per questo, nel
pensiero biblico, contrariamente al pensiero greco, la risurrezione
deve essere una risurrezione dei corpi».394
Credere nell’immortalità dell’anima significa credere che almeno
una parte di sé sia immortale. Una simile fede incoraggia la fiducia in
se stessi e nella possibilità che la propria anima ascenda al Signore.
Come dice Stephen Travis: «Si pensa tendenzialmente che l’immorta-
lità sia una dote naturale dell’uomo, una parte indispensabile del pro-
prio essere, piuttosto che un dono della grazia di Dio».395
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Capitolo 20
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Il ritorno di Cristo
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Capitolo 20
396 Cfr. S. BACCHIOCCHI, La speranza dell’avvento, (cap. 7) «La natura e la funzione dei
segni dell’avvento», Edizioni ADV, Falciani, 1987, pp. 87-94.
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Il ritorno di Cristo
ha parlato del suo ritorno. Ai discepoli che gli ponevano domande sul
modo della sua venuta, ha risposto: «Allora apparirà nel cielo il segno
del Figlio dell’uomo; e allora tutte le tribù della terra faranno cordo-
glio e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nuvole del cielo con
gran potenza e gloria» (Mt 24:30). Durante l’interrogatorio da parte del
sommo sacerdote, Cristo ha ammesso: «Anzi vi dico che da ora in poi
vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza, e venire
sulle nuvole del cielo» (Mt 26:64). Lo stesso linguaggio è usato nel
libro dell’Apocalisse: «Ecco, egli viene con le nuvole e ogni occhio lo
vedrà» (Ap 1:7).
L’origine di questa descrizione può essere rintracciata già presso i
profeti dell’Antico Testamento, specialmente in Daniele: «Io guardavo
nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile
a un figlio dell’uomo… gli furono dati dominio, gloria e regno» (Dn
7:13,14; cfr. Gl 2:2; Sof 1:14,18). Perché il ritorno di Cristo è associato
con le nuvole? Il ricco significato delle «nuvole» nella storia biblica sug-
gerisce tre possibili ragioni.
a. La venuta di Cristo sulle nuvole suggerisce, prima di tutto, che
sarà una manifestazione unica e visibile della potenza e della gloria
divina. Dal momento che le nuvole sono «i carri della gloria di Dio» (Sal
104:3) e sono utilizzate da Dio per diffondere la sua gloriosa presenza
(Es 24:14,15), esprimono adeguatamente la maestà e lo splendore che
accompagnerà il ritorno di Cristo.
b. La venuta di Cristo sulle nuvole suggerisce anche l’adempi-
mento del patto di Dio nel ricompensare i fedeli e nel punire gli infe-
deli. Il patto che Dio ha stabilito con Noè dopo il diluvio mettendo un
arcobaleno «nella nuvola» (Gn 9:13), e la guida che Dio ha promesso
attraverso la nuvola al popolo che viaggiava attraverso il deserto, sarà
finalmente adempiuto quando le nuvole dell’avvento appariranno e i
credenti termineranno il loro pellegrinaggio, quando il Salvatore li
accoglierà nella terra promessa del riposo permanente.
c. Le nuvole dell’avvento sono anche minacce di punizione e di
morte per gli increduli. I profeti descrivono la retribuzione del grande
giorno del Signore come «un giorno di nuvole e di fitta oscurità» (cfr.
Sof 1:15; Gl 2:2).
Dal primo all’ultimo esodo, le nuvole, nella Bibbia, contengono pro-
messe di protezione per i fedeli e un avviso di punizione per gli infede-
li. La venuta del Signore sulle nuvole indica, inoltre, la riunione gioiosa
di Cristo con i credenti di tutti i secoli. Paolo spiega che i santi risusci-
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Capitolo 20
397 O. CULLMANN, Il mistero della redenzione nella storia, (trad. G. Conte), Il Mulino,
Bologna, 1966, p. 52.
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Capitolo 21
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Capitolo 21
zione dei non credenti non era un problema sollevato dai suoi interlo-
cutori. Comunque, la Bibbia non tace su questo punto. Il riferimento
più esplicito nell’Antico Testamento alla risurrezione di credenti e non
credenti, si trova in Daniele 12:2: «Molti di quelli che dormono nella
polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri
per la vergogna e per una eterna infamia».
Nel Nuovo Testamento, la risurrezione è rappresentata in alcune
parabole dove si parla di una separazione finale dei malfattori dai giu-
sti (cfr. Mt 13:41,43,49,50; 25:31,46). L’affermazione più esplicita si
trova nel vangelo di Giovanni, dove Gesù dice: «Non vi meravigliate di
questo; perché l’ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe
udranno la sua voce e ne verranno fuori; quelli che hanno operato
bene, in risurrezione di vita; quelli che hanno operato male, in risur-
rezione di giudizio» (Gv 5:28,29).
