SPUDASMATA
Studien zur Klassischen Philologie und ihren Grenzgebieten
Begründet von Hildebrecht Hommel und Ernst Zinn
Herausgegeben von Gottfried Kiefner und Ulrich Köpf
Band 149
EDIPO CLASSICO E CONTEMPORANEO
2012
a cura di
Francesco Citti, Alessandro Iannucci
2012
Das Werk ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen
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Umschlagentwurf: Inga Günther, Hildesheim
Alle Rechte vorbehalten
Printed in Germany
© Georg Olms Verlag AG, Hildesheim 2012
www.olms.de
ISBN 978-3-487-14872-4
ISSN 0548-9705
INDICE
0. Premessa
Nel lento processo di costruzione della tradizione classica il Cinque-
cento costituisce una fase di consolidamento, in cui un sempre maggior
numero di testi antichi rientra nel tessuto vitale della cultura occiden-
tale; cioè a dire in un circuito di conoscenze che non è più di pertinenza
esclusiva dei dotti, ma è accessibile a strati assai ampi della comunità
interessata al mondo della letteratura. In questa fase appare decisivo il
ruolo di mediazione culturale svolto da chi, primi fra tutti i volgarizza-
tori, rendeva i grandi classici del passato immediatamente accessibili a
un pubblico colto o popolare. Fra le forme di mediazione il teatro occu-
pa sicuramente una posizione di assoluto rilievo, con la sua capacità di
proporre a platee sempre più numerose e, per così dire, in forme diret-
te, alcuni fra i più grandi capolavori dell’antichità greco-romana, dalle
commedie di Plauto alle tragedie attiche del V secolo a. C. Accanto all’at-
tività dei volgarizzatori e dei più diretti protagonisti della vita teatrale
(attori, ‘registi’, committenti etc.) non bisogna dimenticare quella degli
editori, che avevano la capacità di divulgare sempre più rapidamente e
capillarmente la conoscenza dei classici antichi presso un ampio pubbli-
co di lettori.
Come ha mostrato assai bene vent’anni fa Hellmut Flashar, in que-
sta fase i grandi testi del teatro greco non rappresentano ancora un pun-
to di riferimento primario, e anzi restano tutto sommato estranei al gu-
sto prevalente del pubblico cinquecentesco. Se da un lato le opere volga-
rizzate di Plauto e, in misura assai minore, di Terenzio e di Seneca ritor-
138 G. Guastella
1
Flashar 1991, 25.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 139
Ma Edipo avrebbe davvero potuto fare questo, dopo che suo padre
aveva già avviato il corso del destino, generando un figlio e con esso
2
Riadatto qui i concetti «spazio odologico» e «spazio cartografico» che Janni 1984 pro-
pone, a tutt’altro proposito, per descrivere, rispettivamente, la dimensione rispetto alla
quale si orienta chi sceglie come punti di riferimento i luoghi che incontra sul proprio
percorso e quella rispetto alla quale si orienta chi immagina il percorso che deve fare os-
servando dall’alto un territorio disegnato su una mappa.
3
Vv. 367 οὐδ᾽ ὁρᾶν ἵν᾽ εἶ κακοῦ e 413 κοὐ βλέπεις ἵν᾽ εἶ κακοῦ. Qui e altrove il testo so-
focleo è citato secondo l’edizione Lloyd-Jones — Wilson 1990a.
4
Cito da Ossola 1987, 160.
140 G. Guastella
5
In tutta la prima metà della tragedia ricorrono con insistenza termini che rimandano
a queste tre sfere, come è stato più volte sottolineato dalla critica (ad esempio da Para-
tore 1956, 114-116; Mastronarde 1970; Graham 1977, 57-67; Paduano 1988, 313-314). Sul
confronto fra i drammi di Sofocle e di Seneca (canonico a partire dagli scritti teorici di
Giraldi Cinzio) cf., per limitarci all’ultima fase degli studi senecani, Thummer 1972 (con
discussione della bibliografia precedente), Boyle 1997, 92-102 e 2011, lv-lxx, Lefèvre
1981; Caviglia 1986; Paduano 1994, 248-266; Pötscher 1977; Töchterle 1994, 9-18.
6
Il testo di Seneca è sempre citato secondo l’edizione di Zwierlein 1986b.
7
Alla non breve sequenza di versi (vv. 37-52) che Edipo dedica a questo tema fa riscon-
tro, poco più avanti, il lunghissimo canto corale (vv. 111-205), che descrive la morte degli
animali, delle piante e degli uomini vittime della pestilenza, soffermandosi in particolare
sui sacrifici infausti che si succedono presso gli altari (vv. 133-144) e sullo spettacolo ter-
ribile degli Inferi che si riversano sulla terra (vv. 160-179).
