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Giuseppe Vison

Non berr pi del frutto della vite (Mc 14,25): la grande speranza

Non si pu comprendere la posizione che Ges assume nella storia se non si definisce la sua esatta collocazione escatologica. Questa ovvia affermazione di Dietrich Wiederkehr ci ricorda che lescatologia non un tema a fianco di altri, ma una qualit degli eventi e di come gli eventi vengono prospettati e vissuti. Non pretendo certo di tracciare la coscienza e le aspettative di Ges (e poi del primitivo cristianesimo) di fronte allattesa della fine, alla sua morte e a ci che si aspettava al di l della sua morte. Assumer, piuttosto, un punto di partenza molto ristretto ma anche molto denso. Si tratta di una sentenza di Ges inserita nel contesto dellUltima Cena e delle parole istitutive delleucarestia. Nel testo di Mc 14,25 essa fa parte delle parole di Ges sul calice e recita: In verit vi dico che io non berr pi del frutto della vite fino a quel giorno in cui non lo berr nuovo nel regno di Dio. (Hemra ekene, quel giorno: il termine tecnico per il giorno di JHWH gi ci proietta sulla fine dei tempi). Fra i detti di Ges, questo uno di quelli che presentano al massimo grado i caratteri dellautenticit. Sono daccordo con Xavier Lon-Dufour quando sostiene che qui si pu quasi entrare nel pensiero di Ges, il quale qui non parla da cristiano dopo la pasqua, ma da pio ebreo, proteso verso la fine dei tempi. Se prendiamo la testimonianza di Paolo sulle parole istitutive, e in particolare il suggello rappresentato da 1Cor 11,26 (Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finch egli venga), ecco qui gi abbiamo certo in proiezione escatologica non pi il punto di vista di Ges ma quello del cristiano che, dopo gli eventi pasquali, celebra e attende il Signore. Col nostro lgion siamo invece ancora al di qua del sipario. Le parole dellistituzione sono ricche di riferimenti teologici: il sangue dellalleanza di Es 25,8, la nuova alleanza di Ger 31,31, il servo di JHWH di Is 53. Nel detto sul frutto della vite, invece, tutto indeterminato: i tempi e i modi dellintervento divino, il ruolo di Ges e soprattutto la funzione della sua morte. Sono indicati soltanto i due poli, i due estremi di un arco che collega i due eoni dellapocalittica: il momento presente e quello dopo, ma non ci viene detto quello che deve capitare nel mezzo. La questione dei rapporti letterari e di storia della tradizione fra i testimoni che avete in sinossi di straordinaria complessit. Essa riguarda soprattutto il raffronto fra Marco e Luca e appare anche solo dal fatto che in Luca il nostro lgion torna due volte, al v. 16 (riferito al mangiare la pasqua) e al v. 18, riferito a un calice che non per quello eucaristico, come in Marco, creando cos la anomala situazione di un doppio calice, per la disperazione degli esegeti e dei liturgisti antichi e moderni. Le soluzioni proposte seguono due filoni maggiori: a) Luca utilizza qui una fonte sua peculiare (cos, ad esempio, il recente e autorevole commentario al vangelo di Luca di Franois Bovon); b) la recensione lucana una rielaborazione redazionale della fonte che Marco. Non entro neppure, naturalmente, in questo dibattito, anche se propendo per la seconda soluzione: Lc 22,18 redatto alla luce di Mc 14,25, mentre il v. 16 una gemmazione lucana dallo stesso v. 18. Quello, per, che qui importa acquisire che il livello redazionale dei vangeli recepisce e lavora una situazione non gi definita: Luca non si sente vincolato dalla tradizione marciana delle parole di Ges sul calice (o, in alternativa, conosceva una tradizione diversa), e anche riguardo allo stesso Marco, non vi esegeta che non rilevi come il v. 25 sia fuori assetto, un elemento estraneo che strappa da ogni parte con il contesto e in particolare non ha relazione con il sangue di Ges