I tre testi citati (At 24:15; Dn 12:2; Gv 5:28,29) sembrano suggerire
che la risurrezione dei giusti e degli ingiusti avrà luogo contempora-
neamente; Apocalisse 20 suggerisce che vi saranno due risurrezioni
separate. La risurrezione dei credenti avviene prima, alla seconda
venuta di Cristo e il risultato sarà la vita: «Beato e santo è colui che par-
tecipa alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la morte secon-
da, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui quei
mille anni» (Ap 20:6). La seconda risurrezione, quella dei non credenti,
avviene alla fine del millennio e ne consegue la condanna e la seconda
morte: «E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu get-
tato nello stagno di fuoco… Questa è la morte seconda» (Ap 20:15,14).
Le due fasi
Per uno studioso, i brani che parlano della risurrezione dei credenti e
dei non credenti, e il riferimento dell’Apocalisse alle due risurrezioni
separate da mille anni, sembrano una palese contraddizione. Questa
apparente contraddizione non ha però disturbato gli scrittori della
Bibbia, in quanto per essi la realtà della risurrezione era più impor-
tante della sua modalità. Questo perché la maggior parte dei richiami
alla risurrezione fa riferimento al fatto piuttosto che alle sue fasi.
Due risurrezioni
L’insegnamento di due distinte risurrezioni costituisce un aspetto piut-
tosto singolare del premillenarismo, cioè la risurrezione dei credenti
che avviene prima del millennio. Gli avventisti, infatti, con altre deno-
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398 Gli avventisti credono che alla venuta di Cristo avrà luogo anche una «risurrezio-
ne speciale» di alcuni oppositori dell’opera di Dio. Questo insegnamento si fonda in
primo luogo su Apocalisse 1:7 che dice che «anche coloro che lo hanno crocifisso»
vedranno la gloriosa venuta di Cristo (cfr. Dn 12:2).
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Capitolo 21
399 A.A. HOEKEMA, The Bible and the Future, Grand Rapids, 1979, p. 247.
400 J.N. D. KELLY, Early Christian Doctrines, New York, 1960, p. 467.
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Materialismo «scientifico»
Il materialismo scientifico vede la materia come unica realtà finale.
Siccome si vive in un corpo material, prodotto dal caso piuttosto che da
una scelta, quando giunge la morte, finisce ogni cosa. I credenti
influenzati da questo postulato rifiutano qualsiasi nozione di risurre-
zione del corpo.
Essi ritengono che l’immortalità sia costituita da un lato dall’in-
flusso che si esercita sugli altri e, dall’altro, attraverso le caratteristiche
ereditarie che si è in grado di trasmettere ai posteri. Quest’opinione
nega non solo l’insegnamento della Bibbia, ma anche il desiderio fon-
damentale del cuore umano.
In un’epoca dove la scienza subatomica regna sovrana, non è
impossibile credere che lo stesso Dio che ha chiamato il mondo all’e-
sistenza non continui a controllarne le particelle infinitesimali.
Credere nella risurrezione del corpo significa credere che Dio esercita
il proprio controllo su tutte le cose, incluso il nostro essere.
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Capitolo 21
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Quattro contrasti
In 1 Corinzi 15:42,44, Paolo spiega la differenza fra il nostro corpo pre-
sente e il corpo della risurrezione mediante quattro contrasti.
- I nostri corpi presenti sono deperibili (phtora) - soggetti alla
malattia e alla morte - ma i nostri corpi risuscitati saranno indistrutti-
bili (aphtharsia) - non più soggetti alla malattia e alla morte.
- I nostri corpi sperimentano il disonore d’essere abbassati in una
tomba, ma i nostri corpi risuscitati sperimenteranno la gloria di una
trasformazione interiore ed esteriore.
- I nostri corpi sono deboli, si stancano facilmente e si esauriscono,
ma i corpi risuscitati saranno pieni di forza, perché verrà loro conferi-
ta un’energia illimitata che permetterà di raggiungere tutti gli obiettivi.
- I nostri corpi presenti sono fisici (sôma psychikon), ma i nostri
corpi risuscitati saranno spirituali (sôma pneumatikon). Quest’ultimo
contrasto ha condotto molti a credere che il corpo della risurrezione
sarà «spirituale» nel senso che sarà privo di ogni sostanza fisica.
«Spirituale» deve essere compreso come l’opposto di «fisico».
Il corpo «spirituale»
Paolo credeva forse che i credenti, al secondo avvento, avrebbero rice-
vuto un corpo immateriale, totalmente privo di sostanza fisica? Questa
è l’interpretazione di alcuni studiosi. Essi definiscono il «corpo spiritua-
le» (sôma pneumatikon) come se significasse «composto di spirito»,
come se lo «spirito fosse una sostanza celeste ed eterea».402 Secondo
questo modo di vedere, lo «spirito» sarebbe la sostanza e il «corpo»
sarebbe la forma del corpo risuscitato. Nel suo libro Raised Immortal:
Resurrection and Immortality in the New Testament, Murray Harris defi-
nisce il corpo spirituale così: «Il corpo spirituale è l’organo della comu-
nicazione della persona risuscitata con il mondo celeste. È una forma
somatica che corrisponde pienamente allo spirito perfezionato del cri-
stiano e perfettamente adattata all’ambiente celeste».403
402 Cfr. W.D. DAVIES, Paul and Rabbinic Judaism, New York, 1955, pp. 183,308;
R. KABISCH, Die Eschatologie des Paulus, Göttingen, 1893, pp. 113,188,206,269;
R. BULTMANN, Theology of the New Testament, London, 1952, vol. 1, p. 198.
403 M.J. HARRIS, Raised Immortal. Resurrection and Immortality in the New Testament,
London, 1986, p. 121.
