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SPUDASMATA 149

SPUDASMATA
Studien zur Klassischen Philologie und ihren Grenzgebieten
Begründet von Hildebrecht Hommel und Ernst Zinn
Herausgegeben von Gottfried Kiefner und Ulrich Köpf

Band 149
EDIPO CLASSICO E CONTEMPORANEO

2012

GEORG OLMS VERLAG HILDESHEIM · ZÜRICH · NEW YORK


EDIPO CLASSICO E CONTEMPORANEO

a cura di
Francesco Citti, Alessandro Iannucci

2012

GEORG OLMS VERLAG HILDESHEIM · ZÜRICH · NEW YORK


Gedruckt mit Unterstützung des Dipartimento di Beni Culturali,
Alma Mater Studiorum, Università di Bologna (Ravenna).

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Umschlagentwurf: Inga Günther, Hildesheim
Alle Rechte vorbehalten
Printed in Germany
© Georg Olms Verlag AG, Hildesheim 2012
www.olms.de
ISBN 978-3-487-14872-4
ISSN 0548-9705
INDICE

Francesco Citti – Alessandro Iannucci, Edipo classico


e contemporaneo: i piedi, la Sfinge e i dubbi del re . ...................... vii
Frederick Ahl, Coping with the canonical Oedipus ............................... 1
Guido Avezzù, Commiato da Edipo e da Sofocle . ................................. 31
Federico Condello, Edipo senza incesto o come le riscrit-
ture influenzano la critica ................................................................... 47
Lowell Edmunds, The edict of Oedipus (Soph. OT 216-275) ................ 63
Rita Degl’innocenti Pierini, Scenari romani per un mito
greco: l’Oedipus di Seneca ................................................................... 89
Paolo Mantovanelli, L’Edipo di Seneca, una tragedia
‘moderna’ ............................................................................................. 115
Gianni Guastella, «Come cangia fortuna ordine et stile»:
Edipo re nel teatro italiano del Cinquecento ................................. 137
Antonio Ziosi, The Senecan curse and the «discontents» of
the English Oedipus ............................................................................ 165
Maria Paola Funaioli, Edipo nel teatro francese del Sette-
cento ...................................................................................................... 179
Giorgio Ieranò, Tra erotismo e misticismo: Œdipe et le
Sphinx di Joséphin Péladan .............................................................. 195
Martina Treu, Tragicomic Oedipus ....................................................... 219
Gian Luca Tusini, Metamorfosi di Edipo nell’arte figurativa
tra Otto e Novecento ........................................................................... 235
Sebastiana Nobili, Pirandello e Gide: variazioni su Edipo . ............. 263
vi Indice

Andrés Pociña, Visiones de Edipo en el teatro español de


Posguerra .............................................................................................. 281
Marco Antonio Bazzocchi, Pasolini, Edipo e la parte na-
scosta del mito ..................................................................................... 301
Roberto Mario Danese, Edipo al Funerale delle rose: l’Edipo
re di Sofocle nel cinema di Toshio Matsumoto ............................... 309
Giacomo Manzoli, Celluloide e vegetali: appunti sulla rap-
presentazione cinematografica di Edipo e il suo complesso .......... 343
Andrea Rodighiero, La promessa del sangue: motivi edipici
in Incendies di Wajdi Mouawad ....................................................... 359
Edoardo Sanguineti, Due interventi su: «Riscrivere, rap-
presentare Edipo» ............................................................................... 385
Abbreviazioni bibliografiche ..................................................................... 393
Indice analitico ............................................................................................ 427
Gianni Guastella

«COME CANGIA FORTUNA ORDINE ET STILE»:


EDIPO RE NEL TEATRO ITALIANO DEL CINQUECENTO

0. Premessa
Nel lento processo di costruzione della tradizione classica il Cinque-
cento costituisce una fase di consolidamento, in cui un sempre maggior
numero di testi antichi rientra nel tessuto vitale della cultura occiden-
tale; cioè a dire in un circuito di conoscenze che non è più di pertinenza
esclusiva dei dotti, ma è accessibile a strati assai ampi della comunità
interessata al mondo della letteratura. In questa fase appare decisivo il
ruolo di mediazione culturale svolto da chi, primi fra tutti i volgarizza-
tori, rendeva i grandi classici del passato immediatamente accessibili a
un pubblico colto o popolare. Fra le forme di mediazione il teatro occu-
pa sicuramente una posizione di assoluto rilievo, con la sua capacità di
proporre a platee sempre più numerose e, per così dire, in forme diret-
te, alcuni fra i più grandi capolavori dell’antichità greco-romana, dalle
commedie di Plauto alle tragedie attiche del V secolo a. C. Accanto all’at-
tività dei volgarizzatori e dei più diretti protagonisti della vita teatrale
(attori, ‘registi’, committenti etc.) non bisogna dimenticare quella degli
editori, che avevano la capacità di divulgare sempre più rapidamente e
capillarmente la conoscenza dei classici antichi presso un ampio pubbli-
co di lettori.
Come ha mostrato assai bene vent’anni fa Hellmut Flashar, in que-
sta fase i grandi testi del teatro greco non rappresentano ancora un pun-
to di riferimento primario, e anzi restano tutto sommato estranei al gu-
sto prevalente del pubblico cinquecentesco. Se da un lato le opere volga-
rizzate di Plauto e, in misura assai minore, di Terenzio e di Seneca ritor-
138 G. Guastella

nano sulle scene e influenzano in modo determinante la prima costru-


zione dei generi comico e tragico moderni, dall’altro i capolavori greci
non entrano nella vita teatrale dell’epoca. La rappresentazione vicentina
(3 marzo 1585) dell’Edipo re di Sofocle, con cui venne inaugurato il Tea-
tro Olimpico del Palladio, fu, per usare appunto le parole di Flashar, «ein
singuläres Ereignis», che oltretutto rimase tale ancora per due secoli e
mezzo1. Sebbene si guardasse al capolavoro sofocleo con una venerazio-
ne che derivava in massima parte dal ruolo paradigmatico che ad esso
assegnava la Poetica di Aristotele, questo non ne faceva un dramma
adatto al gusto dell’epoca.
Nelle pagine che seguono cercherò di illustrare gli episodi più si-
gnificativi della modesta presenza che la vicenda di Edipo re, secondo le
versioni sofoclea e senecana, sembra avere nel teatro cinquecentesco.

1. Raccontare o interpretare la storia di Edipo


Pochi intrecci teatrali hanno avuto, come quello dell’Edipo re nella
cultura contemporanea, la sorte di essere utilizzati direttamente come
impalcatura sintetica su cui costruire complesse operazioni interpreta-
tive, di carattere soprattutto psicologico. Tanto che risulta di fatto pres-
soché impossibile, ogni volta che ci occupiamo di questa tragedia e della
sua tradizione, fare astrazione dalla funzione metamitologica, se così si
può dire, che la vicenda fermata da Sofocle nel suo capolavoro ha assun-
to nella cultura occidentale degli ultimi secoli. Sulle varianti di questo
racconto, dall’originario Edipo imprigionato nel meccanismo a orologe-
ria del proprio destino all’Edipo «ohne den Schicksalsbegriff» di Dürren-
matt e oltre, la cultura contemporanea ha potuto celebrare il trionfo (se
non, in alcuni casi, l’orgia) della propria intelligenza critica. Orientarsi
nella ragnatela di interpretazioni che avvolgono questo racconto è ormai
tanto difficile quanto vano, data la quantità di distinguo che si rendereb-
be necessaria per affrontare l’impresa. Chi studia la fortuna del mito su
cui si basa la tragedia sofoclea può forse più utilmente limitarsi a mettere
in chiaro il proprio modo di leggere le principali varianti da cui ha pre-
so le mosse il corso della tradizione. È quello che intendo fare prelimi-
narmente, soffermandomi soprattutto sulla versione senecana di questo

1
 Flashar 1991, 25.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 139

mito, che come è ovvio ha avuto un ruolo di fondamentale importanza


nel processo di mediazione che ha infine diffuso la conoscenza del capo-
lavoro sofocleo nel circuito più ampio della cultura cinquecentesca.

2. Edipo secondo Seneca


L’Edipo sofocleo è come prigioniero di un destino già inesorabil-
mente fissato in un testo che solo la voce degli oracoli è in grado di de-
cifrare. Nonostante i suoi sforzi, egli non riesce a collegare il tracciato
del percorso che sta compiendo alla mappa della vita che ha già vissuto2:
sulla base delle poche informazioni di cui dispone, egli procede contrap-
ponendo vanamente i fondamenti della propria esperienza al mistero che
solo lentamente arriverà ad apprendere. In passato, la sua perspicacia gli
aveva consentito di risolvere l’indovinello della Sfinge, astraendo dalla
condizione umana le nozioni necessarie per riconnetterla alla domanda
enigmatica proposta dal mostro. Nella sua esperienza successiva, invece,
Edipo non riesce più a mettere assieme correttamente le informazioni
che possiede: privo di un quadro completo del territorio su cui si muove,
non si rende conto di dove si trova, come gli dice ripetutamente Tiresia3.
Eppure la voce divina aveva dato, tanto a Laio quanto a suo figlio,
le istruzioni necessarie per comprendere, o se non altro per prendere la
direzione giusta. Su quella base Edipo, come Emanuele Tesauro farà dire
molti secoli più tardi (1661) al suo Tiresia (Edipo, V, sc. 2, vv. 166-170)
Dovea sempre temer ciò ch’era incerto.
Creder madre ogni moglie, e creder padre
anco un ladron, senza macchiar la mazza
di sconosciuto sangue entro alle selve;
ed arrischiarsi a marital legame4.