«Come cangia fortuna ordine et stile» 141
8
Vv. 212-216: Cr. Responsa dubia sorte perplexa iacent. / Oe. Dubiam salutem qui dat
adflictis negat. / Cr. Ambage flexa Delphico mos est deo / arcana tegere. Oe. Fare, sit du-
bium licet: / ambigua soli noscere Oedipodae datur.
9
Sulla costruzione, sovraccarica di significato, del testo di questo e degli altri responsi
cf. Bettini 2009.
142 G. Guastella
Laio si rivolge a Edipo definendo se stesso pater inultus: è lui che deve
essere vendicato e che, fino a quando ciò non sarà avvenuto, provvederà a
tormentare il figlio in ogni modo. Di fronte a questo chiaro responso Edi-
po non può che commentare, come al solito in preda al terrore (659-664):
Oe. Et ossa et artus gelidus invasit tremor:
quidquid timebam facere fecisse arguor –
tori iugalis abnuit Merope nefas
sociata Polybo; sospes absolvit manus
Polybus meas: uterque defendit parens
caedem stuprumque. Quis locus culpae est super?
12
Emblematica la battuta di Creonte ai vv. 705-706: Qui sceptra duro saevus imperio ge-
rit, / timet timentis: metus in auctorem redit.
13
In generale, sulla drastica riduzione della parte della tragedia in cui avviene l’accer-
tamento dei fatti cf. Thummer 1972, 194-195 (le dimensioni della riduzione presentate
da Thummer alle pp. 153-155 vanno corrette secondo quanto osservato da Graham 1977,
123-125 e 157-158).
144 G. Guastella
14
Cf. Guastella 2001, 9-22 e passim, Li Causi 2006.
15
Sul quale cf. Guastella 2001, 67-69 e 154 e Guastella 2010, 108 e n. 14.
16
Un’opportuna valutazione del significato di questi versi è proposta da Halter 1998, 83-
84, tramite il confronto con Soph. OT 1307-1310.
17
Cf. l’analoga espressione messa in bocca ad Edipo in Phoen. 171 (debitum tantum exi-
ge). Sull’assenza del lessico della ‘giustizia’ in Seneca cf. Guastella 2010, 98-99 e 108-111.
L’unico caso in cui compare con insistenza l’aggettivo iustus, -a, -um è la Phaedra (cf.
soprattutto i vv. 1197, 1222, 1239 e 1245), una tragedia i cui protagonisti, non a caso, non
presentano i tratti tipici dei vendicatori senecani.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 145
20
Questo punto è ben evidenziato da Poe — Parker 1983, 154-155.
21
Recitata nel 1551 e stampata per la prima volta a Venezia da Gabriele Giolito de’ Fer-
rari nel 1560 (l’edizione da cui cito, 52r).
22
L. Dolce, Ifigenia, prologo, vv. 45-60. Cf. anche il prologo I della Marianna, vv. 40-46
(dove si citano soltanto Sofonisba, Canace, Orbecche e Rosmonda). Cf. Cremante 1998,
287: «il canone pressoché definitivo che comprende, nell’ordine, gli esemplari del Trissi-
no, dell’Alamanni, del Giraldi, del Rucellai, dello Speroni e dell’Aretino (dall’elenco pro-
«Come cangia fortuna ordine et stile» 147
dotto più tardi nel primo Prologo della Marianna saranno esclusi l’Alamanni e l’Aretino,
morti entrambi nel 1556) […]».
23
Una fase, com’è noto, che rimase letteraria e non ebbe uno sbocco sulla scena se non
molto più tardi.
24
Cremante 1998, 281.
25
Cf. Guastella 2006, 20-21.
26
Per un paio di esempi cf. Neuschäfer 2005, 262-264 e 445-446.
27
Le Tragedie / di Seneca / Tradotte da M. / Lodovico Dolce […] / In Venetia, / Appresso
Gio. Battista / et Marchion Sessa F. (MDLX). L’Oedipus è alle pp. 122v-151v.
28
Della sua produzione tragica fanno parte: Thyeste (tratta da Seneca, 1543), Hecuba
(tratta da Euripide, 1543, ma certamente attraverso la traduzione erasmiana del 1506),
Didone (messa in scena da Pietro d’Armano nel carnevale del 1546), Giocasta (recitata
a Venezia, tratta dalle Phoenissae di Euripide, 1549, ma certamente attraverso la tradu-
zione dell’elvetico Rudolf Ambühl [1499-1578], latinamente Rudolphus Collinus, che la
148 G. Guastella
no allo Speroni, all’Aretino e agli ambienti teatrali della sua città29. Dolce
è molto fedele al testo senecano, che riduce in una forma poetica mista
di endecasillabi e settenari. Gli unici innesti che non hanno riscontro nel
testo di Seneca si riducono agli inevitabili allungamenti di alcune bat-
tute, richiesti dalla versificazione. Ci sono anche piccole incomprensioni
del testo, come pure qualche semplificazione (ad esempio l’eliminazione
di alcuni dettagli mitologici)30. Ma si tratta di minuzie poco significative,
che non meritano nemmeno di essere illustrate o discusse. Dolce si limi-
ta a presentare la tragedia senecana, grosso modo, com’è, senza dedicare
particolari sottolineature a elementi specifici.