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408 Uno studio comparativo riguardante le versioni del Credo apostolico si trova in
Ph. SCHAFF, History of the Christian Church, Grand Rapids, 1982, p. 181.
409 TERTULLIANO, «On the Resurrection of the Flesh» in The Ante-Nicene Fathers, Grand
Rapids, 1973, vol. 3, p. 571.
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domi accanto, vada oltre la mia anima. No, tutto di me scende nella
morte. Niente mi dà il diritto di rigettare la totalità dell’uomo - che le
Scritture proclamano come un tutto - che si muove verso la distruzio-
ne della morte, in maniera da dividerlo improvvisamente in un corpo
e un’anima, in una parte distruttibile e un’altra indistruttibile dell’io.
Ma, come cristiano, scendo in questa morte con la completa fiducia che
non posso rimanervi confinato, dal momento che sono un essere che
Dio ha chiamato per nome e che per questo sarò nuovamente richia-
mato nel giorno di Dio. Sono sotto la protezione di colui che è risorto
per primo. Non sono immortale, ma attendo la mia risurrezione».412
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Implicazioni pratiche
Le implicazioni pratiche della fede nella risurrezione dell’intera perso-
na non sono difficili da notarsi. Riguardo al fatto che alla sua venuta
Cristo risusciti i credenti restituendo a ognuno la propria personalità e
carattere, Ellen G. White afferma: «I caratteri formati in questa vita
determinano il destino futuro».417
Questo significa anche che «questo è il tempo per tutti di coltivare
le facoltà che Dio ha offerto, affinché ogni credente possa formarsi un
carattere utile per questa vita e per quella più elevata dopo».418
Credere nella risurrezione significa avere anche rispetto del corpo
in quanto dal modo in cui ci relazioniamo con esso determinerà la
nostra identità nella risurrezione. Il richiamo al seme e al frutto usato
da Paolo, suggerisce che esiste un flusso di continuità fra il corpo attua-
le e il corpo risuscitato. Questa continuità condanna l’ascetismo esa-
sperato di coloro che disprezzano i loro corpi come qualcosa di terre-
no o da scartare nel regno dei cieli. Essa condanna anche la licenza di
quanti credono di poter soddisfare le passioni fisiche senza nessun
freno pensando erroneamente che ciò che avviene nel corpo non abbia
alcun influsso sulla mente e lo spirito.
416 C. HARTSHORNE, The Logic of Perfection, Lasalle, Illinois, 1962, pp. 177-178.
417 E.G. WHITE, Child Guidance, Nashville, 1954, p. 229.
418 Ibidem, pp. 164-165.
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Capitolo 22
Il giudizio finale
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Capitolo 22
419 Per una sintesi riguardante i teologi che ignorano o rifiutano il giudizio cfr. L.
MORRIS, The Biblical Doctrine of Judgment, Grand Rapids, 1960, pp. 54-58.
420 T.F. GLASSON, «The Last Judgment in Rev. 20 and Related Writings», New Testament
Studies n. 28, 1982, p. 537.
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Capitolo 22
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Il giudizio finale
Risposta a Cristo
Un fattore decisivo nel giudizio finale sarà determinato dalla risposta
che una persona darà a Cristo. Il Salvatore ha detto: «Chi mi respinge
e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho annun-
ziata sarà quella che lo giudicherà nell’ultimo giorno» (Gv 12:48).
Le stesse parole di Cristo che danno vita eterna a chi le accetta
(cfr. Gv 13:8), portano la morte eterna a coloro che le rifiutano: «In
verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi
ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla
morte alla vita» (Gv 5:24; 3:36).
L’affermazione «non viene in giudizio» (krisis) non significa che il
caso dei salvati non venga considerato nel giudizio finale, poiché «tutti
dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo» (2 Cor 5:10; Rm
14:10). «Giudizio» significa l’opposto della «vita» eterna in Giovanni
5:24. Così, il significato del testo deve essere questo: i credenti non
saranno condannati nel giudizio finale a motivo del loro costante «sen-
tire» e «credere» (tempo presente in greco) in Cristo.
Il sostantivo greco usato qui per giudizio (krisis) è spesso usato
con il significato di condanna (Gv 3:19; 5:29; 2 Ts 2:12). Paolo esprime
la stessa opinione con una parola congiunta quando dice: «Non c’è
dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù»
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Capitolo 22
(Rm 8:1). Coloro che accettano Cristo non sono sotto alcuna condanna,
né nella vita presente né nel giudizio finale, perché hanno ricevuto sia
il perdono dei loro peccati sia la grazia di adempiere nella loro vita il
«comandamento della legge» (Rm 8:4).
Giudizio e fede
Il giudizio finale «secondo le opere» sarà, in un certo senso, un giudi-
zio sulla fede. Rivelerà se la fede professata sia stata davvero genuina.