Ma Edipo avrebbe davvero potuto fare questo, dopo che suo padre
aveva già avviato il corso del destino, generando un figlio e con esso

2
 Riadatto qui i concetti «spazio odologico» e «spazio cartografico» che Janni 1984 pro-
pone, a tutt’altro proposito, per descrivere, rispettivamente, la dimensione rispetto alla
quale si orienta chi sceglie come punti di riferimento i luoghi che incontra sul proprio
percorso e quella rispetto alla quale si orienta chi immagina il percorso che deve fare os-
servando dall’alto un territorio disegnato su una mappa.
3
 Vv. 367 οὐδ᾽ ὁρᾶν ἵν᾽ εἶ κακοῦ e 413 κοὐ βλέπεις ἵν᾽ εἶ κακοῦ. Qui e altrove il testo so-
focleo è citato secondo l’edizione Lloyd-Jones — Wilson 1990a.
4
 Cito da Ossola 1987, 160.
140 G. Guastella

la necessità dell’assassinio di cui sarebbe stato vittima? In questo arti-


colarsi di eventi, tanto apparentemente improbabili quanto inevitabili
nella realtà, Edipo può solo ricostruire a posteriori quello che ha già fat-
to. La tragedia di Sofocle si muove fra la mal fondata sicurezza iniziale
dell’Edipo risolutore di enigmi e salvatore di Tebe e la sua disperazione
di fronte alla mappa in cui finalmente legge il tracciato del percorso or-
mai compiuto.
Rispetto al protagonista del dramma sofocleo, con il suo spavaldo
ottimismo iniziale, l’Edipo senecano è sin dal prologo bloccato da un at-
teggiamento di incertezza, paura ed orrore5 e da un invincibile presenti-
mento di essere il responsabile della sventura abbattutasi sulla città. Fra
i molti passi che si potrebbero citare per illustrare questo suo atteggia-
mento, a molti critici sono parsi giustamente esemplari i versi iniziali del
secondo atto (vv. 206-209), pronunciati poco prima che Creonte arrivi a
portare il responso dell’oracolo delfico:
Horrore quatior, fata quo vergant timens,
trepidumque gemino pectus affectu labat:
ubi laeta duris mixta in ambiguo iacent,
incertus animus scire cum cupiat timet6.

L’incertezza e la confusione del protagonista trovano riscontro nei


segnali di sconvolgimento che egli osserva nella natura che lo circonda e
nella città martoriata dalla pestilenza7. Da ogni parte si ammassano i ca-
daveri, confondendo i ruoli sociali, mescolando uomini e donne, giovani
e vecchi, padri e figli, matrimoni e funerali.
Nell’Oedipus il tentativo di conoscere, attraverso la parola divina, la
vera natura della contaminazione che ha portato la peste si scontra con

5
 In tutta la prima metà della tragedia ricorrono con insistenza termini che rimandano
a queste tre sfere, come è stato più volte sottolineato dalla critica (ad esempio da Para-
tore 1956, 114-116; Mastronarde 1970; Graham 1977, 57-67; Paduano 1988, 313-314). Sul
confronto fra i drammi di Sofocle e di Seneca (canonico a partire dagli scritti teorici di
Giraldi Cinzio) cf., per limitarci all’ultima fase degli studi senecani, Thummer 1972 (con
discussione della bibliografia precedente), Boyle 1997, 92-102 e 2011, lv-lxx, Lefèvre
1981; Caviglia 1986; Paduano 1994, 248-266; Pötscher 1977; Töchterle 1994, 9-18.
6
 Il testo di Seneca è sempre citato secondo l’edizione di Zwierlein 1986b.
7
 Alla non breve sequenza di versi (vv. 37-52) che Edipo dedica a questo tema fa riscon-
tro, poco più avanti, il lunghissimo canto corale (vv. 111-205), che descrive la morte degli
animali, delle piante e degli uomini vittime della pestilenza, soffermandosi in particolare
sui sacrifici infausti che si succedono presso gli altari (vv. 133-144) e sullo spettacolo ter-
ribile degli Inferi che si riversano sulla terra (vv. 160-179).
«Come cangia fortuna ordine et stile» 141

una nuova serie di messaggi tanto oscuri quanto spaventosi. Il contatto


con il mondo degli dèi e della divinazione apre un varco che per lun-
go tratto immerge spettatori e lettori in un tenebroso clima di mistero.
Mentre in Sofocle la comunicazione con gli dèi avviene solo attraverso
l’oracolo di Delfi e le dichiarazioni quasi estorte da Edipo a Tiresia, nel
dramma senecano abbiamo la successione di ben tre diversi momenti
divinatori. Lo stesso responso misterioso e incerto della Pizia (l’unico ad
avere un riscontro nella tragedia greca)8 è riferito con una sorta di cita-
zione ‘letterale’ in esametri dattilici. Come nello stile delfico, si tratta di
un responso enigmatico: bisogna allontanare l’hospes che si è macchiato
del delitto, perché non possa continuare a godere dei vantaggi che il suo
delitto gli ha procurato (vv. 236-238):
Nec tibi longa manent sceleratae gaudia caedis:
tecum bella geres, natis quoque bella relinques,
turpis maternos iterum revolutus in ortus9.

Mentre per il lettore risulta subito riconoscibile l’allusione al tema


dell’incesto, Edipo è incapace di ripetere l’impresa riuscitagli contro la
Sfinge, e anzi si lancia in una maledizione contro il colpevole della pe-
stilenza tebana, che si rivelerà carica di conseguenze nel corso della tra-
gedia (vv. 260-263):
Thalamis pudendis doleat et prole impia;
hic et parentem dextera perimat sua,
faciatque (num quid gravius optari potest?)
quidquid ego fugi.

Evocando quei thalami pudendi e quella proles impia cui la sacer-


dotessa di Apollo non aveva fatto alcun riferimento, è quasi l’inconscio
di Edipo a parlare, di fatto augurandogli di rifare quanto egli, senza sa-
perlo, ha già fatto. Laddove in Sofocle troviamo un finissimo gioco di
ironia tragica, quando Edipo dice che, per il fatto di occupare lo stesso
ruolo di Laio, ora andrà a caccia dell’assassino di lui ὡσπερεὶ τοὐμοῦ
πατρός (v. 264), in Seneca risulta sin troppo evidente il desiderio di fare

8
 Vv. 212-216: Cr. Responsa dubia sorte perplexa iacent. / Oe. Dubiam salutem qui dat
adflictis negat. / Cr. Ambage flexa Delphico mos est deo / arcana tegere. Oe. Fare, sit du-
bium licet: / ambigua soli noscere Oedipodae datur.
9
 Sulla costruzione, sovraccarica di significato, del testo di questo e degli altri responsi
cf. Bettini 2009.
142 G. Guastella

intendere al pubblico che Edipo sta lanciando una maledizione contro


se stesso10.
Nei successivi momenti divinatori tutto sembra decisamente orien-
tato verso la creazione di un clima disgustoso e agghiacciante. Nel rito
celebrato da Manto le viscere dell’animale sacrificato sono disposte in
un modo innaturale, che ancora una volta allude in maniera abbastanza
trasparente all’unione incestuosa di Edipo con la propria madre11. Infine,
l’intero terzo atto è occupato dal rito necromantico che richiama sulla
terra l’ombra rabbiosa di Laio, preceduta dall’interminabile processione
in cui sfilano Cerbero, le Erinni, il Furor e l’Horror, il Lutto, la Malat-
tia, la Vecchiaia, la Peste, gli antenati scellerati di Tebe (Tantalo, Agave e
Penteo). È Laio che indica apertamente nel nuovo re di Tebe il figlio che
l’ha ucciso per poi unirsi alla propria madre (vv. 640-646):
implicitum malum
magisque monstrum Sphinge perplexum sua.
Te, te cruenta sceptra qui dextra geris,
te pater inultus urbe cum tota petam
et mecum Erinyn pronubam thalami traham,
traham sonantis verbera, incestam domum
vertam et penates impio Marte obteram.

Laio si rivolge a Edipo definendo se stesso pater inultus: è lui che deve
essere vendicato e che, fino a quando ciò non sarà avvenuto, provvederà a
tormentare il figlio in ogni modo. Di fronte a questo chiaro responso Edi-
po non può che commentare, come al solito in preda al terrore (659-664):
Oe. Et ossa et artus gelidus invasit tremor:
quidquid timebam facere fecisse arguor –
tori iugalis abnuit Merope nefas
sociata Polybo; sospes absolvit manus
Polybus meas: uterque defendit parens
caedem stuprumque. Quis locus culpae est super?

A differenza di quanto accadeva in Sofocle, l’Edipo senecano mette


immediatamente in relazione l’oracolo che gli aveva predetto l’uccisione
del padre e l’incesto con quanto gli è stato appena riferito, ma altrettanto
immediatamente scaccia l’idea, facendo riferimento alle proprie certezze
10
 Sulla formulazione di questa maledizione, che tende a porre l’accento sull’incesto,
considerato nella tragedia senecana come il delitto più grande, cf. Thummer 1972, 172-
174; Graham 1977, 84-85; Lefèvre 1981, 256-257; Halter 1998, 107-110.
11
 Il tema è stato trattato nel modo più completo da Bettini 1984.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 143

e passando senza soluzione di continuità ad accusare Creonte, con una


rapidità eccessiva e drammaturgicamente assai poco efficace. Secondo
uno schema che è facile riscontrare anche nelle altre tragedie senecane,
alla scomposta uscita di un re furibondo Creonte oppone la retorica di
chi non vuole avere nulla a che fare con il regno e con la paura che ne
accompagna l’esercizio12.
Il resto della tragedia segue frettolosamente la trama sofoclea13. Lo
svelamento del passato di Edipo si concentra nel brevissimo IV atto (ap-
pena 117 versi), attraverso il dialogo col vecchio corinzio arrivato a por-
tare la notizia della morte di Polibo e attraverso l’interrogatorio di For-
bante. Venuto finalmente a conoscenza del proprio passato, con una tirata
tipicamente senecana Edipo invita tutti a colpirlo, e infine esorta se stesso
a compiere un’impresa degna dei delitti fin qui commessi (vv. 868-881):
Oed. Dehisce, tellus, tuque tenebrarum potens,
in Tartara ima, rector umbrarum, rape
retro reversas generis ac stirpis vices.
Congerite, cives, saxa in infandum caput,
mactate telis: me petat ferro parens,
me gnatus, in me coniuges arment manus
fratresque, et aeger populus ereptos rogis
iaculetur ignes. Saeculi crimen vagor,
odium deorum, iuris exitium sacri,
qua luce primum spiritus hausi rudes
iam morte dignus. Redde nunc animos pares,
nunc aliquid aude sceleribus dignum tuis.
I, perge, propero regiam gressu pete:
gratare matri liberis auctam domum.