Come mai la vicenda di Edipo non sembra accendere la fantasia
e l’interesse dei tragediografi interessati all’opera di Seneca? Probabil-
mente perché in questa tragedia manca proprio la figura di un eroe vio-
lento e smodato come Atreo. Le colpe più impressionanti di cui Edipo e
Giocasta sono stati protagonisti appartengono all’antefatto dell’azione
tragica, e la scoperta progressiva della loro reale natura non crea con-
flitti e vendette impressionanti, ma si risolve in gesti autopunitivi e au-
tolesionistici. L’accento non cade nemmeno sulle colpe del personaggio
di Edipo, la cui storia sembra piuttosto essere considerata nella cornice
di riflessioni moralistiche sul destino umano, come quelle che gli anape-
sti del Coro senecano inseriscono fra il racconto del nunzio e l’arrivo in
scena di Edipo accecato (980-994)31:
pubblicò con lo pseudonimo di Dorotheus Camillus), Ifigenia [in Aulide] (tratta da Eu-
ripide, 1551, anch’essa attraverso la traduzione erasmiana), Medea (tratta da Euripide,
1557, attraverso la traduzione di Dorotheus Camillus), Marianna (1565, recitata in casa
di Sebastiano Erizzo a cura del Burchiella [Antonio Molino] senza scenografia e senza
musica, e in seguito per due volte nel palazzo del Fondaco dei Turchi appartenente al
duca di Ferrara, stavolta con apparati e musica), Troiane (da Seneca, contaminato con
Euripide: rappresentata la prima volta il 21 marzo del 1566 dalla compagnia di Giovanni
de’ Martini, ancora col Burchiella, con musica di Claudio Merulo, e la seconda nel 1567).
Meno ricca la sua produzione comica: Il ragazzo (tratta dalla Casina, 1541), Il capita-
no (tratto dal Miles gloriosus, 1545), Il marito (tratto dall’Amphitruo, 1545), La Fabritia
(1549), Il ruffiano (parafrasi de La Piovana del Ruzante, 1551).
29
Aveva, fra l’altro, sposato un’attrice di nome Polonia (cf. Terpening 1997, 19). Sull’atti-
vità teatrale di Lodovico Dolce la principale opera di riferimento è oggi Neuschäfer 2004.
30
Tipico è il caso dei toponimi, che in questo tipo di volgarizzamenti vengono spesso
eliminati dai canti corali.
31
Sull’importanza di questo canto corale all’interno dell’Oedipus si sono soffermati so-
prattutto i critici che considerano l’opera come una vera e propria tragedia del destino:
cf. ad es. Thummer 1972, 180-182, Graham 1977, 143-145, Boyle 1997, 97-98 (poi ripreso
in Boyle 2011, lxxiv-lxxvi).
«Come cangia fortuna ordine et stile» 149
32
La traduzione del Dolce suona così: «Noi siamo veramente / Governati da i fati: /
Credete pur, che’l cielo / Ogni cosa qua giù regge e dispone. / Ne può pensier humano /
Mutar le fila dure, / Onde le tre sorelle / Tesson la nostra vita: / Tutto quel, che facciamo,
/ Vien di là suso, e serba / Lachesi il fier decreto / De la volubil rocca. / E’l primo giorno a
noi ci dà l’estremo: / Né muta Giove quello, / Che va correndo per le sue cagioni. / Vanne
il determinato / Ordine a tutti, senza prego alcuno. / Et a molti ritorna / Indarno haverne
tema. / Molti vennero a punto / Ad adempir il fato, / Mentre temero i fatti».
33
Da cui cito, 39r-v.
34
Cf. anche i versi finali dell’Hecuba, in cui il coro invita le prigioniere a ritornare nelle
loro tende, sopportando la schiavitù che le aspetta («Così comanda e vuole / Dura neces-
sità, che mal si fugge»), o quelli della Medea, in cui si dice che non è possibile prevede-
re le sventure che riserva il destino («Il decreto del cielo, a noi celato: / Onde a quel fin
n’adduce / Che dan le stelle, e la fortuna, e ’l fato»).
150 G. Guastella
35
Per restare ancora alla produzione originale di Dolce, il Coro chiude il Tieste ricordan-
do che un malvagio non può mai sfuggire alla punizione del cielo e chiude la Marianna
con un’esortazione a non abbandonarsi all’ira.