Se lo è stata, allora vi saranno le opere a evidenziarla. Se non vi sono
421 In Tracts and Treatises in Defense of the Reformed Faith, (trad. di H. Beveridge),
Grand Rapids, 1965, vol. 3, p. 152.
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Il giudizio finale
le opere, allora la fede non è stata vera. Giacomo esprime questa veri-
tà molto profondamente: «Anzi uno piuttosto dirà: “Tu hai la fede, e io
ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie
opere ti mostrerò la mia fede”» (Gc 2:18).
Il giudizio finale non è un giudizio sui nostri meriti, ma sulla
nostra risposta di fede alla grazia di Dio, liberalmente donataci
mediante Gesù Cristo. Dio non chiederà: Quali opere avete fatto per
meritare la vita eterna? Ma chiederà: Quali sono i «frutti di giustizia che
si hanno per mezzo di Gesù Cristo»? (Fil 1:11), o diversamente, chie-
derà la «prova» di una fede vivente e operante (Rm 5:4; 2 Cor 9:13)? Il
credente non dovrebbe portare giornalmente a buon fine un numero
più o meno soddisfacente di opere per poter superare il giudizio fina-
le, ma assicurare che la sua fede sia vivente e «che operi per mezzo del-
l’amore» (Gal 5:6).
Paolo parla in modo drammatico degli sforzi che compie per assi-
curare la realtà della propria fede. Egli dice: «Tratto duramente il mio
corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver pre-
dicato agli altri, io stesso sia squalificato» (1 Cor 9:27; cfr. Fil 3:13,14).
Ammonisce inoltre i credenti dicendo: «Adoperatevi al compimen-
to della vostra salvezza con timore e tremore; infatti è Dio che produ-
ce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo» (Fil
2:12,13). Dio stesso guida il volere e l’operare nel giudizio finale. Il cri-
stiano verrà esaminato non in merito ai propri successi personali, ma
in base alla risposta di fede alle opere di Dio nella propria vita.
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Il giudizio finale
del giudizio finale. Questi pochi commenti sono volti a offrire solo una
visione sommaria della questione. I lettori interessati possono trovare
uno studio più completo del giudizio finale nei capitoli 13 e 14 del mio
libro La speranza dell’Avvento.
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Capitolo 22
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Il giudizio finale
La relazione fra il libro delle opere e il libro della vita non è chia-
ra. Austin M. Farrar suggerisce che a coloro i cui nomi sono mancanti
dal libro della vita è data l’opportunità di capirne il motivo controllan-
do i libri che contengono il registro delle loro vite.425
Sembra plausibile ritenere che questa verifica faccia anche parte
del processo del giudizio verso i santi. Ci saranno delle sorprese nel
regno di Dio quando alcuni dei «santi» rispettati saranno assenti e alcu-
ni reputati «peccatori» saranno presenti. Il libro delle opere spiegherà
perché alcuni nomi saranno presenti e altri saranno assenti dal libro
della vita. Quindi una funzione importante del giudizio che precede la
venuta di Cristo e quello finale, è quella di rendere gli esseri umani
pienamente edotti in merito all’accettazione del giudizio di Dio.
Due risultati
La differenza tra la fase valutativa e quella esecutiva del giudizio fina-
le è da ricercarsi principalmente nei risultati. Il giudizio valutativo è
tenuto alla presenza di esseri celesti non caduti e rivela la giustizia di
Dio con la venuta di Cristo per ricompensare i credenti risuscitati e
viventi con il dono della vita eterna. Dall’altra parte, il giudizio finale è
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Capitolo 23
426 G.C. BERKOUWER, The Return of Christ, Grand Rapids, 1963, p. 220.
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La nuova terra
427 J. BEHM, «Kainos», Theological Dictionary of the New Testament, ed. Gerhard Kittel,
Grand Rapids, 1974, vol. 3, p. 447.
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Capitolo 23
per la creazione umana, si deve poter credere che sia altrettanto vero
per la creazione sub-umana.
Una quarta ragione per preferire il rinnovamento all’annichili-
mento è da ricercarsi nel fatto che quest’ultimo rappresenterebbe una
vittoria per Satana e non per Dio. Significherebbe, come spiega giusta-
mente Anthony A. Hoekema, che «Satana avrebbe così avuto successo
nel corrompere, in modo da rovinare il presente cosmos e la terra
attuale che Dio non possa fare niente con essa se non cancellarla total-
mente dall’esistenza. Ma Satana non ha ottenuto questa vittoria, al con-
trario, è stato decisamente sconfitto. Dio rivelerà le dimensioni totali di
quella sconfitta quando rinnoverà questa stessa terra sulla quale
Satana ha ingannato l’umanità e, finalmente, bandirà da essa tutti i
risultati delle macchinazioni malvagie di Satana».428
L’implicazione pratica del rinnovamento di questa terra è che noi
non possiamo scartarla come una perdita totale e gioire nel suo peg-
gioramento. Al contrario, si deve operare per il miglioramento del
mondo in vista del piano di rinnovamento di Dio alla fine. Il compito
primo e ultimo consiste nello sviluppare e promuovere uno stile di vita
cristiano e distintivo che abbia valore non solo per questo mondo attua-
le, ma anche per quello futuro.