Il V atto è occupato in massima parte dal racconto del nunzio, che


descrive l’autoaccecamento di Edipo, lasciando infine la scena all’ultimo
incontro fra il re e Giocasta: alla fine la regina si getta sulla spada che
ha messo in mano a Edipo, in modo da farsi trapassare il ventre che ha
generato i figli dell’incesto, e lasciando il figlio/marito nella disperata
convinzione di aver duplicato il precedente parricidio.

12
 Emblematica la battuta di Creonte ai vv. 705-706: Qui sceptra duro saevus imperio ge-
rit, / timet timentis: metus in auctorem redit.
13
 In generale, sulla drastica riduzione della parte della tragedia in cui avviene l’accer-
tamento dei fatti cf. Thummer 1972, 194-195 (le dimensioni della riduzione presentate
da Thummer alle pp. 153-155 vanno corrette secondo quanto osservato da Graham 1977,
123-125 e 157-158).
144 G. Guastella

I gesti di violenza che Edipo rivolge contro se stesso vengono de-


scritti dal nuntius come un’esplosione di ira e di furor, con cui l’infelice
cerca di contraccambiare adeguatamente i delitti del passato, secondo lo
schema della vendetta che caratterizza quasi tutte le tragedie di Seneca14.
Edipo usa il lessico tipico dei grandi vendicatori senecani15, quando in-
vita il proprio animus a compiere un delitto mai tentato prima e compie
il gesto di accecarsi con l’espressione di chi è in preda al furore (v. 960,
violentus audax vultus, iratus ferox). Subito dopo commenta, significa-
tivamente (v. 976):
iam iusta feci, debitas poenas tuli.

E poco più avanti, tornando in scena ormai cieco, ripeterà (998-999)16:


Bene habet, peractum est: iusta persolvi patri.
Iuvant tenebrae.

Sono gli atteggiamenti, le espressioni tipiche dei vendicatori sene-


cani, che alla fine dei loro delitti osservano, più o meno soddisfatti, di
aver finalmente ripagato l’offesa che avevano subito con una ritorsione
adeguata. C’è però, in questo caso, una sola, ma assai significativa dif-
ferenza: stavolta si parla di contraccambi iusta e di debitae poenae, un
lessico del tutto sconosciuto ai vendicatori senecani. Questa particolarità
lessicale corrisponde alla natura del personaggio di Edipo che Seneca ha
voluto portare sulla scena17.
Per valutare la fisionomia di questa figura tragica è utile metterla
in relazione con il tipico schema compositivo che si ritrova negli altri
drammi senecani. Com’è noto, di solito, nella fase di avvio di tali dram-
mi il protagonista – di norma un eroe negativo, furibondo per un torto
che ha subito in precedenza – si trova a dover superare le obiezioni di un
interlocutore dai tratti evanescenti, che sembra quasi un’estrapolazio-
ne drammaturgica finalizzata a dar voce ai dubbi interiori della figura

14
 Cf. Guastella 2001, 9-22 e passim, Li Causi 2006.
15
 Sul quale cf. Guastella 2001, 67-69 e 154 e Guastella 2010, 108 e n. 14.
16
 Un’opportuna valutazione del significato di questi versi è proposta da Halter 1998, 83-
84, tramite il confronto con Soph. OT 1307-1310.
17
 Cf. l’analoga espressione messa in bocca ad Edipo in Phoen. 171 (debitum tantum exi-
ge). Sull’assenza del lessico della ‘giustizia’ in Seneca cf. Guastella 2010, 98-99 e 108-111.
L’unico caso in cui compare con insistenza l’aggettivo iustus, -a, -um è la Phaedra (cf.
soprattutto i vv. 1197, 1222, 1239 e 1245), una tragedia i cui protagonisti, non a caso, non
presentano i tratti tipici dei vendicatori senecani.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 145

principale. Il confronto dura poco e termina regolarmente con il rinsal-


darsi dei convincimenti violenti del protagonista, che passa a realizzare
i propri propositi, finalizzando la sua vendetta a ottenere una ragionata
e spietata compensazione ad abundantiam dei torti subiti. Paradossal-
mente, l’eroe negativo senecano da un lato si mostra accecato da sen-
timenti esasperati e mal dominati, dall’altro esibisce una perversa luci-
dità nella precisione con cui porta a compimento il suo programma di
vendetta. Il delitto con cui si chiudono quasi tutte le tragedie di Seneca
viene realizzato tramite un contrappasso perfettamente bilanciato fra il
torto o i torti subiti e la loro punizione. Peraltro, i delitti efferati com-
piuti, spesso direttamente sulla scena, da chi si vendica sono assai più
efferati di quelli precedentemente subiti. Seneca è sempre molto attento
a fissare bene i termini del dare e del ricevere in questo perverso gioco
di reciprocità, e a evidenziare quasi puntigliosamente le corrispondenze
fra i singoli crimini.
Il protagonista dell’Oedipus appare decisamente estraneo a questo
schema tipico, e tutt’al più assume qualche tratto del vendicatore sene-
cano solo nel finale convulso della tragedia18. La cosa non stupisce, dato
che il delitto che va punito non è, in questo caso, un torto subito perso-
nalmente da Edipo, ma l’assassinio di Laio, che riguarda l’intera città e
la sua salute, e che l’eroe inconsapevole si propone di punire in quanto
sovrano di Tebe19. Per tutta la prima parte del dramma egli rimane in bili-
co fra la tentazione di esercitare attivamente le prerogative del suo ruolo
regale e il desiderio di fuggire. In questo Edipo somiglia piuttosto al Tie-
ste dell’omonima tragedia: una vittima che si è ormai fatta trascinare in
un inferno dal quale uscirà annientata. È solo quando prende consapevo-
lezza della propria disgrazia che l’eroe, vincolato anche dalle maledizioni
che ha inconsapevolmente scagliato contro se stesso, deve agire da ven-
dicatore del padre. La singolarità della sua vicenda di incestuoso finisce
per mescolare i ruoli che nelle altre tragedie sono attribuiti a due perso-
18
 In realtà, pur assumendosi il compito di vendicare l’uccisione di Laio, Edipo non mo-
stra mai i tratti del sovrano in preda all’ira; anche quando, a partire dal v. 668, dopo un
primo momento di terrore di fronte al responso dato a Creonte dall’ombra di Laio (vv.
659-660), egli passa ad accusare il cognato, Seneca non gli attribuisce i toni tipici dei suoi
grandi eroi negativi. Il sentimento prevalente di Edipo è sempre quello del dubbio e della
paura (cf. ad es. i vv. 764-775).
19
 Sulla centralità, nell’Oedipus senecano, di questo tema (su cui si innestano sia quello della
contaminazione che quello del parricidio) cf. le belle osservazioni di Konstan 1994, 12-13.
146 G. Guastella

naggi contrapposti, riunendo nella sua persona le funzioni del vendicato-


re e della vittima20. Solo quando Edipo individua in se stesso il colpevole
da punire scattano tutti i meccanismi di dosaggio della vendetta che sono
tipici dei progetti elaborati dai protagonisti senecani. Ma neanche adesso
si tratta di una vendetta ‘canonica’, perché in essa l’elemento della giusti-
zia svolge un ruolo che è sconosciuto ai grandiosi criminali della scena di
Seneca. È come se, riunendo in sé le funzioni di vendicatore e di punito,
Edipo, a differenza di eroi come Atreo e Medea, sapesse perfettamente
fino a che punto merita di subire la punizione che si infligge.

3. L’Oedipus di Seneca nel Cinquecento italiano


Com’è ben noto, sono le tragedie di Seneca a costituire in un primo
tempo il modello letterario su cui si costruisce la concezione del genere
tragico nella fase della sua rinascita moderna. Il percorso che porta dai
classici greci e romani alle tragedie cinquecentesche potremmo sinteti-
camente descriverlo con i versi del prologo – pronunciato proprio dalla
Tragedia – che si trova nell’edizione dell’Ifigenia di Lodovico Dolce21:
[…] E come su l’Ilisso
Stetti molt’anni; così a me non piacque
D’habitar sopra il Tebro. Hor sopra l’Arno
Volger mi fece il piede assai pomposa
Quel, che già pianse il fin di Sofonisba,
E quello, che d’Antigone e di Hemone
Rinovò la pietà, la fé, e l’amore,
E quell’altro dapoi, che estinse Orbecche,
E chi cantò lo sdegno di Rosmunda;
E chi con nuovo e non più visto esempio
Lo scelerato amor di Macareo,
Né men quell’alto ingegno, che fé degna
L’Horatia de l’orecchie del gran padre,
C’ha le chiavi del cielo e de l’inferno,
E l’anime di noi sopra la terra,
Sì come piace a lui, lega e discioglie22.