come sangue versato per i molti (questo in Luca anche strutturalmente chiaro: si tratta materialmente di un altro calice). La conclusione che la redazione evangelica mette insieme (creando una connessione che Eduard Schweizer ritiene inspiegabile) due distinte tradizioni su un pasto di addio, una di carattere eminentemente escatologico, centrata sul nostro lgion, e una a carattere liturgicoistitutivo, centrata sulle parole sul pane e sul calice e fortemente orientata sulla morte di Ges, come nel modo pi chiaro illustra 1Cor 11,26 che abbiamo citato. (Di nuovo, in Luca pi evidente questa giustapposizione, nelle due unit narrative dei vv. 15-18 (mangiare-bere) e 19-20 (panecalice); Mc assimila il tutto nellunico calice eucaristico). Linterpretazione esegetica, anche odierna, del detto escatologico di Ges fortemente condizionata dalla sua incorporazione secondaria nel racconto dellistituzione eucaristica come memoriale della morte di Ges, con tre principali conseguenze, di cui due le enunciamo subito, mentre la terza emerger alla fine: 1 - il detto di Ges stato inteso primariamente come profezia di morte; alcuni esegeti si spingono fino a dire che originaria solo la prima parte del v. 25 (non berr pi del frutto della vite), mentre 25b, sulla venuta del regno, sarebbe una successiva integrazione postpasquale. In ogni caso il peso viene fatto cadere completamente sullaspettativa di morte; 2 - in secondo luogo viene depotenziata la convinzione dellimminenza della venuta del regno, perch, se Ges ha lasciato disposizioni per la celebrazione di un memoriale nei segni del pane e del vino, significa che veniva previsto un tempo intermedio, di lunghezza tale da richiedere per lo meno un assetto. Ma se si prescinde dalla stretta connessione appunto secondaria con le parole istitutive di Ges, che fondano il memoriale della sua morte, non si pu non riconoscere che tutto il peso del detto sul frutto della vite cade invece sulla prospezione escatologica del banchetto del regno e intende trasmettere la certezza dellimminente instaurazione del regno di Dio. Il senso del lgion non sta nel dire: sto per morire, bens: il regno di Dio sta per arrivare; il prossimo convito, dopo questo, sar nel regno. importante, per questo, confrontare la recensione marciana del detto di Ges con quella lucana del v. 18, perch, al di l dellapparenza, sono profondamente diverse. Sono daccordo con chi ha detto che Luca, in confronto a Marco, scipito: in lui intanto scompare la hemra ekene, il giorno di JHWH; ma soprattutto in Luca la funzione del lgion ridotta a pura scadenza cronologica: non berr pi vino fino a quando non giunger il regno. In Marco invece domina limmagine del futuro banchetto escatologico (immagine scomparsa in Luca, assieme al vino nuovo), nella correlazione fra il bere qui, adesso, e il bere l, nel nuovo eone. Non ha rilevanza, in Marco, il fino a che, ma il fatto di bere il vino nuovo alla mensa preparata da Dio per i suoi eletti. In Mc 14,25 va allora visto un vestigio che si allinea alla ricchissima tradizione giudaica e biblico-profetica imperniata sul simbolismo della vite e del vino (meglio, del frutto della vite, chiaro semitismo) come pegno di Dio (la vite/vigna Israele) e come promessa di straordinaria prosperit per lera messianica. Vedremo tornare questimmagine. Qui ricordo solo lepisodio degli esploratori inviati da Mos nella terra promessa, dalla quale ritornano con un grappolo duva che dovettero cito Nm 13,23 portare in due con una stanga o la testimonianza di Giuseppe Flavio, secondo cui nel tempio di Gerusalemme pendeva la riproduzione in oro di una vite con grappoli della grandezza di un uomo. C unaltra conseguenza, non adeguatamente percepita, come ha sottolineato Paul Bradshaw, del fatto che a livello redazionale Marco e Luca cercano variamente di assimilare tradizioni prima distinte, relative a un pasto di addio di Ges: questa situazione rende improbabile che ci fosse gi una qualche integrazione delle due tradizioni nella fase antecedente, mentre, allinverso, rende verosimile che ci fossero, nella seconda met del I secolo, comunit cristiane che conoscessero la tradizione di una promessa escatologica di Ges, al momento del banchetto di addio, non connessa con le parole sul suo corpo e sul suo sangue. 2