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La nuova terra
portamento, riceve poco più di un doveroso cenno del capo da parte dei
fedeli. L’inferno, per contro, è un buon argomento per far aumentare le
folle; viene descritto come il luogo dell’azione al novanta per cento,
colori vivaci, alte temperature, diavolerie intriganti e con una compa-
gnia più interessante possibile».429
Questa visione di un vago paradiso etereo è stata ispirata dalla filo-
sofia greca e non dagli insegnamenti biblici. Per i greci, la materia che
compone questo mondo era malvagia e, di conseguenza, non degna di
sopravvivenza. Lo scopo della vita era quello di raggiungere il regno
spirituale nel quale le anime liberate dalla prigionia del corpo poteva-
no finalmente godere della beatitudine eterna.
Durante il corso di questo studio, si è già notato come la chiesa cri-
stiana abbia più o meno adottato l’opinione dualistica greca della natu-
ra umana e del destino. L’impatto del dualismo sul pensiero e la prati-
ca cristiana è stato incalcolabile. Ha condotto non solo al disprezzo del-
l’aspetto fisico della vita (vita activa) a favore dell’aspetto spirituale
(vita contemplativa), ma anche alla svalutazione di questo mondo
materiale, a favore di un regno spirituale sperduto da qualche parte su
nel «cielo».
Oggi, la maggior parte dei cristiani vuole vivere l’eternità «su nel
cielo» e non quaggiù su una terra rinnovata. Ho capito questa verità in
modo insolito mentre facevo ricerche per questo capitolo. Quando ho
inserito la parola “nuova terra” nell’archivio del computer della biblio-
teca dell’Andrews University, è apparso un solo titolo sul monitor. Era
uno studio sul ristorante «La Nuova Terra» nell’Illinois. Ma quando ho
digitato la parola «cielo» più di duecento titoli sono apparsi sul monitor.
È evidente: il mondo futuro è associato, nel pensiero cristiano, con il
«cielo» e non con la «nuova terra».
Realismo biblico
La visione di un paradiso etereo, spirituale, da qualche parte «su nel
cielo», è stata ispirata dal dualismo greco e non dal realismo biblico.
L’Antico e il Nuovo Testamento parlano invece di un «nuovo cielo e di
una nuova terra» (cfr. Isaia 65:17; Apocalisse 21:1) non come un mondo
diverso stabilito da qualche parte nello spazio, ma il cielo e la terra, rin-
novati e trasformati alla loro perfezione originale.
In un altro studio, ho mostrato come la visione della pace, dell’ar-
429 Citato da S. TRAVIS, I Believe in the Second Coming of Jesus, Grand Rapids, 1982, p. 176.
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Capitolo 23
Santa città
Il Nuovo Testamento sottolinea con uguale forza la continuità fra la vita
nel mondo attuale e quella nel mondo futuro. Forse l’immagine che più
colpisce nel comunicare il senso di continuità e di realismo del nuovo
mondo è quella della città. L’epistola agli Ebrei, per esempio, dice che
Abraamo «aspettava la città che ha le vere fondamenta, il cui architetto
e costruttore è Dio» (Eb 11:10). L’esperienza di Abraamo è simile a quel-
la di tutti i credenti, perché, come spiega lo stesso autore «non abbiamo
quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13:14).
Il Nuovo Testamento termina con una descrizione molto vigorosa
della santa città, Gerusalemme, nella quale sono accolti «soltanto quel-
li che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (Ap 21:27).
Rimane l’incertezza nel credere che tutti i dettagli della città deb-
bano essere presi letteralmente. Per esempio, perché la santa città
dovrebbe avere un muro tanto alto da impedire agli abitanti di vedere
il panorama meraviglioso oltre le mura? Ovviamente, la visione di un
muro così alto comunicava a Giovanni e ai suoi contemporanei, la
garanzia della completa tranquillità. In quei giorni, più alto era il muro
e più pacificamente gli abitanti potevano dormire di notte.
Anche i riferimenti ai nomi delle dodici tribù scritti sulle dodici
porte (Ap 21:12) e ai nomi dei dodici apostoli scritti sui dodici fonda-
430 Cfr. S. BACCHIOCCHI, The Sabbath in the New Testament, Berrien Springs, Michigan,
1985, pp. 50-65; vedere anche Riposo Divino per l’Inquietudine Umana, Edizioni ADV,
Impruneta, 1983, pp.118-128.
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La nuova terra
menti (v. 14), suggeriscono che i cittadini della santa città sono cre-
denti di ambedue le comunità, dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Qualunque sia il significato di tutti i dettagli, la visione della santa
città comunica l’immagine, non di una vita mistica, monastica, in un
ritiro celeste, ma di una vita urbana vissuta in intensa attività su que-
sta terra rinnovata.