20
 Questo punto è ben evidenziato da Poe — Parker 1983, 154-155.
21
 Recitata nel 1551 e stampata per la prima volta a Venezia da Gabriele Giolito de’ Fer-
rari nel 1560 (l’edizione da cui cito, 52r).
22
 L. Dolce, Ifigenia, prologo, vv. 45-60. Cf. anche il prologo I della Marianna, vv. 40-46
(dove si citano soltanto Sofonisba, Canace, Orbecche e Rosmonda). Cf. Cremante 1998,
287: «il canone pressoché definitivo che comprende, nell’ordine, gli esemplari del Trissi-
no, dell’Alamanni, del Giraldi, del Rucellai, dello Speroni e dell’Aretino (dall’elenco pro-
«Come cangia fortuna ordine et stile» 147

Dalla prima tappa fiorentina, animata dagli intellettuali attivi at-


torno al circolo degli Orti Oricellari23, il genere tragico muove verso la
Ferrara di Giraldi Cinzio, con la sua fortunatissima Orbecche (1541), che
inaugura la vera stagione delle rappresentazioni di tragedie; da qui pro-
segue verso il Veneto di Speroni con la sua Canace e dell’Aretino con la
sua Orazia. Se con quest’ultima opera (1546) si giunge finalmente a «una
deliberata e programmatica sperimentazione anticlassicistica»24, la fase
giraldiana della scrittura tragica, che molto influenzò il seguito dell’in-
tero genere, porta i segni evidenti di una fortissima presenza di Seneca,
testimoniata ampiamente anche dal posto che all’autore latino Giraldi
Cinzio attribuì nei suoi scritti teorici sulla tragedia25.
In questa fase iniziale della produzione tragica la vicenda di Edi-
po non sembra costituire un punto di riferimento per i drammaturghi
dell’epoca. Se vogliamo parlare di un influsso dell’Oedipus senecano sul
teatro della prima metà del Cinquecento, non possiamo fare riferimen-
to tanto alla rielaborazione degli elementi tematici che stanno alla base
del dramma psicologico vissuto dal figlio parricida e incestuoso, quan-
to alla ripresa dei particolari più impressionanti delle scene divinatorie
(come l’apparizione del fantasma di Laio o i segni infausti del sacrificio
mostruoso celebrato da Manto); particolari che vanno a confluire in un
inesauribile e mille volte variato repertorio di motivi ricorrenti nella
produzione tragica del tempo26.
Il volgarizzamento di questa come di tutte le altre tragedie dello
scrittore di Cordova si deve proprio a Lodovico Dolce (1500-1568)27, il
prolifico autore veneziano, che fu anche drammaturgo in proprio28, vici-

dotto più tardi nel primo Prologo della Marianna saranno esclusi l’Alamanni e l’Aretino,
morti entrambi nel 1556) […]».
23
 Una fase, com’è noto, che rimase letteraria e non ebbe uno sbocco sulla scena se non
molto più tardi.
24
 Cremante 1998, 281.
25
 Cf. Guastella 2006, 20-21.
26
 Per un paio di esempi cf. Neuschäfer 2005, 262-264 e 445-446.
27
 Le Tragedie / di Seneca / Tradotte da M. / Lodovico Dolce […] / In Venetia, / Appresso
Gio. Battista / et Marchion Sessa F. (MDLX). L’Oedipus è alle pp. 122v-151v.
28
 Della sua produzione tragica fanno parte: Thyeste (tratta da Seneca, 1543), Hecuba
(tratta da Euripide, 1543, ma certamente attraverso la traduzione erasmiana del 1506),
Didone (messa in scena da Pietro d’Armano nel carnevale del 1546), Giocasta (recitata
a Venezia, tratta dalle Phoenissae di Euripide, 1549, ma certamente attraverso la tradu-
zione dell’elvetico Rudolf Ambühl [1499-1578], latinamente Rudolphus Collinus, che la
148 G. Guastella

no allo Speroni, all’Aretino e agli ambienti teatrali della sua città29. Dolce
è molto fedele al testo senecano, che riduce in una forma poetica mista
di endecasillabi e settenari. Gli unici innesti che non hanno riscontro nel
testo di Seneca si riducono agli inevitabili allungamenti di alcune bat-
tute, richiesti dalla versificazione. Ci sono anche piccole incomprensioni
del testo, come pure qualche semplificazione (ad esempio l’eliminazione
di alcuni dettagli mitologici)30. Ma si tratta di minuzie poco significative,
che non meritano nemmeno di essere illustrate o discusse. Dolce si limi-
ta a presentare la tragedia senecana, grosso modo, com’è, senza dedicare
particolari sottolineature a elementi specifici.
Come mai la vicenda di Edipo non sembra accendere la fantasia
e l’interesse dei tragediografi interessati all’opera di Seneca? Probabil-
mente perché in questa tragedia manca proprio la figura di un eroe vio-
lento e smodato come Atreo. Le colpe più impressionanti di cui Edipo e
Giocasta sono stati protagonisti appartengono all’antefatto dell’azione
tragica, e la scoperta progressiva della loro reale natura non crea con-
flitti e vendette impressionanti, ma si risolve in gesti autopunitivi e au-
tolesionistici. L’accento non cade nemmeno sulle colpe del personaggio
di Edipo, la cui storia sembra piuttosto essere considerata nella cornice
di riflessioni moralistiche sul destino umano, come quelle che gli anape-
sti del Coro senecano inseriscono fra il racconto del nunzio e l’arrivo in
scena di Edipo accecato (980-994)31:

pubblicò con lo pseudonimo di Dorotheus Camillus), Ifigenia [in Aulide] (tratta da Eu-
ripide, 1551, anch’essa attraverso la traduzione erasmiana), Medea (tratta da Euripide,
1557, attraverso la traduzione di Dorotheus Camillus), Marianna (1565, recitata in casa
di Sebastiano Erizzo a cura del Burchiella [Antonio Molino] senza scenografia e senza
musica, e in seguito per due volte nel palazzo del Fondaco dei Turchi appartenente al
duca di Ferrara, stavolta con apparati e musica), Troiane (da Seneca, contaminato con
Euripide: rappresentata la prima volta il 21 marzo del 1566 dalla compagnia di Giovanni
de’ Martini, ancora col Burchiella, con musica di Claudio Merulo, e la seconda nel 1567).
Meno ricca la sua produzione comica: Il ragazzo (tratta dalla Casina, 1541), Il capita-
no (tratto dal Miles gloriosus, 1545), Il marito (tratto dall’Amphitruo, 1545), La Fabritia
(1549), Il ruffiano (parafrasi de La Piovana del Ruzante, 1551).
29
 Aveva, fra l’altro, sposato un’attrice di nome Polonia (cf. Terpening 1997, 19). Sull’atti-
vità teatrale di Lodovico Dolce la principale opera di riferimento è oggi Neuschäfer 2004.
30
 Tipico è il caso dei toponimi, che in questo tipo di volgarizzamenti vengono spesso
eliminati dai canti corali.
31
 Sull’importanza di questo canto corale all’interno dell’Oedipus si sono soffermati so-
prattutto i critici che considerano l’opera come una vera e propria tragedia del destino:
cf. ad es. Thummer 1972, 180-182, Graham 1977, 143-145, Boyle 1997, 97-98 (poi ripreso
in Boyle 2011, lxxiv-lxxvi).
«Come cangia fortuna ordine et stile» 149

Chorus Fatis agimur: cedite fatis;


non sollicitae possunt curae
mutare rati stamina fusi.
Quidquid patimur mortale genus,
quidquid facimus venit ex alto,
servatque suae decreta colus
Lachesis dura revoluta manu.
Omnia certo tramite vadunt
primusque dies dedit extremum:
non illa deo vertisse licet,
quae nexa suis currunt causis.
It cuique ratus prece non ulla
mobilis ordo:
multis ipsum metuisse nocet,
multi ad fatum venere suum
dum fata timent32.

Un simile modo di leggere la sventura di Edipo rientra in un filone te-


matico ricorrente nelle battute corali con cui Dolce chiude i suoi drammi
originali, e che disegnano una sorta di ‘morale’ dell’azione tragica: l’inuti-
lità di ogni forma di ribellione al destino. Basterebbe considerare il madri-
gale che chiude la Didone (nella versione edita dal Giolito del 1560)33:
Coro Quel dì, che’l miser huomo
Veste qua giuso l’alma
Di questo corporal caduco velo,
Là su con lettre salde, e adamantine
È discritto il suo fine.
Però ai fati cedete
Voi, che felici, o sventurati sete:
Ch’ogni cosa mortal governa il Cielo34.