Io credo che dietro la Didach che a mio avviso va mantenuta entro il I secolo noi possiamo trovare una comunit di questo tipo. Ho sempre pensato che, a fronte delle numerose perdite e lacune che la letteratura cristiana delle origini pu lamentare, la conclusione mutila della Didach abbia invece reso un servizio alla funzione dello scritto, creando un mirabile effetto di sospensione. Lapocalisse finale dellopera, introdotta da en tais eschatais hemerais, negli ultimi giorni, e scandita dalla successione di quattro tote (allora), cos culmina e bruscamente si interrompe: Allora il mondo vedr il Signore venire sopra le nubi del cielo. La comunit della Didach celebra una eucaristia senza memoriale dellistituzione nellUltima Cena e senza riferimento al corpo-sangue di Cristo. La formula sul calice recita: Ti rendiamo grazie (eucharistoumen) Padre nostro, per la santa vite di Davide tuo servo, che ci hai fatto conoscere per mezzo di Ges, tuo servo. A te la gloria nei secoli. La vite di Davide non Ges stesso (Ges lo strumento per mezzo del quale stata rivelata) e il frutto della vite non il suo sangue. La vite di Davide la manifestazione del regno davidico promesso, ora annunciato da Ges e atteso e invocato dallassemblea. (Wengst cos parafrasa: Ti ringraziamo per la salvezza messianica che ci hai rivelato per mezzo di Ges). La sezione eucaristica della Didach si chiude con uno straordinario effetto di accelerazione escatologica: Venga la grazia e passi questo mondo. Osanna alla casa di Davide. Chi santo venga, chi non lo si penta. Maranath. Amen. Maranath, Vieni Signore!. Giustamente stato detto che qui sta il centro teologico della sinassi eucaristica della Didach. Per cui non convince linterpretazione prevalente, secondo la quale lappello Chi santo venga sarebbe un invito a farsi avanti per la comunione eucaristica (?!). Si tratta, piuttosto, della convocazione a entrare nel regno messianico rivolto a una comunit che anticipa il raduno escatologico ed protesa verso il suo effettivo compimento. Anche se la aggrovigliata matassa sulle origini della celebrazione eucaristica lontana dallessere dipanata, non si pu mettere in dubbio lesistenza di una eucaristia a forte componente escatologica, memoriale cito Vgtle di una cena di addio che mirava al banchetto escatologico. Riprendiamo dal nostro lgion sul frutto della vite seguendo una traccia che ritengo molto significativa: da una parte, nello sviluppo dellanafora eucaristica e nellinsieme delle tradizioni liturgiche centrate sulle parole istitutive dellUltima Cena non sar mai dato trovare traccia della sentenza escatologica di Ges; dallaltra, le pi antiche attestazioni della stessa sentenza si trovano tutte in contesti millenaristici, ovvero associate alla dottrina che prevede, al momento del ritorno del Signore, linstaurazione di un regno terreno dei giusti con Cristo, prima della resurrezione universale e del giudizio finale, regno di godimenti materiali in Gerusalemme, ricostruita e rinnovata. Per usare le parole di Giustino Martire: Io e tutti i cristiani di fede retta sappiamo che ci sar una resurrezione della carne e un periodo di mille anni in Gerusalemme ricostruita, abbellita e ampliata, cos come affermano Ezechiele, Isaia e gli altri profeti. L dove Giustino afferma che Cristo ha annunciato in anticipo che sarebbe tornato di nuovo a Gerusalemme per mangiare e bere ancora assieme ai suoi discepoli, vi una probabile allusione alla nostra sentenza in un contesto millenaristico. Questo collegamento diventer esplicito con Ireneo, come subito vedremo. Ma lo stesso fiero avversario del materialismo di un simile regno, Origene, che attesta il ricorso al nostro lgion da parte dei millenaristi, i quali, scrive, dal nuovo testamento adducono le parole del salvatore che promette ai discepoli la gioia del vino dicendo: Non berr pi dora in poi finch non berr il vino nuovo insieme con voi nel regno del Padre mio. 3