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Capitolo 23
La presenza di Dio
Un aspetto unico e straordinario della vita sulla nuova terra sarà dato
dall’esperienza senza precedenti della presenza di Dio fra il suo popo-
lo. «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi
saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Ap
21:3). Queste parole così incoraggianti costituiscono la promessa cen-
trale del patto della grazia di Dio (cfr. Gn 17:7; Ger 31:33; Eb 8:10) che
sarà pienamente realizzato sulla nuova terra.
Nelle sue parabole, Gesù ha parlato spesso del destino umano in
termini di ammissione alla presenza di Dio. Ha paragonato il destino
dei suoi seguaci a una festa di nozze dove egli stesso sarà lo sposo (Mt
25:1-13) o il re (Mt 22:1-10); e anche a una casa, alla quale il padrone,
Cristo stesso, torna per premiare i suoi servi fedeli, dicendo: «Entra
nella gioia del tuo signore» (Mt 25:21; Lc 12:35-38).
La presenza di Dio sulla nuova terra sarà così reale che «la città
non ha bisogno di sole né di luna che la illumini perché la gloria di Dio
la illumina, e l’Agnello è la sua lampada» (Ap 21:23). Questo passo indi-
ca che sulla nuova terra il cielo, il luogo dove Dio dimora, e la terra, l’a-
bitazione umana, non saranno più separati ma uniti.
I credenti godranno sulla nuova terra della beata comunione che
Adamo ed Eva hanno sperimentato ogni sabato quando Dio veniva a
visitarli. La caduta ha interrotto questa benedetta comunione ma il
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La nuova terra
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Capitolo 23
Assenza di paura
L’assenza del male si manifesterà specialmente nella mancanza di
paura, insicurezza e ansietà. La vita presente è costantemente esposta
a pericoli, incertezze, e paure. Temiamo la perdita del lavoro, di esse-
re derubati da un ladro in casa, dei danni all’automobile, dell’infedeltà
di nostro marito o di nostra moglie, del fallimento a scuola o del lavo-
ro dei nostri figli, del deterioramento della nostra salute, del rifiuto dei
nostri coetanei. In altre parole, temiamo tutte le incertezze della vita.
Tali paure riempiono di ansie la nostra vita, contraddicendo così lo
scopo di Dio e facendo diminuire il nostro potenziale umano.
La Scrittura usa varie immagini per rassicurarci che sulla nuova
terra non ci sarà né paura né incertezza. Essa parla di una città con
fondamenta stabili, costruita da Dio stesso (Eb 11:10), e di «un regno
che non può esser scosso» (Eb 12:28). Forse il quadro più indicativo
della sicurezza per un cristiano del primo secolo era quello di una città
con «delle mura grandi e alte» (Ap 21:12). Quando le grandissime porte
delle città antiche erano chiuse, gli abitanti potevano vivervi in relati-
va sicurezza. Per sottolineare la completa sicurezza sulla nuova terra,
viene mostrata a Giovanni la santa città che ha delle mura possenti la
cui larghezza è della stessa misura dell’altezza (v. 16).
Un’altra immagine significativa volta a comunicare il senso di per-
fetta sicurezza nella nuova terra, è data dalla scomparsa del mare («il
mare non c’era più» v. 1). Per Giovanni il mare significava l’isolamen-
to a Patmos e la separazione dai credenti sul continente. Il mare era
visto anche come una minaccia alla sicurezza dell’universo (cfr. Ap
13:1; 17:15), specialmente da parte degli ebrei, che, non essendo una
forza marittima, erano costantemente esposti al pericolo di improvvisi
attacchi dal mare. Quindi, l’assenza del mare dalla nuova terra, signi-
fica l’assenza di minacce alla sicurezza e all’armonia. Lo stesso senso
di sicurezza potrebbe essere comunicato nel modo migliore ai cristia-
ni del ventunesimo secolo con altri tipi di immagini: nessun sistema
d’allarme, nessuna porta blindata, nessuna serratura particolare, nes-
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La nuova terra
Assenza di inquinamento
Uno degli aspetti più piacevoli della vita sulla nuova terra sarà abitare
in un ambiente pulito. «E nulla di impuro né chi commetta abomina-
zioni o falsità vi entrerà» (Ap 21:27). La liberazione dall’inquinamento
morale del peccato sarà riflessa nella liberazione dall’inquinamento
fisico dell’ambiente. La vita non sarà più minacciata da inquinamento
irresponsabile e dall’esaurimento di risorse naturali, perché i cittadini
della nuova terra saranno amministratori fedeli della nuova creazione
di Dio. Nella nuova terra non vi saranno «zone per fumatori», perché
nessuno metterà a rischio la salute fumando. Che sollievo sarà quello
di respirare aria sempre fresca e pura, fuori e dentro casa; poter bere
da qualsiasi fontana acqua limpida e sana; poter consumare alimenti
freschi, salutari e non contaminati da insetticidi o conservanti!
Non sappiamo in che modo Dio procederà per purificare questa
terra dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. Pietro fa rife-
rimento a una purificazione fatta con il fuoco quando scrive: «Cieli
infuocati si dissolveranno, e gli elementi infiammati si scioglieranno!»