32
 La traduzione del Dolce suona così: «Noi siamo veramente / Governati da i fati: /
Credete pur, che’l cielo / Ogni cosa qua giù regge e dispone. / Ne può pensier humano /
Mutar le fila dure, / Onde le tre sorelle / Tesson la nostra vita: / Tutto quel, che facciamo,
/ Vien di là suso, e serba / Lachesi il fier decreto / De la volubil rocca. / E’l primo giorno a
noi ci dà l’estremo: / Né muta Giove quello, / Che va correndo per le sue cagioni. / Vanne
il determinato / Ordine a tutti, senza prego alcuno. / Et a molti ritorna / Indarno haverne
tema. / Molti vennero a punto / Ad adempir il fato, / Mentre temero i fatti».
33
 Da cui cito, 39r-v.
34
 Cf. anche i versi finali dell’Hecuba, in cui il coro invita le prigioniere a ritornare nelle
loro tende, sopportando la schiavitù che le aspetta («Così comanda e vuole / Dura neces-
sità, che mal si fugge»), o quelli della Medea, in cui si dice che non è possibile prevede-
re le sventure che riserva il destino («Il decreto del cielo, a noi celato: / Onde a quel fin
n’adduce / Che dan le stelle, e la fortuna, e ’l fato»).
150 G. Guastella

Questo tipo di ammonimento rientra in un campionario ricorrente


di topoi moralistici35, insieme alle riflessioni relative alla caducità degli
effimeri beni umani, primi fra tutti i regni e le ricchezze36. Poco più avan-
ti nel tempo, in una tradizione come quella inglese, in cui questo modo
di leggere i drammi di Seneca verrà sistematicamente riformulato nei
termini dello schema moralistico tipico dello «Specchio dei Principi»37,
la tragedia di Edipo non a caso viene esplicitamente indicata come il
caso esemplare della rovina a cui la Fortuna sottopone Re e sovrani.
Proprio traducendo il coro dell’Oedipus che abbiamo citato poco sopra,
Alexander Neville38 amplierà significativamente il dettato dell’originale,
modificandolo appunto in questa direzione39:

35
 Per restare ancora alla produzione originale di Dolce, il Coro chiude il Tieste ricordan-
do che un malvagio non può mai sfuggire alla punizione del cielo e chiude la Marianna
con un’esortazione a non abbandonarsi all’ira.
36
 Cf. la chiusa delle Troiane: «Ecco di quanta altezza, / O superbi mortali, / A ch’estre-
ma bassezza / Rivolge la Fortuna i Regni humani; / E come rende vani / I pensier nostri.
Onde levate al cielo / L’intelletto, e la mente; / Che qua giù non si sente / Fin, che l’anima
lascia il fragil velo, / E morte scocca i velenosi strali; / Altro, che pene e mali». E quella
dell’Ifigenia: «A che con tanti affanni egri mortali, / Procacciate d’haver corone, e regni,
/ Se con subite poi roine e mali / Nebbia, e polvere son nostri disegni? / O letitie di noi
fugaci, e frali: / O altezza, chi non hai che ti sostegni: / E qui, dove, si prova e caldo e gelo,
/ Stato felice alcun non lassa il cielo».
37
 Cf. Guastella 2001, 165-192.
38
 Già nel Preface, Neville (cito da Newton 1927 [1581], vol. 1, 189) scrive: «Wherein [scil.
in questa tragedia] thou shalt see, a very expresse and lively Image of the inconstant chaun-
ge of fickle Fortune in the person of a Prince of passing Fame and Renown, midst whole
fluds of earthly blisse: by meare misfortune (nay rather by the deepe hidden secret Judge-
ments of God) piteously plunged in most extreame miseries». Alla fine del III atto (New-
ton 1581, vol. 1, 215-216) Neville rimpiazza il testo senecano con un nuovo canto corale,
tutto giocato nuovamente sul tema dello «specchio dei Principi» («See, see, the myserable
State of Prynces carefull lyfe», […] «Let Œdipus example bee of this unto you all, / A Mir-
rour meete, A Patern playne, of Princes carefull thrall»). Alexander Neville pubblicò la sua
traduzione nel 1563, e poi la rivide in occasione della sua ripubblicazione all’interno della
raccolta curata da Thomas Newton (1581): cf. Spearing 1912, 20-29, Spearing 1920, Smith
1978, 17-26 e Smith 1988, 205-211. La traduzione di Neville ebbe larga circolazione in am-
bito accademico, come ha confermato la recente scoperta (cf. Wiggins 2011) di un dramma
scolastico (A tragedy called Oedipus), databile all’ultimo lustro del XVI secolo, che ingloba
ampi brani proprio di questa traduzione. Per ulteriori informazioni sulla scoperta cf. il sito
<http://www.yale.edu/elizabethanclub/oedipus.html> [visto il 16.10.2011] (da cui si accede
anche alla consultazione del manoscritto, oggi conservato a Yale).
39
 Cito da Newton 1927 [1581], vol. 1, 226. L’intervento del coro è preceduto da un distico con-
clusivo del racconto del nunzio che non ha un corrispettivo in Seneca («Beware betimes, by him
beware, I speake unto you all: / Learne Justice, truth, and feare of God by his unhappy fall»).
«Come cangia fortuna ordine et stile» 151

Mans lyfe with tumbling fatal course of fortunes wheele is rowld,


To it give place, for it doth run all swiftly uncontrowld.
And Cares and teares are spent in vayn, for it cannot be stayed,
Syth hie decree of heavenly powers perforce must be obayed40.

L’inevitabilità del destino prende qui le classiche forme medievali


della Fortuna che gira la sua ruota inarrestabile, secondo uno schema
che, come è noto, ha le sue radici nelle riflessioni boeziane sul tema della
vanità della ricchezza e del potere41.
Ovviamente si tratta solo di una delle interpretazioni cui all’epoca
poteva andare incontro un mito come quello di Edipo, nel momento in
cui veniva proposto a un pubblico ampio. Ma che anche Dolce volesse
presentare la figura del sovrano di Tebe in questa luce, possiamo vederlo
piuttosto bene se prendiamo in considerazione la Giocasta, tragedia che
Dolce aveva ricavato dalla versione latina di Dorotheus Camillus (cioè
l’elvetico Rudolf Ambühl)42 delle Phoenissae euripidee. Il dramma sem-
bra inizialmente impostato in modo da concentrare l’attenzione sulla fi-
gura della regina dolente; ed è stato integrato con spunti sostanziosi trat-
ti proprio dall’Oedipus di Seneca, in particolare nelle scene di sacrificio
dell’atto terzo43. Il prologo («recitato da un fanciullo») presenta appunto
la tradizionale prospettiva moralistica44:
Debito officio è d’huom, che non sia privo
D’humanitade, ond’ei riceve il nome,
Haver pietà de le miserie altrui:
Che chi si duol de gli accidenti humani,
Con che sovente alcun Fortuna afflige,
Conosce ben, che quelli, e maggior mali
Avenir ponno similmente a lui:
Ond’ei per tempo s’apparecchia et arma
A sostener ciò che destina il cielo.

40
 Sulle finalità della rielaborazione di questi temi nella traduzione di Neville cf. soprat-
tutto Kiefer 1978 e Winston 2006, 47-53. Fra l’altro, Neville inserisce nel coro senecano
anche spunti che sembrano provenire (non sappiamo attraverso quali mediazioni) da una
lettura del finale della tragedia sofoclea: «Regard thy latter day, / Thinke no man blest
before his ende. Advise thee well and stay. / Be sure his lyfe, and death, and all, be quight
exempt from mysery / Ere thou do once presume to say: this man is blest and happy».
41
 È sufficiente qui rimandare al classico contributo di Doren 1922-1923.
42
 Cf. supra, n. 28.
43
 Lo ha mostrato molto bene Montorfani 2006, 733-739 (non aggiunge nulla di nuovo il
successivo intervento di Giazzon 2011, 24-28, che si limita a commentare più distesamen-
te i passi già segnalati da Montorfani): cf. anche Neuschäfer 2004, 262-264.
44
 Cito dall’edizione veneziana del Giolito, 1560, 4r-v.
152 G. Guastella

E tanto più nel suo dolor conforto


Prende costui; quant’ha veduto, o letto
Alcun, che più felice era nel mondo,
Esser nel fine a gran miserie posto.
Onde se punto a lagrimar v’indusse
Il mal gradito amor di quella Donna,
Che tradita da Enea se stessa uccise:
Hor non chiudete a la pietade il core;
Che sete per veder su questa scena
L’infelice Reina de’ Thebani.

Come nel caso della Didone (il precedente successo teatrale di Dol-
ce, del 1546, cui si fa qui riferimento), il triste destino di una Regina viene
presentato agli spettatori allo scopo di suscitare la loro pietà e come me-
mento di fronte alla volubilità della Fortuna. Alla fine del dramma viene
riproposto lo stesso tipo di riflessioni, convogliando stavolta l’attenzione
degli spettatori sulla figura di Edipo. Nella tragedia euripidea, che Dolce
stava rielaborando, le due ultime battute sono affidate rispettivamente a
Edipo e al Coro. Il primo, nell’atto di abbandonare per sempre la città di
Tebe, invita i concittadini a considerare la sua triste condizione di esilia-
to e la necessità, per i mortali, di sopportare il destino loro imposto dagli
dèi. Il coro poi conclude con tre versi di invocazione alla vittoria45. Nella
versione di Doroteo Camillo, il testo si presenta in questa forma46:
Oe. O patriae incliti cives,
Videtis, Oedipus ille,
Qui inclyta illa aenigmata cognovit, et maximus fuit vir,
Qui solus Sphingis devici sanguinariae vires.
Sed nunc ignominia affectus, miserabilis maxime, expellor a terra.
Sed quid haec defleo, et frustra lamentor?
Quae enim ex diis veniunt necessitates, mortalem existentem oportet ferre.
Cho. O mirifice venerabilis victoria, vitam meam occupes,
Neque desinas a coronando me.