36
Cf. la chiusa delle Troiane: «Ecco di quanta altezza, / O superbi mortali, / A ch’estre-
ma bassezza / Rivolge la Fortuna i Regni humani; / E come rende vani / I pensier nostri.
Onde levate al cielo / L’intelletto, e la mente; / Che qua giù non si sente / Fin, che l’anima
lascia il fragil velo, / E morte scocca i velenosi strali; / Altro, che pene e mali». E quella
dell’Ifigenia: «A che con tanti affanni egri mortali, / Procacciate d’haver corone, e regni,
/ Se con subite poi roine e mali / Nebbia, e polvere son nostri disegni? / O letitie di noi
fugaci, e frali: / O altezza, chi non hai che ti sostegni: / E qui, dove, si prova e caldo e gelo,
/ Stato felice alcun non lassa il cielo».
37
Cf. Guastella 2001, 165-192.
38
Già nel Preface, Neville (cito da Newton 1927 [1581], vol. 1, 189) scrive: «Wherein [scil.
in questa tragedia] thou shalt see, a very expresse and lively Image of the inconstant chaun-
ge of fickle Fortune in the person of a Prince of passing Fame and Renown, midst whole
fluds of earthly blisse: by meare misfortune (nay rather by the deepe hidden secret Judge-
ments of God) piteously plunged in most extreame miseries». Alla fine del III atto (New-
ton 1581, vol. 1, 215-216) Neville rimpiazza il testo senecano con un nuovo canto corale,
tutto giocato nuovamente sul tema dello «specchio dei Principi» («See, see, the myserable
State of Prynces carefull lyfe», […] «Let Œdipus example bee of this unto you all, / A Mir-
rour meete, A Patern playne, of Princes carefull thrall»). Alexander Neville pubblicò la sua
traduzione nel 1563, e poi la rivide in occasione della sua ripubblicazione all’interno della
raccolta curata da Thomas Newton (1581): cf. Spearing 1912, 20-29, Spearing 1920, Smith
1978, 17-26 e Smith 1988, 205-211. La traduzione di Neville ebbe larga circolazione in am-
bito accademico, come ha confermato la recente scoperta (cf. Wiggins 2011) di un dramma
scolastico (A tragedy called Oedipus), databile all’ultimo lustro del XVI secolo, che ingloba
ampi brani proprio di questa traduzione. Per ulteriori informazioni sulla scoperta cf. il sito
<http://www.yale.edu/elizabethanclub/oedipus.html> [visto il 16.10.2011] (da cui si accede
anche alla consultazione del manoscritto, oggi conservato a Yale).
39
Cito da Newton 1927 [1581], vol. 1, 226. L’intervento del coro è preceduto da un distico con-
clusivo del racconto del nunzio che non ha un corrispettivo in Seneca («Beware betimes, by him
beware, I speake unto you all: / Learne Justice, truth, and feare of God by his unhappy fall»).
«Come cangia fortuna ordine et stile» 151
40
Sulle finalità della rielaborazione di questi temi nella traduzione di Neville cf. soprat-
tutto Kiefer 1978 e Winston 2006, 47-53. Fra l’altro, Neville inserisce nel coro senecano
anche spunti che sembrano provenire (non sappiamo attraverso quali mediazioni) da una
lettura del finale della tragedia sofoclea: «Regard thy latter day, / Thinke no man blest
before his ende. Advise thee well and stay. / Be sure his lyfe, and death, and all, be quight
exempt from mysery / Ere thou do once presume to say: this man is blest and happy».
41
È sufficiente qui rimandare al classico contributo di Doren 1922-1923.
42
Cf. supra, n. 28.
43
Lo ha mostrato molto bene Montorfani 2006, 733-739 (non aggiunge nulla di nuovo il
successivo intervento di Giazzon 2011, 24-28, che si limita a commentare più distesamen-
te i passi già segnalati da Montorfani): cf. anche Neuschäfer 2004, 262-264.
44
Cito dall’edizione veneziana del Giolito, 1560, 4r-v.
152 G. Guastella
Come nel caso della Didone (il precedente successo teatrale di Dol-
ce, del 1546, cui si fa qui riferimento), il triste destino di una Regina viene
presentato agli spettatori allo scopo di suscitare la loro pietà e come me-
mento di fronte alla volubilità della Fortuna. Alla fine del dramma viene
riproposto lo stesso tipo di riflessioni, convogliando stavolta l’attenzione
degli spettatori sulla figura di Edipo. Nella tragedia euripidea, che Dolce
stava rielaborando, le due ultime battute sono affidate rispettivamente a
Edipo e al Coro. Il primo, nell’atto di abbandonare per sempre la città di
Tebe, invita i concittadini a considerare la sua triste condizione di esilia-
to e la necessità, per i mortali, di sopportare il destino loro imposto dagli
dèi. Il coro poi conclude con tre versi di invocazione alla vittoria45. Nella
versione di Doroteo Camillo, il testo si presenta in questa forma46:
Oe. O patriae incliti cives,
Videtis, Oedipus ille,
Qui inclyta illa aenigmata cognovit, et maximus fuit vir,
Qui solus Sphingis devici sanguinariae vires.