E ancora alla fine del III secolo, commentando la promessa del regno millenario nel c. 20 dellApocalisse di Giovanni, Vittorino di Petovio scrive: Di questo regno ha fatto menzione il Signore prima della sua passione, quando dice agli apostoli: Non berr pi del frutto di questa vite se non quando lo berr nuovo con voi nel regno a venire, e questo il centuplo (cf. Mt 19,29), diecimila volte pi grande e pi splendido. Questo diecimila particolarmente significativo, come subito vedremo. Tunc veniet Dominus de caelis in nubibus in gloria Patris adducens iustis regni tempora Allora giunger il Signore dai cieli, sulle nubi, nella gloria del Padre, inaugurando per i giusti i tempi del regno. Ireneo di Lione apre la sezione finale, escatologica, del suo Adversus haereses con una visione affine a quella della Didach. Questa sezione - gli ultimi cinque capitoli - fu soppressa, e recuperata solo nel 1571: essa contiene la dottrina del regno millenario. Ma fino ai nostri giorni si esorcizzato il millenarismo del vescovo di Lione presentandolo come una interpolazione o una stravaganza o un deprecabile abbaglio che ci si affretta a precisare non compromette la sostanza della sua ortodossia. Invece un punto centrale (e per lui imprescindibile per la fede) del suo sistema e, appunto, il culmine dei cinque libri della sua opera. Ireneo inserisce la concezione del regno in un grande affresco unitario che, in chiave antignostica, salda creazione ed escatologia passando attraverso un rinnovamento intermedio della creazione. Come sempre, al centro del sistema di Ireneo c luomo concreto di carne. Leconomia di salvezza una salus carnis, da realizzarsi su questa terra, perch nellescatologia cito non annientata n la sostanza n la materia della creazione. questa sarx umana, certo rivestita di una qualit nuova, che contempler il Signore Ges. Proprio in relazione al nostro lgion Ireneo instaura una correlazione fra la nuova carne e il nuovo vino: La carne che risuscita in una condizione nuova quella che partecipa del nuovo calice. Quale funzione ha, in questa economia, il regno millenario? Quella di assicurare la continuit fra il mondo presente e quello della definitiva comunione con Dio. In questo regno i giusti continuano a crescere nel loro perfezionamento spirituale per abituarsi alla visione di Dio (paulatim assuescunt capere Deum). (Luomo) risusciter realmente e realmente si eserciter allincorruttibilit, crescer e acquister pieno vigore nei tempi del regno, per divenire capace di accogliere la gloria del Padre; poi, una volta rinnovate tutte le cose, realmente abiter la citt di Dio (Adv. haer. 5,35,2). Ci sono due momenti di forte rinnovamento: il primo, allinizio del millennio, riporta la terra alla condizione paradisiaca originaria; il secondo, alla fine del millennio, la vera e propria nuova creazione, il cielo nuovo e la nuova terra di cui parla Is 65,17, nei quali dice Ireneo dimorer luomo nuovo, conversando con Dio in maniera sempre nuova. Ma c piena continuit fra mondo presente, regno millenario, regno eterno di Dio. Nella sua visione dellescatologia e del regno, Ireneo si fonda su tradizioni giudaiche relative alla promessa di un radicale rinnovamento della creazione. [Mi piace ricordare che questo tema, assieme a quello di un regno messianico intermedio, particolarmente presente proprio nei due scritti giudaici oggetto del VI Enoch Seminar, cio 2 Baruc e 4 Esdra]. Centrale diviene soprattutto Is 65 (gi impiegato da Giustino), testo chiave nella teologia asiatica del regno millenario, col suo perno sul cielo nuovo e la nuova terra del v. 17. in questo contesto che Ireneo cita due volte il detto sul frutto della vite, e cos lo commenta: senza dubbio nelleredit della terra che egli promise di bere del frutto della vite con i suoi discepoli; della terra che egli stesso rinnover e ricondurr allo stato originario per il servizio della gloria dei figli di Dio. Promettendo di bere del frutto della vite con i suoi discepoli ha dimostrato due cose: leredit della terra nella quale si berr il nuovo frutto della vite, e la 4