45
 Vv. 1758-1766: [Οἰ.] ὦ πάτρας κλεινῆς πολῖται, λεύσσετ᾽· Οἰδίπους ὅδε, / ὃς τὰ κλεί­
ν᾽αἰνίγματ᾽ ἔγνω καὶ μέγιστος ἦν ἀνήρ, / ὃς μόνος Σφιγγὸς κατέσχον τῆς μιαιφόνου
κράτη, / νῦν ἄτιμος αὐτὸς οἰκτρὸς ἐξελαύνομαι χθονός. / ἀλλὰ γὰρ τί ταῦτα θρηνῶ
καὶ μάτην ὀδύρομαι; / τὰς γὰρ ἐκ θεῶν ἀνάγκας θνητὸν ὄντα δεῖ φέρειν. [Χο.] ὦ μέγα
σεμνὴ Νίκη, τὸν ἐμὸν / βίοτον κατέχοις / καὶ μὴ λήγοις στεφανοῦσα. Sul problema cri-
tico relativo a questi versi cf. infra, n. 82.
46
 Cito da un’edizione del 1550, sul cui frontespizio si legge: Euripidis Tra- /gicorum
omnium prin- /cipis, […] / Tragoediae XVIII. Latine nunc / denuo editae, ac multis in /
locis castigatae, / Dorotheo Camillo / interprete […], Basileae (nel colofone si legge inve-
ce Bernae in Helvetiiis, Mathias Apiarius excudebat […] Anno MDL Mense Februario).
Nell’edizione non sono presenti indicazioni di pagina.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 153

Dolce cancella i due ultimi versi, e trasferisce la battuta di Edipo al


madrigale finale, con cui il Coro chiude tutte le sue tragedie. Il messag-
gio è ancora una volta quello di accettare il proprio destino e di non fare
mai affidamento su una condizione felice47:
Choro Con l’essempio d’Edippo
Impari ognun, che regge,
Come cangia fortuna ordine et stile:
Tal, che ’l basso et humile
Siede in alto sovente;
Et colui, che superbo
Hebbe già signoria di molta gente,
Spesso si trova in stato aspro et acerbo.
Onde, sì come di splendor al Sole
Cede la bianca Luna;
Così ingegno e virtù cede a Fortuna.
Dolce sembra voler decisamente rubricare la vicenda di Edipo come
un tipico esempio del cambiamento di fortuna a cui è esposta la condi­
zio­ne dei sovrani48. Come vedremo, proprio questa è stata l’ottica in cui
anche il capolavoro sofocleo veniva con ogni probabilità considerato
nella cultura italiana del Cinquecento.

47
 Cf. Neuschäfer 2004, 270-271.
48
 Abbiamo qui uno di quei casi che Braden 1985, 66-67. ha efficacemente descritto come
«an apparently instinctive Senecanizing of the Greek», che riadatta topoi correnti secon-
do forme che si trovano di preferenza codificate nei modelli tragici senecani. Nella stessa
luce, ma con l’aggiunta di una nota di possibile – anche se fatalistico – ottimismo ne-
gli ultimi versi, la vicenda di Edipo viene posta da Gascoigne e Kinwelmersh nella loro
versione della Jocasta presentata (come se fosse stata direttamente tradotta da Euripide)
sulla scena del Gray’s Inn nel 1566: «Example here, loe! take by Oedipus, / You kings and
princes in prosperitie, / And every one that is desirous / To sway the seate of worldlie
dignitie, / How fickle tis to trust in Fortunes whele: / For him whome now she hoyseth
up on hie, / If so he chaunce on any side to reele, / She hurles him downe in twinkling of
an eye: / And him againe, that grovleth nowe on ground, / And lieth lowe in dungeon of
dispaire, / Hir whirling wheele can heave up at a bounde, / And place aloft in stay of sta-
telie chaire. / As from the sunne the moone withdrawes hir face, / So might of man doth
yeelde dame Fortune place». Nell’Argument che Gascoigne aveva premesso alla tragedia,
Creonte ed Edipo vengono presentati, rispettivamente, come «the type [o, secondo un’al-
tra variante, «fygure»] of Tyranny» e «myrrour of misery»: «Fortunatus Infœlix». Il
tema viene ripreso, su per giù negli stessi termini, anche nei 40 versi dell’epilogo aggiunto
da Yelverton, che si chiude con un’esplicita esortazione a rinunciare ad aspirazioni troppo
alte. Sulla Jocasta cf. Prouty 1942, 143-188; Corti 1977; Johnson 1948, 224-264; Smith 1988,
217-224 e ora l’edizione commentata di Pigman III 2000, 59 ss.
154 G. Guastella

4. L’Edipo re di Sofocle nel teatro italiano del Cinquecento


Rispetto all’Oedipus senecano il capolavoro sofocleo gode nel corso
del Cinquecento di una assai più grande considerazione, ed è regolar-
mente oggetto di discussione nella trattatistica relativa al genere tragico.
Ma l’attenzione dedicata ad esso dai teorici non sembra aver comporta-
to un accrescimento dell’interesse ‘teatrale’ per l’opera di Sofocle. Come
ho detto all’inizio, quello di Vicenza fu un episodio isolato, e a quanto
pare neanche tanto fortunato nella scelta del dramma da rappresentare.
Persino Niccolò dei Rossi, che in quell’occasione recitò la parte del sa-
cerdote di Giove49, risconosce che lo spettacolo fu accolto senza alcun
entusiasmo dal pubblico50. In effetti, una simile operazione ‘ellenizzante’
e ‘antiquaria’ era azzardata per l’epoca, e difficilmente avrebbe potuto
essere tentata in un ambiente diverso da Vicenza, che venerava fra i pro-
pri antenati culturali il primo tragediografo italiano, Gian Giorgio Trissi-
no51. Altrove il teatro tragico era rimasto troppo a lungo sintonizzato su
una prospettiva che prediligeva modelli piuttosto lontani da quelli, cari
al Trissino, della tradizione greca. Ci sarebbero voluti ancora un paio di
secoli almeno prima che i capolavori ateniesi del V secolo rientrassero
stabilmente nell’orizzonte del gusto moderno. La fortuna dell’Edipo re di
Sofocle nell’universo del teatro cinquecentesco rimaneva così al di sotto
della sua reputazione di massima tragedia dell’antichità52, accreditata so-
prattutto in quella Poetica di Aristotele che era divenuta, a partire dalla

49
 È lui stesso a dirlo: cf. Rossi 1586 (lettera dedicatoria «Hieroymo Scledo Viro Illu-
stri, ac dignissimo Olympicorum Academiae Principi», datata Valdanei idibus Octobris
MDXXCVI), f. A2r ss.
50
 «[…] quantunque la spesa dell’apparato e di tutte le altre cose fatta da questi signori
[scil. gli Accademici Olimpici] rapisse gli animi di tanti forestieri alla contemplazione
della grandezza dei loro nobilissimi animi, il subieto antico non dilettò molto gli uditori
avvezzi ai costumi dei tempi più freschi […]» (Rossi 1590, +6 r-v).
51
 Lo stesso Rossi, che pure insiste più volte sull’inadeguatezza ai gusti del tempo di un
dramma come quello di Sofocle, contrapponeva ad esso in modo sistematico proprio la
Sofonisba di Trissino, che considerava il massimo esempio della tragedia moderna.
52
 Per fare solo uno fra i moltissimi esempi possibili, ricorderò la pagina iniziale del
Discorso over lettera di Giovambattista Giraldi Cinzio intorno al comporre delle come-
die e delle tragedie a Giulio Ponzio Ponzoni, in cui l’autore promette al destinatario di
utilizzare, secondo il desiderio di quest’ultimo, la Poetica di Aristotele per analizzare i
pregi del capolavoro sofocleo, attraverso un confronto con il corrispondente dramma di
Seneca (Guerrieri Crocetti 1973, 173). Sull’importanza della Poetica di Aristotele per la
valutazione cinquecentesca dell’Edipo re cf. Javitch 2001.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 155

metà del XVI secolo, il principale punto di riferimento della discussione


sui generi teatrali53.
Le tappe principali della diffusione del dramma sofocleo54 al di fuori
della cerchia dei dotti che potevano leggerne l’opera nel testo origina-
le55 sono ben note, e disegnano un percorso analogo a quello descritto
dalla Tragedia nel già citato prologo dell’Ifigenia di Dolce56: un percorso
che, dopo un avvio fiorentino, si snoda soprattutto in area veneta. Il pri-
mo volgarizzamento poetico di cui si ha notizia è quello che Alessandro
Pazzi de’ Medici (1483-1530) avrebbe realizzato intorno al 1526. Pazzi si
era molto impegnato nello studio della tragedia greca, e aveva tentato
di riprodurla in una forma originale, scegliendo fra l’altro, tanto per le
sue traduzioni dell’Edipo di Sofocle, dell’Ifigenia in Tauride e del Ciclo-
pe euripidei quanto per la sua Didone, un’insolita forma di verso, il do-
decasillabo, che com’è noto spiacque al pubblico dell’epoca. La versione
dell’Edipo rimase in forma manoscritta57, e così pure la sua traduzione
latina in versi della stessa opera58. Si è ipotizzato che proprio basando-

53
 Per un quadro chiaro ed efficace dell’affermarsi della Poetica nella cultura del Cinque-
cento cf. Conte 2002. L’autorevolezza del giudizio aristotelico faceva sì, fra l’altro, che
l’intreccio dell’Edipo re sofocleo venisse impiegato come termine di paragone per consi-
derare il valore di alcune tragedie dell’epoca (il caso più noto è quello della Didone, che
Giraldi Cinzio difese nella sua Lettera al Duca Ercole II d’Este: cf. Giraldi Cinzio 1543).
54
 Non mi occuperò qui delle tragedie che rielaborano variamente spunti ricavati dall’in-
treccio sofocleo, dall’Alidoro (1568) di Gabriele Bombace al Torrismondo (1573) di Tor-
quato Tasso (cf. Fabrizio 1995, 181-182).
55
 L’editio princeps di Sofocle apparve presso Aldo Manuzio nel 1502. Allo studio dettagliato
della diffusione, manoscritta e a stampa, dei drammi di Sofocle e delle loro traduzioni in latino
e in volgare durante il corso del XVI secolo ha dedicato vari contributi Élie Borza (cf. Borza
2003a; 2003b e soprattutto Borza 2007, che proprio all’edizione aldina riserva il I capitolo).
56
 Cf. supra, 146-147.
57
 Ho controllato il testo sul manoscritto Firenze, Biblioteca Nazionale, II iv 7, ff. 97r-
135v (da cui sono tratte anche le successive citazioni). Non mi occuperò in queste pagine
delle traduzioni in latino e in volgare dell’Edipo re (quest’ultima, in versi, pubblicata a
stampa a Firenze nel 1589) realizzate da Pietro Angeli, il Bargeo (1517-1596), perché non
ebbero la notorietà e l’influenza che invece esercitarono le versioni del Pazzi (sulle tra-
duzioni del Bargeo cf. Borza 2007, 157-165 e 238-250). Per lo stesso motivo non prendo in
considerazione nemmeno la traduzione del capolavoro sofocleo realizzata dal genovese
Girolamo Giustiniani (1560-1615), pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1590.
58
 Ho visto il testo nel manoscritto Firenze, Biblioteca Nazionale, II iv 8, ff. 38v-72r (da
cui sono tratte anche le successive citazioni). Ai ff.3r-4r si trova la lettera a Clemente VII
(datata Roma, Idi di Agosto 1532), del figlio Giovanni, che dice di aver ritrovato le due
traduzioni di Edipo ed Elettra dopo la morte del padre. Sulle versioni del Pazzi cf. Borza
2007, 167-181 e 187-199.
156 G. Guastella