Sed nunc ignominia affectus, miserabilis maxime, expellor a terra.
Sed quid haec defleo, et frustra lamentor?
Quae enim ex diis veniunt necessitates, mortalem existentem oportet ferre.
Cho. O mirifice venerabilis victoria, vitam meam occupes,
Neque desinas a coronando me.
45
Vv. 1758-1766: [Οἰ.] ὦ πάτρας κλεινῆς πολῖται, λεύσσετ᾽· Οἰδίπους ὅδε, / ὃς τὰ κλεί
ν᾽αἰνίγματ᾽ ἔγνω καὶ μέγιστος ἦν ἀνήρ, / ὃς μόνος Σφιγγὸς κατέσχον τῆς μιαιφόνου
κράτη, / νῦν ἄτιμος αὐτὸς οἰκτρὸς ἐξελαύνομαι χθονός. / ἀλλὰ γὰρ τί ταῦτα θρηνῶ
καὶ μάτην ὀδύρομαι; / τὰς γὰρ ἐκ θεῶν ἀνάγκας θνητὸν ὄντα δεῖ φέρειν. [Χο.] ὦ μέγα
σεμνὴ Νίκη, τὸν ἐμὸν / βίοτον κατέχοις / καὶ μὴ λήγοις στεφανοῦσα. Sul problema cri-
tico relativo a questi versi cf. infra, n. 82.
46
Cito da un’edizione del 1550, sul cui frontespizio si legge: Euripidis Tra- /gicorum
omnium prin- /cipis, […] / Tragoediae XVIII. Latine nunc / denuo editae, ac multis in /
locis castigatae, / Dorotheo Camillo / interprete […], Basileae (nel colofone si legge inve-
ce Bernae in Helvetiiis, Mathias Apiarius excudebat […] Anno MDL Mense Februario).
Nell’edizione non sono presenti indicazioni di pagina.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 153
47
Cf. Neuschäfer 2004, 270-271.
48
Abbiamo qui uno di quei casi che Braden 1985, 66-67. ha efficacemente descritto come
«an apparently instinctive Senecanizing of the Greek», che riadatta topoi correnti secon-
do forme che si trovano di preferenza codificate nei modelli tragici senecani. Nella stessa
luce, ma con l’aggiunta di una nota di possibile – anche se fatalistico – ottimismo ne-
gli ultimi versi, la vicenda di Edipo viene posta da Gascoigne e Kinwelmersh nella loro
versione della Jocasta presentata (come se fosse stata direttamente tradotta da Euripide)
sulla scena del Gray’s Inn nel 1566: «Example here, loe! take by Oedipus, / You kings and
princes in prosperitie, / And every one that is desirous / To sway the seate of worldlie
dignitie, / How fickle tis to trust in Fortunes whele: / For him whome now she hoyseth
up on hie, / If so he chaunce on any side to reele, / She hurles him downe in twinkling of
an eye: / And him againe, that grovleth nowe on ground, / And lieth lowe in dungeon of
dispaire, / Hir whirling wheele can heave up at a bounde, / And place aloft in stay of sta-
telie chaire. / As from the sunne the moone withdrawes hir face, / So might of man doth
yeelde dame Fortune place». Nell’Argument che Gascoigne aveva premesso alla tragedia,
Creonte ed Edipo vengono presentati, rispettivamente, come «the type [o, secondo un’al-
tra variante, «fygure»] of Tyranny» e «myrrour of misery»: «Fortunatus Infœlix». Il
tema viene ripreso, su per giù negli stessi termini, anche nei 40 versi dell’epilogo aggiunto
da Yelverton, che si chiude con un’esplicita esortazione a rinunciare ad aspirazioni troppo
alte. Sulla Jocasta cf. Prouty 1942, 143-188; Corti 1977; Johnson 1948, 224-264; Smith 1988,
217-224 e ora l’edizione commentata di Pigman III 2000, 59 ss.
154 G. Guastella
49
È lui stesso a dirlo: cf. Rossi 1586 (lettera dedicatoria «Hieroymo Scledo Viro Illu-
stri, ac dignissimo Olympicorum Academiae Principi», datata Valdanei idibus Octobris
MDXXCVI), f. A2r ss.
50
«[…] quantunque la spesa dell’apparato e di tutte le altre cose fatta da questi signori
[scil. gli Accademici Olimpici] rapisse gli animi di tanti forestieri alla contemplazione
della grandezza dei loro nobilissimi animi, il subieto antico non dilettò molto gli uditori
avvezzi ai costumi dei tempi più freschi […]» (Rossi 1590, +6 r-v).