resurrezione corporale dei suoi discepoli. Giacch la carne che risuscita in una condizione nuova quella che partecipa del nuovo calice. Non si pu, infatti, pensare che beva del frutto della vite stando con i suoi discepoli in alto, in un luogo sovraceleste, e neppure possono essere senza la carne coloro che lo bevono: proprio della carne, infatti, e non dello spirito, bere il frutto della vite. Subito sotto, e in stretta connessione, Ireneo cita la benedizione di Isacco a Giacobbe, Gn 27,28: Dio ti conceda rugiada dal cielo e terre grasse e abbondanza di frumento e di mosto, per affermare che essa concerne inconfutabilmente i tempi del regno, quando i giusti, risuscitando dai morti, regneranno, quando anche la creazione, rinnovata e liberata, produrr grande quantit di cibo di ogni genere, grazie alla rugiada del cielo e alla fertilit della terra. Cos, i presbiteri che hanno visto Giovanni, il discepolo del Signore, ricordano di aver udito da lui come il Signore insegnava riguardo a quei tempi dicendo: Verranno giorni in cui nasceranno vigne che avranno ciascuna diecimila tralci [ecco il diecimila di Vittorino!], su ogni tralcio diecimila grappoli, in ogni grappolo diecimila acini, e ogni acino spremuto produrr venticinque metrete di vino. E quando uno dei santi coglier un grappolo di quelli, un altro grappolo grider: Io sono migliore, cogli me, attraverso me benedici il Signore (per me dominum benedic)!. Allo stesso modo anche un chicco di grano produrr diecimila spighe, ogni spiga avr diecimila chicchi e ogni chicco produrr cinque volte due libbre di fior di farina. Ritroviamo qui la nostra vite come segno della prosperit dei tempi messianici. Qualcuno ha visto qui anche un riferimento di tipo eucaristico (per me dominum benedic / vino-grano) che potrebbe ricondurci al nostro contesto di partenza o anche alla Didach, la quale, tra laltro, ha la stessa sequenza vino-pane, inversa rispetto a quella canonica pane-vino. A quale contesto risalga questa tradizione che Ireneo ha udito dai presbiteri dAsia (e che lui riconduce, attraverso Giovanni, allo stesso Ges) ce lo illustra una semplice citazione da 2 Baruc: Anche la terra dar i suoi frutti, diecimila volte tanto, e in una vite saranno mille tralci e un tralcio far mille grappoli e un grappolo far mille acini e un acino far un kor di vino (2 Bar 29,5). La grande speranza millenarista ebbe, nei primi secoli cristiani, un rilievo e una diffusione di cui difficile oggi rendersi immediatamente conto, per via di alcune cesure storiche (accompagnate da programmatiche proscrizioni) che da essa ci separano. La prima gi decisiva viene da Alessandria e da Origene e la cogliamo subito quando Ireneo precisa che i passi profetici escatologici che - dice - alcuni tentano di interpretare in senso allegorico vanno invece accolti in senso letterale: Non si pu pensare che tutte queste cose vadano situate nei luoghi iperuranici (in supercaelestibus), ma vanno riferite al tempo del regno, quando la terra sar stata rinnovata e Gerusalemme ricostruita secondo il modello della Gerusalemme di lass. Origene, naturalmente, attaccher frontalmente questa linea esegetica, retaggio giudaico, e nel contesto, sopra citato, in cui menziona il ricorso dei millenaristi al lgion sul frutto della vite, precisa che quello di cui si godr nel regno il cibo della verit e la bevanda della sapienza. Un grande discrimine va tracciato tra la concezione materialista, letteralista, asiatica, imperniata sulla srx (Eusebio di Cesarea, sistematico denigratore del millenarista Papia di Hierapolis, lo accusa di credere che il regno di Cristo verr instaurato somatiks / materialmente su questa terra), e la linea spiritualista alessandrina, fondata su unantropologia di matrice platonica. Di essa noi siamo figli, rispetto a una escatologia giudaica. Proprio Eusebio rappresenta un ulteriore momento topico, non pi in chiave esegetica ma politica, dello spostamento dellorizzonte escatologico, dacch ormai le avvisaglie del regno 5