si su questa versione latina potesse aver composto il proprio volgariz-


zamento (Tragedia dello Edippo il principe) lo storico Bernardo Segni
(1504-1558), che nel 1551 dedicò la propria fatica a Cosimo de’ Medici;
ma è difficile capire se ci sia davvero un rapporto diretto fra l’Edippo di
Segni e la traduzione del Pazzi59.
La più nota e diffusa versione latina di tutte le tragedie di Sofocle fu
quella del veronese Giovan Battista Gabia, edita a Venezia nel 154360. Di-
venuta presto il testo di riferimento per la lettura della tragedia da parte
di un pubblico ampio61, è possibile che anche Segni l’abbia tenuta pre-
sente per la sua traduzione. Alla versione di Gabia sembrerebbe essersi
tenuto vicino l’autore del più fortunato fra i volgarizzamenti della trage-
dia sofoclea comparsi nel Cinquecento, il veneziano Orsatto Giustiniani
(1538-1603)62. La sua traduzione del capolavoro sofocleo non solo fu la
prima ad avere una sicura circolazione a stampa ma ebbe anche il privile-
gio di essere scelta per l’ambiziosa rappresentazione vicentina del 1585.
Quando si trovarono a dover decidere quale testo mettere in sce-
na per lo spettacolo di inaugurazione del teatro palladiano, gli Acca-
demici Olimpici preferirono la versione di Giustiniani a un altro testo
circolato in quegli anni in area veneta, che traeva anch’esso spunto dal
capolavoro sofocleo: l’Edippo di Giovanni Andrea dell’Anguillara (ca.
1517-ca.1572)63, che era forse stato messo in scena a Padova nel 1556 o
59
 Ho controllato il testo sull’autografo Firenze, Biblioteca Nazionale II i 98, cc. 101r- 142r
e sull’edizione L’Edipo principe tragedia di Sofocle già volgarizzata da Bernardo Segni e
data ora in luce per le fauste Nozze del Sig. Gino Capponi colla Signora Giulia Riccardi,
Firenze, appresso Niccolò Carli MDCCCXI. Anche su questo volgarizzamento cf. Borza
2007, 199-203, secondo il quale Segni avrebbe lavorato direttamente sul testo greco.
60
 Sophoclis / Tragoediae / omnes, nunc pri-/ mum Latinae ad verbum fa-/ctae, ac Scho-
liis qui-/busdam illustratae, / Ioanne Baptista Gabia / Veronensi interprete […] Venetiis
apud Io. Bapti-/stam a Burgofrancho Papiensem. / MDXLIII. Nato nei primi anni del
Cinquecento e scomparso intorno al 1590, Gabia occupò, fra il 1553 e il 1582, la cattedra
di greco presso l’Università di Roma (cf. Del Gallo 1998). Sulla traduzione di Gabia cf.
Borza 2007, 149-156.
61
 Per fare solo uno dei molti esempi possibili, Antonio Riccoboni, nella sua lettera al
podestà di Vicenza sullo spettacolo del 1585 (pubblicata in Gallo 1973, 39-51), cita in
un’occasione (p. 43) il testo sofocleo proprio nella versione latina di Gabia, con minime
variazioni (come occisus al posto di mortuus o nullus al posto di nemo).
62
 Della versione di Giustiniani (la fotoriproduzione dell’edizione a stampa si può tro-
vare in Pirrotta 1995, 111-138) esistono anche edizioni recenti (Schrade 1960, 83-156 e
Fiorese 1984).
63
 Edippo / Tragedia / di Gio. Andrea / Dell’Anguillara, / Allo Illustrissimo Signore, / Il
Sig. Hieronimo Foccari. / In Padova. / Per Lorenzo Pasquatto, / MDLXV (da cui traggo le
«Come cangia fortuna ordine et stile» 157

nel 156064. Questo Edippo è in realtà una riscrittura originale, di una


qualche ambizione letteraria, del celebre episodio mitico: attinge tanto a
Sofocle quanto a Seneca65, ma va molto al di là dei confini della vicen-
da dell’Edipo re, estendendosi, negli atti IV e V, anche alla lotta fratrici-
da dei Sette a Tebe. Dell’ampliamento cui è stato sottoposto l’arco della
trama risente anche la composizione del coro, che si trova suddiviso in
due semicori, composti rispettivamente da vecchi tebani e da «pudiche
figlie» della città.
Anguillara allarga fin dalle prime battute dell’opera i confini della
vicenda individuale dell’eroe tebano, trasformando il suo dramma in
una vicenda che ruota attorno alla questione della discendenza e com-
prende anche la lotta fra Eteocle e Polinice66. Gli elementi senecani ab-
bondano, come si vede ad esempio nella prima scena del II atto, dove il
sacrificio infausto viene raccontato sulla scena da Giocasta in modo tale
da rendere assai più manifesto di quanto avveniva nel testo senecano il
significato di ciascun particolare. Ad esempio, oltre alle chiare allusioni
all’autoaccecamento di Edipo, anche il moto della giovenca che va in-
contro al sacrificio – non a caso qui descritto proprio da Antigone – è
esplicitamente spiegato come predizione di una morte volontaria67.

citazioni successive). Fu poi ristampato nello stesso anno a Venezia per i tipi di Domenico
Farri. A proposito delle scelte dell’Accademia Olimpica, Mazzoni 1998, 104 cita una let-
tera scritta nel 1584 a Giambattista Maganza da Luigi Groto (che a Vicenza avrebbe poi
fatto la parte di Edipo): «questa Tragedia è la Reina delle altre chiamata il Tiranno, uscita
dalle man di Sofocle, tolta da Aristotile per essempio delle ottime, tradotta prima dall’An-
guilara, poi da questo Signor Clarissimo che di gran lunga deve haver lasciato adietro il
primo traducitore, e in somma dignissima di comparire in questo sì famoso Teatro».
64
 Cf. Fabrizio 1995, 178; Mazzoni 1998, 176 n. 145 e Zanin 2008, 69. Già in passato, quando
era membro dell’Accademia romana dello Sdegno, Anguillara aveva tentato senza fortuna
di cimentarsi con un testo teatrale antico, l’Anfitrione (1548): cf. Premoli 2005, 29-34.
65
 Su questo aspetto cf. anche Paduano 1994, 266-270.
66
 Il tema è introdotto già nella seconda scena del I atto, quando Edipo assegna ai due fi-
gli maschi la successione nei regni di Tebe e di Corinto: «Nel regno, ch’io posiedo, e ch’io
governo, / Che ’l mio sudor mi diede, e la Fortuna, / Fatto Eteocle ho te mio successore. /
E del regno paterno di Corintho / Tu sarai Polinice unico herede». Persino il ruolo delle
figlie Ismene e Antigone, rispettivamente fidanzate col re di Macedonia e col re di Tracia,
viene legato a prospettive dinastiche.
67
 Lo spunto è ripreso da Sen. Oed. 341-342. Viene invece del tutto eliminata la parte re-
lativa all’esame delle viscere, che in Seneca rimandava in modo inquietante alla tortuosa
mostruosità dell’incesto di cui è protagonista Edipo. In questo si può forse riconoscere
uno dei tanti indizi di una sostanziale avversione, da parte degli scrittori dell’epoca, a
mettere in particolare rilievo il tema dell’unione fra Edipo e sua madre.
158 G. Guastella

Gli episodi che caratterizzano gli intrecci delle due tragedie di Sofo-
cle e di Seneca vengono condensati nello stretto spazio compreso fra la
seconda scena del II atto e il canto corale che chiude l’atto successivo. Ed
è proprio qui che il semicoro maschile sintetizza il senso della vicenda
di Edipo, secondo uno schema non molto diverso da quello che abbiamo
visto nei versi finali della Giocasta di Dolce:
Da quel, ch’al saggio nostro Edippo è occorso,
Si può veder, come il giudicio humano
Scorge poco lontano
Contra il voler de la malvagia sorte.

Al centro dell’attenzione continua ad essere l’esemplarità di una


vicenda, determinata dalla «malvagia sorte», che può essere compresa
solo quando si sarà dispiegata nella sua interezza. Non diversa è l’ottica
in cui il semicoro femminile inquadra subito dopo la condizione dell’al-
tra protagonista della tragedia, Giocasta:
Quanta pietà t’habbiam, madre infelice;
Mentre pensiamo a tuoi pianti, e lamenti,
Ch’or fai: che chiaro senti,
Che’l tuo figlio è di te figlio, e marito.
Pur dianzi, ch’eri in stato alto, e felice,
Credevi, che le tue figlie innocenti
Dovessero altre genti
Reggere in seggio assise alto, e gradito:
Ma vedendo hor, che sian mostrate a dito;
Come nate d’incesto, e come infami;
Certo sappiam, che brami
La morte; e in odio t’è la vita, e’l mondo.