51
Lo stesso Rossi, che pure insiste più volte sull’inadeguatezza ai gusti del tempo di un
dramma come quello di Sofocle, contrapponeva ad esso in modo sistematico proprio la
Sofonisba di Trissino, che considerava il massimo esempio della tragedia moderna.
52
Per fare solo uno fra i moltissimi esempi possibili, ricorderò la pagina iniziale del
Discorso over lettera di Giovambattista Giraldi Cinzio intorno al comporre delle come-
die e delle tragedie a Giulio Ponzio Ponzoni, in cui l’autore promette al destinatario di
utilizzare, secondo il desiderio di quest’ultimo, la Poetica di Aristotele per analizzare i
pregi del capolavoro sofocleo, attraverso un confronto con il corrispondente dramma di
Seneca (Guerrieri Crocetti 1973, 173). Sull’importanza della Poetica di Aristotele per la
valutazione cinquecentesca dell’Edipo re cf. Javitch 2001.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 155
53
Per un quadro chiaro ed efficace dell’affermarsi della Poetica nella cultura del Cinque-
cento cf. Conte 2002. L’autorevolezza del giudizio aristotelico faceva sì, fra l’altro, che
l’intreccio dell’Edipo re sofocleo venisse impiegato come termine di paragone per consi-
derare il valore di alcune tragedie dell’epoca (il caso più noto è quello della Didone, che
Giraldi Cinzio difese nella sua Lettera al Duca Ercole II d’Este: cf. Giraldi Cinzio 1543).
54
Non mi occuperò qui delle tragedie che rielaborano variamente spunti ricavati dall’in-
treccio sofocleo, dall’Alidoro (1568) di Gabriele Bombace al Torrismondo (1573) di Tor-
quato Tasso (cf. Fabrizio 1995, 181-182).
55
L’editio princeps di Sofocle apparve presso Aldo Manuzio nel 1502. Allo studio dettagliato
della diffusione, manoscritta e a stampa, dei drammi di Sofocle e delle loro traduzioni in latino
e in volgare durante il corso del XVI secolo ha dedicato vari contributi Élie Borza (cf. Borza
2003a; 2003b e soprattutto Borza 2007, che proprio all’edizione aldina riserva il I capitolo).
56
Cf. supra, 146-147.
57
Ho controllato il testo sul manoscritto Firenze, Biblioteca Nazionale, II iv 7, ff. 97r-
135v (da cui sono tratte anche le successive citazioni). Non mi occuperò in queste pagine
delle traduzioni in latino e in volgare dell’Edipo re (quest’ultima, in versi, pubblicata a
stampa a Firenze nel 1589) realizzate da Pietro Angeli, il Bargeo (1517-1596), perché non
ebbero la notorietà e l’influenza che invece esercitarono le versioni del Pazzi (sulle tra-
duzioni del Bargeo cf. Borza 2007, 157-165 e 238-250). Per lo stesso motivo non prendo in
considerazione nemmeno la traduzione del capolavoro sofocleo realizzata dal genovese
Girolamo Giustiniani (1560-1615), pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1590.
58
Ho visto il testo nel manoscritto Firenze, Biblioteca Nazionale, II iv 8, ff. 38v-72r (da
cui sono tratte anche le successive citazioni). Ai ff.3r-4r si trova la lettera a Clemente VII
(datata Roma, Idi di Agosto 1532), del figlio Giovanni, che dice di aver ritrovato le due
traduzioni di Edipo ed Elettra dopo la morte del padre. Sulle versioni del Pazzi cf. Borza
2007, 167-181 e 187-199.
156 G. Guastella
citazioni successive). Fu poi ristampato nello stesso anno a Venezia per i tipi di Domenico
Farri. A proposito delle scelte dell’Accademia Olimpica, Mazzoni 1998, 104 cita una let-
tera scritta nel 1584 a Giambattista Maganza da Luigi Groto (che a Vicenza avrebbe poi
fatto la parte di Edipo): «questa Tragedia è la Reina delle altre chiamata il Tiranno, uscita
dalle man di Sofocle, tolta da Aristotile per essempio delle ottime, tradotta prima dall’An-
guilara, poi da questo Signor Clarissimo che di gran lunga deve haver lasciato adietro il
primo traducitore, e in somma dignissima di comparire in questo sì famoso Teatro».
64
Cf. Fabrizio 1995, 178; Mazzoni 1998, 176 n. 145 e Zanin 2008, 69. Già in passato, quando
era membro dell’Accademia romana dello Sdegno, Anguillara aveva tentato senza fortuna
di cimentarsi con un testo teatrale antico, l’Anfitrione (1548): cf. Premoli 2005, 29-34.
65
Su questo aspetto cf. anche Paduano 1994, 266-270.