(2 Pt 3:12). Nel mondo antico, il fuoco rappresentava l’agente principa-
le per la purificazione. È possibile, comunque, che Dio possa usare
altri mezzi oltre al fuoco per raggiungere le profondità della terra e per
eliminare le scorie velenose depositate nel sottosuolo e scaricate nel
mare. Qualunque metodo Dio utilizzi per eliminare rapidamente l’in-
quinamento presente nell’aria, nell’acqua e nel suolo, ci viene detto
che la nuova terra sarà pulita sia moralmente sia fisicamente.
È rassicurante il fatto che i cittadini della nuova terra saranno
amministratori responsabili della nuova creazione di Dio e non la rovi-
neranno un’altra volta. Presumibilmente produrranno pochi scarichi e
sapranno come disporne in modo tale che la natura possa assimilarli in
un processo metabolico. Sarà conservato un perfetto equilibrio dell’e-
cosistema che garantirà il benessere e l’armonia in tutto il creato.
Attività e creatività
La vita sulla nuova terra non trascorrerà nell’ozio o nella meditazione
passiva, ma in attività creative e produttive. Quanti immaginano che i
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Capitolo 23
433 E.G. WHITE, Il gran conflitto, Edizioni ADV, Impruneta, 2000, pp. 529,530.
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Adorazione regolare
Al centro della vita sulla nuova terra ci sarà l’adorazione regolare a
Dio. Isaia descrive la regolarità e la stabilità dell’adorazione sulla
nuova terra in termini familiari alla sua epoca: «Di novilunio in novi-
lunio, di sabato in sabato, ogni carne verrà a prostrarsi davanti a me,
dice il SIGNORE» (Is 66:23).
Il contrasto indica che questo appuntamento regolare per l’adora-
zione si riferisce, prima di tutto, alla restaurazione politica di Geru-
salemme e dei suoi servizi religiosi (v. 20) e, secondo, alla restaura-
zione del tempio alla fine di questa terra, della quale la prima era un
tipo. I profeti spesso vedono le ultime realizzazioni divine attraverso
la trasparenza degli eventi storici imminenti.
Isaia menziona il «novilunio» insieme al sabato perché il primo
aveva un ruolo importante nel determinare l’inizio di una nuovo anno,
di ogni mese e anche la data per celebrare le feste annuali importan-
ti quali la pasqua, la pentecoste e il giorno dell’espiazione. Siccome la
data del novilunio era determinata dall’osservanza da parte dei sacer-
doti, la sua apparizione era fondamentale per la stabilità del calenda-
rio civile e religioso. Questo perché Isaia (66:23) ed Ezechiele (46:3)
parlano delle adunanze regolari del novilunio e del sabato nella
Gerusalemme restaurata. Per essi, questo significava la regolarità e la
stabilità dell’adorazione.
434 S. TRAVIS, I Believe in the Second Coming of Jesus, Grand Rapids, 1982.
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Capitolo 23
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Conclusione
Nel capitolo introduttivo si è detto che ciò che si crede circa la consi-
stenza della natura umana determina grandemente ciò che si crede
intorno al nostro destino ultimo. Durante il corso di questo studio, si è
paragonata e contrastata l’opinione dualistica della natura umana, che
sottolinea la distinzione fra il corpo materiale, mortale, e l’anima spiri-
tuale, immortale, e l’opinione unitaria che accentua l’unità del corpo,
dell’anima e dello spirito, all’interno di un organismo indivisibile.
Lo studio ha mostrato come l’opinione dualistica della natura
umana derivi direttamente dai filosofi greci e abbia influenzato note-
volmente le credenze e le pratiche cristiane. Per esempio, la credenza
che il corpo sia mortale e l’anima immortale ha condotto alla strana
definizione della morte come separazione dell’anima immortale dal
corpo mortale, piuttosto che la cessazione della vita come afferma
chiaramente la Scrittura.
Questa definizione non biblica ha nutrito la credenza comune
nella transizione dell’anima al momento della morte, al paradiso,
all’inferno o al purgatorio. A sua volta, quest’ultima credenza ha porta-
to i cattolici a credere nell’intercessione dei santi da un lato e, dall’al-
tro, nella certezza che la chiesa sulla terra abbia la giurisdizione nel-
l’applicazione dei meriti dei santi nei confronti delle anime che soffro-
no in purgatorio. Circa la punizione finale degli empi si è notato come
la fede nell’immortalità dell’anima abbia influenzato l’interpretazione
dell’inferno dove i perduti sono tormentati da Dio per tutta l’eternità.
Questa opinione oggi è profondamente in crisi perché un numero sem-
pre maggiore di cristiani la rifiuta per motivi biblici e morali. Le imma-
gini e il ricco linguaggio della distruzione usati dalla Bibbia per descri-
vere la sorte degli empi, indicano chiaramente che la loro punizione
finale sarà l’annichilimento e non il tormento eterno e consapevole.
Moral-mente, la dottrina del tormento eterno è incompatibile con la
rivelazione biblica dell’amore e della giustizia divina.