messianico si potevano direttamente cogliere nel nuovo ordine politico-religioso inaugurato da Costantino. Per Eusebio la profezia di Is 65,17 sui cieli nuovi e la terra nuova non si riferisce al mondo a venire ma alla realt presente (Comm. Is. II,56). Ma le premesse per la curvatura pi significativa dellorizzonte escatologico (la terza delle conseguenze di cui sopra parlavo) sono racchiuse gi nelloperazione con cui i redattori dei vangeli sinottici hanno connesso il calice del frutto della vite, riferito al banchetto escatologico, con il calice dellistituzione eucaristica nei segni del pane e del vino. La sentenza di Mt 26,29 ci mostra quanto avvertitamente operassero i redattori dei vangeli; essa sembra perfettamente ricalcata su Mc 14,25, eppure tre brevi tocchi ne orientano diversamente il significato: - il Ges di Matteo dice che non berr pi di questo frutto della vite, serrando il raccordo con il calice eucaristico del v. 28; - dice poi lo berr nuovo con voi (assente in Marco), segnando la continuit con lassemblea eucaristica; - non dice regno di Dio ma regno del Padre mio, conferendo a Ges una posizione enfatica, altrimenti assente, nel banchetto escatologico. Se il nostro lgion segnava gli estremi tra il presente e la realt del regno, lasciando indeterminato quello che avviene nel mezzo, il pasto cultuale nei segni eucaristici del pane e del vino provvede a coprire il tempo intermedio (fino a che egli venga, come dice Paolo), lasciando un segno della perdurante presenza di Ges tra i suoi discepoli: nelleucarestia. Il pasto istituito con la Cena un pasto per il tempo intermedio (Patsch). Leucarestia diviene memoriale della morte salvifica di Ges e anticipazione del banchetto escatologico, fondando quella escatologia a due stadi del gi e del non ancora di cui ora abbiamo una nitida esposizione nel capitolo finale del recentissimo Ges di Nazaret di Joseph Ratzinger / BenedettoXVI. La parabola escatologica si accorcia ancor pi allorch si identifica il banchetto del vino nuovo, prospettato da Ges, proprio con la sinassi eucaristica, e il tempo del regno con il tempo della chiesa, secondo linterpretazione ecclesiologica del lgion di Mc 14,25 che diventer via via dominante col progredire dellet patristica e che non raramente ripresa dallesegesi contemporanea. Cito Lebeau: Il regno di Dio in cui Ges aveva promesso di bere il frutto della vite la Chiesa, riunita per la Cena del Signore. Il regno di Dio di cui Ges parla stato scritto non coincide con la fine del mondo; limpegno di non mangiare e di non bere fino alla venuta del Regno si conclude con gli incontri postpasquali, durante i quali il Cristo risorto mangia e beve con i suoi discepoli, indicando cos linaugurazione del regno (il rinvio dobbligo ad At 10,41, in cui Pietro attesta che Ges risorto apparso a testimoni scelti, a noi dice che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la resurrezione dai morti). Ma se Mc 14,25 racchiude, come credo, ununit di tradizione, esso, preso in s non fornisce elementi al di l della certezza di Ges di partecipare al regno imminente. significativa, in particolare, lassenza di un riferimento a una sua parusia o a una sua funzione preminente di autorit o di giudizio. , questo, un elemento che spicca nel panorama del cristianesimo delle origini, ben presto dominato dallattesa del ritorno glorioso di Ges, e depone ulteriormente per la grande arcaicit (o dovremmo dire autenticit?) del lgion di Mc 14,25: esso racchiude lessenza della genuina aspettativa dellebreo Ges: la fiduciosa certezza del prossimo avvento del regno di Dio.

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