66
Il tema è introdotto già nella seconda scena del I atto, quando Edipo assegna ai due fi-
gli maschi la successione nei regni di Tebe e di Corinto: «Nel regno, ch’io posiedo, e ch’io
governo, / Che ’l mio sudor mi diede, e la Fortuna, / Fatto Eteocle ho te mio successore. /
E del regno paterno di Corintho / Tu sarai Polinice unico herede». Persino il ruolo delle
figlie Ismene e Antigone, rispettivamente fidanzate col re di Macedonia e col re di Tracia,
viene legato a prospettive dinastiche.
67
Lo spunto è ripreso da Sen. Oed. 341-342. Viene invece del tutto eliminata la parte re-
lativa all’esame delle viscere, che in Seneca rimandava in modo inquietante alla tortuosa
mostruosità dell’incesto di cui è protagonista Edipo. In questo si può forse riconoscere
uno dei tanti indizi di una sostanziale avversione, da parte degli scrittori dell’epoca, a
mettere in particolare rilievo il tema dell’unione fra Edipo e sua madre.
158 G. Guastella
Gli episodi che caratterizzano gli intrecci delle due tragedie di Sofo-
cle e di Seneca vengono condensati nello stretto spazio compreso fra la
seconda scena del II atto e il canto corale che chiude l’atto successivo. Ed
è proprio qui che il semicoro maschile sintetizza il senso della vicenda
di Edipo, secondo uno schema non molto diverso da quello che abbiamo
visto nei versi finali della Giocasta di Dolce:
Da quel, ch’al saggio nostro Edippo è occorso,
Si può veder, come il giudicio humano
Scorge poco lontano
Contra il voler de la malvagia sorte.
68
Le conclusioni che, qualche verso più avanti, il coro trae da questa visione delle sven-
ture patite dalla regina insistono ancora una volta sulla vanità dei progetti concepiti dai
potenti, per suggerire infine una prevedibile rassicurazione religiosa: «Co. h. Miser cia-
scun, che pone ogni sua spene / In questo mondo cieco, infimo, e rio. / Sol chi si fonda
in Dio, / Può dir d’havere un fin stabile, e fermo. / Co. d. Quel, che qua giù ne sembra il
sommo bene, / Si perde in un balen, s’un giusto e pio, / Che contra il suo desio / Peccò,
vediam cader misero e infermo».
«Come cangia fortuna ordine et stile» 159
69
Questi temi verranno ripresi anche all’inizio del canto corale che chiude il IV atto.
70
Come osserva Mazzoni 1998, 103, Giustiniani era «un professionista della penna im-
plicato nel commercio del teatro. Da lui esercitato a Roma aprendo una sala stabile dove,
fra il 1549 e il 1553, si rappresentavano a pagamento, su un palco abbellito da una son-
tuosa scena prospettiva realizzata dal pittore veneziano Battista Franco, volgarizzamenti
di commedie e tragedie in latino».
71
Su cui cf. Flashar 1991, 25-32, Vidal-Naquet 1981, 201-210 e soprattutto l’ampia ed
esauriente trattazione di Mazzoni 1998, 87-207.
72
Mazzoni 1998, 103. Cf. anche le dichiarazioni in questo senso dei testimoni dell’epoca,
riportate in Gallo 1973, xxxi, lxii, 36, 54.
73
Le musiche composte da Andrea Gabrieli per accompagnare il testo di quelli che in
Sofocle sono la parodo, il primo, il secondo e il quarto stasimo, sono state pubblicate da
Schrade 1960, 157-246 e poi nel XII volume dell’edizione nazionale delle opere del mu-
sicista (Pirrotta 1995).
74
Il progetto, riportato in un fascicolo compreso nel manoscritto Milano, Biblioteca Am-
brosiana, R. 123 sup., ff. 283r-298r, è stato pubblicato da Gallo, 1973, 3-25.
75
Cito da Gallo 1973, 5-8.
160 G. Guastella
Una visione del genere appare decisamente in linea con quanto ab-
biamo visto finora parlando sia di Dolce che di Anguillara, e può anche
essere considerata tipica del modo in cui si guardava al dramma di Edi-
po in questa fase della cultura europea. All’epoca i generi teatrali antichi
venivano proposti tanto alla lettura quanto sulla scena in una prospetti-
va moralistica ed esemplare, e i personaggi delle tragedie e delle comme-
die antiche venivano considerati come modelli capaci di permettere una
migliore valutazione dei vizi e delle virtù umane77. In un simile contesto
la figura di Edipo non poteva certo avere i tratti dell’eroe su cui si sof-
ferma volentieri la critica contemporanea: cioè a dire quelli dell’indivi-
duo smarrito nella ricerca labirintica della propria identità, che alla fine
si rivela avviluppata nella colpa vertiginosa dell’incesto. Come abbiamo
già visto a proposito delle riprese della versione senecana di questo epi-
sodio, nella storia di Edipo sembra che la cultura cinquecentesca abbia
visto più che altro uno dei molti esempi tragici dell’instabilità a cui la
Fortuna condanna la condizione dei re. Da questo punto di vista, proba-
bilmente gli uomini del tempo non dovevano considerare molto diverso
il modo in cui tanto Sofocle quanto Seneca avevano trattato la vicenda
di Edipo78.