Abbiamo già visto come il dualismo abbia indebolito l’aspettativa
della venuta di Cristo portando le persone a credere che possono incon-
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Conclusione
trare Cristo alla morte come anime disincarnate. Esso ha reso il giudi-
zio finale praticamente superfluo insegnando che ogni persona è giu-
dicata alla morte in quanto ascende al cielo, o è destinata all’inferno. Il
dualismo ha inoltre spiritualizzato la risurrezione del corpo e del
mondo futuro disprezzando l’aspetto fisico del corpo risuscitato e l’a-
spetto materiale del mondo futuro. L’accettazione del dualismo da parte
dei cristiani attrae sempre meno in rapporto alla visione paradisiaca ed
eterea, dove si dovrà vivere per tutta l’eternità come anime glorificate
e impegnate eternamente a cantare , meditare e contemplare.
È impossibile valutare il risvolto negativo del dualismo sui vari
aspetti della vita e del pensiero cristiano. Molti studiosi hanno ricono-
sciuto che il dualismo corpo-anima ha alimentato altre dicotomie in
aperto conflitto con la visione biblica della natura umana e dannose
per le persone. I teologi spesso hanno legato il dualismo corpo-anima
a quello sacro-secolare, che differenzia gli aspetti sacri della vita da
quelli secolari, separando così una parte della vita dai dettami del
Vangelo. I missionologi ammettono che il dualismo ha condotto a una
testimonianza tronca del Vangelo, focalizzata sulla salvezza delle
anime senza comprendere l’intero essere umano.
Gli educatori riconoscono l’influsso negativo del dualismo nel
corso degli studi tradizionali, dove la sottolineatura è più sulla cura
della mente a discapito della persona totale. I medici e gli psicologi
riconoscono che il dualismo può essere responsabile del fallimento nel
riconoscere le dinamiche psicosomatiche delle malattie fisiche ed
emotive. Siccome non è stato tentato in questo libro l’esame delle varie
aree toccate dal dualismo, in queste ultime pagine desidero alludere a
tre aspetti significativi di esso: 1. dualismo religioso; 2. dualismo mora-
le; 3. dualismo sociale.
Dualismo religioso
Il dualismo corpo-anima ha prodotto una divisione illegittima della vita
in due aree separate: la vita religiosa in opposizione alla vita secolare,
la vita sacra contro quella profana o, per usare una distinzione medie-
vale, vita contemplativa contro vita activa. Alcuni studiosi vedono que-
sta dicotomia moderna sacro-secolare come il risultato diretto della
distinzione corpo-anima, natura-grazia della teologia medievale.435
435 Cfr. A. VOS, Aquinas, Calvin, and Contemporary Protestant Thought, Grand Rapids,
1985, pp. 124-133.
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Dualismo morale
Il dualismo corpo-anima ha contribuito alla polarizzazione o gerarchia
di valori dentro la società. Questa tendenza può essere vista nell’incli-
nazione storica di voler considerare l’anima superiore al corpo e, di
conseguenza, considerare le occupazioni intellettuali più importanti
del lavoro manuale.
«In certi ambienti», nota John Cooper, «i presidenti, i dottori e i
professori, sono ancora stimati più degli idraulici e dei contadini sem-
plicemente perché sono più istruiti e lavorano principalmente con le
loro menti piuttosto che con le loro mani. Alcuni cristiani considerano
questo mondo non solo come secolare, ma come “sporco” e non adat-
to al coinvolgimento di una persona veramente spirituale».436
Un’altra distinzione significativa nutrita dal dualismo è presente
fra il clero e il laicato. Storicamente, le persone che rispondono alla
sacra chiamata di una vita religiosa sono viste come più sante di quan-
ti seguono una professione secolare. Il rango più elevato del clero è
riconosciuto dall’uso degli abiti ecclesiastici e da titoli speciali come
«Reverendo o Santo Padre». La chiamata del clero è considerata sacra
in quanto chi vi si dedica è chiamato a salvare le anime mentre il lai-
436 J.W. COOPER, Body, Soul, and Life Everlasting: Biblical Anthropology and the
Monism-Dualism Debate, Grand Rapids, 1989, p. 203.
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Conclusione
Dualismo sociale
Il dualismo corpo-anima è presente anche nella separazione illegittima
e nella svalutazione di certi gruppi di persone. Gli esempi più clamo-
rosi sono il classismo e il razzismo. Una norma razionale per la sogge-
zione e lo sfruttamento di certi gruppi minoritari è quello di ritenerli
come mancanti di anime pienamente umane. Dei bianchi hanno dubi-
tato che i neri africani e gli indiani americani potessero davvero esse-
re dotati di anime razionali; per questo hanno ritenuto di poterli legit-
timamente opprimere.
È impossibile valutare l’impatto totale del dualismo corpo-anima
sulle nostre strutture religiose, sociali e politiche. Dividendo gli esseri
umani in corpo e anima, ha permesso la divisione in tanti tipi di false
dicotomie nella vita umana. Ha condotto alla resa di vaste aree della
vita, di valori morali e della conoscenza alle potestà del secolarismo e
dell’umanesimo.
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Bibliografia*
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Indice
Prefazione Clark Pinnock 7
Presentazione Giuseppe De Meo 9
Introduzione 17
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