76
Cf. anche le analoghe espressioni usate da Filippo Pigafetta (Gallo 1973, 57): «L’istoria
è piena di misericordia e colma di spavento e d’orrore […]; e nel riconoscersi questo in-
fortunio e egli esserne il micidiale che s’andava cercando, fassi il mutamento dello stato
felice regale nel più misero che si possa immaginare» etc.
77
Cf. Lurje 2004, 28-77. I presupposti di questa concezione della tragedia erano stati pro-
gressivamente sviluppati nel corso del Medioevo, a partire da conoscenze indirette del
teatro antico, come ha mostrato Kelly 1993.
78
Vidal-Naquet 1981, in part. 207-208, ha notato giustamente che l’accento della rappre-
sentazione vicentina cadeva soprattutto sul fasto regale dell’apparato e sul «carattere
regale dei personaggi», e che persino alcuni dettagli della tragedia senecana erano stati
insensibilmente trasferiti dalla tragedia senecana a quella sofoclea.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 161
79
Ugolini 1986 e Mattioli 1988 forniscono due rassegne molto parziali di questo dibattito.
80
Uso la formulazione di Niccolò Rossi (1589, 59). Sulla ‘canonizzazione’ dell’Edipo re
nel Cinquecento cf. Javitch 2001.
81
Cf. ad es. Denores 1586, 19-20: «[…] quelle favole con le quali è ritesciuta la rivolu-
zion di fortuna con la peripezia e con l’agnizione, sono riputate più maravigliose di tutte
le altre, che hanno solamente la rivoluzione di fortuna, e perciò è stimata da Aristotele
perfettissima la favola di Edippo tiranno, nella quale e l’una e l’altra e l’altra sono con
mirabile artificio unite e concatenate».
82
Lurje 2004, soprattutto 92-117.
162 G. Guastella
Finglass 2009, in part. 55-59). Per quanto riguarda i versi 1524-1530, il più deciso soste-
nitore della necessità di considerarli spurii, fra gli editori più recenti, è stato Dawe 1973,
266-273. Sull’analogo problema relativo all’autenticità dei vv. 1758-1763 delle Phoenissae
(citati supra, n. 45), cf. Mastronarde 1994, 642-643.
85
La versione di Bernardo Segni (131) in questo caso non sembra particolarmente vicina
al testo del Gabia: «Di Tebe o cari e degni cittadini, / Mirate un po’ quest’infelice Edippo,
/ Quel che fe’ chiari a noi gli oscuri dubbi, / E che infra gli altri fu tenuto uom saggio; / Lo
qual poggiando all’alto regno nostro / Non per setta civil, né per fortuna, / Or è venuto a sì
misera sorte. / Onde nessun mortal giammai beato / Sé faccia, o chiami altrui; se pria non
vede / Finiti i giorni suoi fuor d’ogni doglia». La conclusione di Anguillara (62v-63r) ci
propone invece una diversa lezione moralistica: «Quindi si può veder, che ’l sommo Dio /
Non solo dispon, che i volontarii eccessi / Condannin l’huomo al debito castigo: / Ma quei
peccati anchor, ch’alcun commette / Per ignoranza, e contra il suo volere, / Vuol, che con-
dannin l’huomo a penitenza; / E la debita pena ne riporti. / Sì che preghiam la maiestà di-
vina, / Ch’apra talmente a noi l’interno lume, / Che non ne siano i nostri eccessi ascosi».
164 G. Guastella
86
Che appunto per il suo carattere mesto veniva recitato senza l’accompagnamento del-
la musica, come testimonia lo stesso «chorago» dello spettacolo, Angelo Ingegneri, nel
suo trattato DELLA POESIA / rappresentativa / & del modo di rappresentare / le favole
sceniche. / […] In Ferrara, / Per Vittorio Baldini, Stampatore Camerale. MDXCVIII, p. 83
«[…] l’ultime parole, che chiudono la favola […] ordinariamente si sogliano dire dal solo
capo del choro alla distesa, con voce tuttavia un poco alta, & rimbombante. Et la ragione,
onde queste non si cantano, si è, che in quel punto le cose sono ridotte à tanta miseria,
ch’è venuto meno il canto, & il pianto, & ogni altra dimostratione delle passioni altrui».
Sull’abitudine di non musicare il commento del coro con cui si chiudevano le tragedie
cf. anche Pirrotta 1987, 45 e 49.