Anche nella presentazione delle vicende di Giocasta ad essere mes-


so in forte evidenza è soprattutto l’imprevisto rovesciamento della sua
precedente condizione di felicità68.
Se, da un lato, è certamente significativa questa operazione, che me-
scola tanto strettamente il destino di Edipo a quello dei suoi figli, fa-

68
 Le conclusioni che, qualche verso più avanti, il coro trae da questa visione delle sven-
ture patite dalla regina insistono ancora una volta sulla vanità dei progetti concepiti dai
potenti, per suggerire infine una prevedibile rassicurazione religiosa: «Co. h. Miser cia-
scun, che pone ogni sua spene / In questo mondo cieco, infimo, e rio. / Sol chi si fonda
in Dio, / Può dir d’havere un fin stabile, e fermo. / Co. d. Quel, che qua giù ne sembra il
sommo bene, / Si perde in un balen, s’un giusto e pio, / Che contra il suo desio / Peccò,
vediam cader misero e infermo».
«Come cangia fortuna ordine et stile» 159

cendone subito una storia esemplare dell’incertezza che caratterizza la


condizione di chi regna69, dall’altro è evidente che un dramma del genere
non poteva rispondere alle ambizioni degli Accademici vicentini, i quali
intendevano portare sulla scena la tragedia che Aristotele aveva indicato
come esemplare, e non una sua decisa riscrittura. La fedele traduzione
di Giustiniani presa in considerazione dall’assemblea degli Olimpici nel
maggio 1584 era senza alcun dubbio più adatta allo scopo70. La rappre-
sentazione dell’anno successivo71 fu un tentativo di inaugurare il classi-
cismo del più ambizioso fra i teatri moderni con il più nobile dramma
del più nobile fra i generi teatrali antichi: «Il sigillo perfetto per coro-
nare l’avvenuta restituzione del teatro degli antichi. Un teatro classico,
aristotelico e vitruviano, tragico e pertanto eroico e sublime»72. Il tutto
doveva realizzarsi in uno spettacolo che tentava anche di richiamare in
vita la funzione musicale e (sebbene in minima parte) il movimento sce-
nico del coro73.
Gli Accademici vicentini consideravano, con ogni probabilità, la
tragedia sofoclea nella prospettiva in cui il regista della serata inaugura-
le, Angelo Ingegneri, propose la lettura del dramma nel suo progetto74.
Dopo aver fornito un riassunto della trama, Ingegneri sintetizza così il
senso del capolavoro di Sofocle75:
Il soggetto della tragedia altro non è che la repentina caduta del re Edippo
da uno stato lieto e borioso nel più misero e abominevole che mortale
alcuno patisse giamai. […] La compassione e l’orrore, che sono gli due

69
 Questi temi verranno ripresi anche all’inizio del canto corale che chiude il IV atto.
70
 Come osserva Mazzoni 1998, 103, Giustiniani era «un professionista della penna im-
plicato nel commercio del teatro. Da lui esercitato a Roma aprendo una sala stabile dove,
fra il 1549 e il 1553, si rappresentavano a pagamento, su un palco abbellito da una son-
tuosa scena prospettiva realizzata dal pittore veneziano Battista Franco, volgarizzamenti
di commedie e tragedie in latino».
71
 Su cui cf. Flashar 1991, 25-32, Vidal-Naquet 1981, 201-210 e soprattutto l’ampia ed
esauriente trattazione di Mazzoni 1998, 87-207.
72
 Mazzoni 1998, 103. Cf. anche le dichiarazioni in questo senso dei testimoni dell’epoca,
riportate in Gallo 1973, xxxi, lxii, 36, 54.
73
 Le musiche composte da Andrea Gabrieli per accompagnare il testo di quelli che in
Sofocle sono la parodo, il primo, il secondo e il quarto stasimo, sono state pubblicate da
Schrade 1960, 157-246 e poi nel XII volume dell’edizione nazionale delle opere del mu-
sicista (Pirrotta 1995).
74
 Il progetto, riportato in un fascicolo compreso nel manoscritto Milano, Biblioteca Am-
brosiana, R. 123 sup., ff. 283r-298r, è stato pubblicato da Gallo, 1973, 3-25.
75
 Cito da Gallo 1973, 5-8.
160 G. Guastella

effetti principalissimi della tragedia, nascono in questa solamente nella


persona di Edippo. Già sappiamo che la compassione cade sopra di coloro
i quali né sono totalmente innocenti e però affatto immeritevoli di patir
estremi supplicii, né pur anco assolutamente colpevoli e scelerati e perciò
degni d’acerbissimi castighi, ma sì bene da persone di condizione mezzana
e più tosto tendenti verso l’innocenza, che ver la scelerità. Tale è Edippo,
uomo dabene e valoroso, il qual cade in estrema miseria per colpa del
padre e per destino di Giove. […] L’orror nasce dall’estrema mutazione
delli stati contrarii, dalla subitanea occasione di essa e dalla qualità dei
delitti commessi e da quella ultimamente delle pene che lor seguono76.

Una visione del genere appare decisamente in linea con quanto ab-
biamo visto finora parlando sia di Dolce che di Anguillara, e può anche
essere considerata tipica del modo in cui si guardava al dramma di Edi-
po in questa fase della cultura europea. All’epoca i generi teatrali antichi
venivano proposti tanto alla lettura quanto sulla scena in una prospetti-
va moralistica ed esemplare, e i personaggi delle tragedie e delle comme-
die antiche venivano considerati come modelli capaci di permettere una
migliore valutazione dei vizi e delle virtù umane77. In un simile contesto
la figura di Edipo non poteva certo avere i tratti dell’eroe su cui si sof-
ferma volentieri la critica contemporanea: cioè a dire quelli dell’indivi-
duo smarrito nella ricerca labirintica della propria identità, che alla fine
si rivela avviluppata nella colpa vertiginosa dell’incesto. Come abbiamo
già visto a proposito delle riprese della versione senecana di questo epi-
sodio, nella storia di Edipo sembra che la cultura cinquecentesca abbia
visto più che altro uno dei molti esempi tragici dell’instabilità a cui la
Fortuna condanna la condizione dei re. Da questo punto di vista, proba-
bilmente gli uomini del tempo non dovevano considerare molto diverso
il modo in cui tanto Sofocle quanto Seneca avevano trattato la vicenda
di Edipo78.

76
 Cf. anche le analoghe espressioni usate da Filippo Pigafetta (Gallo 1973, 57): «L’istoria
è piena di misericordia e colma di spavento e d’orrore […]; e nel riconoscersi questo in-
fortunio e egli esserne il micidiale che s’andava cercando, fassi il mutamento dello stato
felice regale nel più misero che si possa immaginare» etc.
77
 Cf. Lurje 2004, 28-77. I presupposti di questa concezione della tragedia erano stati pro-
gressivamente sviluppati nel corso del Medioevo, a partire da conoscenze indirette del
teatro antico, come ha mostrato Kelly 1993.
78
 Vidal-Naquet 1981, in part. 207-208, ha notato giustamente che l’accento della rappre-
sentazione vicentina cadeva soprattutto sul fasto regale dell’apparato e sul «carattere
regale dei personaggi», e che persino alcuni dettagli della tragedia senecana erano stati
insensibilmente trasferiti dalla tragedia senecana a quella sofoclea.
«Come cangia fortuna ordine et stile» 161

Questo stato di cose potrebbe, almeno in parte, spiegare il perché di


una tanto sensibile divaricazione fra la grande fortuna critica del capola-
voro sofocleo e la sua assai più modesta fortuna teatrale. I teorici dei ge-
neri drammaturgici insistevano sull’importanza di questa tragedia, com-
mentando il giudizio che di essa dava Aristotele e lodando il suo intreccio
perfettamente unitario79. In particolare, ad essere elogiato era il fatto che
in esso «della recognizione nasce la tramutazione»80, cioè a dire il fatto
che nell’Edipo re il rovesciamento della condizione felice nel suo opposto
si realizza in seguito all’agnizione81. Ma come ha mostrato Michael Lurje
nella sua ampia monografia82, il personaggio di Edipo risultava proble-
matico per molti motivi. Ad essere imperfetto, rispetto al modo in cui la
cultura cinquecentesca considerava le vicende tragiche, era soprattutto lo
statuto della sua colpa, che non sembrava meritargli pienamente la puni-
zione che alla fine egli trova la forza di darsi. L’ambiguità della responsa-
bilità di Edipo, dovuta all’inconsapevolezza con cui ha ucciso il padre e si
è unito alla madre, non ne faceva un vero villain e non creava un nesso
drammaturgicamente efficace – agli occhi del pubblico di quell’epoca –
fra colpa e punizione. Il lapsus ad magnam ca­la­mitatem di cui Edipo è
protagonista non è inoltre attivato da uno dei meccanismi di ritorsione
che abbondano nelle più fortunate tragedie cinquecentesche, ma è piut-
tosto il frutto di un’insondabile strategia del destino che, secondo il con-
sueto cliché medievale, presto o tardi getta in basso i sovrani e i potenti. E
soprattutto, essendo a uno stesso tempo vittima e artefice della vendetta
che lo porta ad accecarsi, Edipo conserva, all’interno del suo stesso perso-
naggio, uno sbilanciamento di ruoli irrisolto: possiede sì i tratti di un eroe
come Tieste (o Giasone o Agamennone), che patisce il topico rovescia-
mento della sorte regale, ma non ha a sufficienza quelli di Atreo (o Me-
dea, o Clitennestra). Insomma, nell’Edipo re da un lato mancava il ven-
dicatore criminale, la cui ira e il cui onore violato mettevano solitamente

79
 Ugolini 1986 e Mattioli 1988 forniscono due rassegne molto parziali di questo dibattito.
80
 Uso la formulazione di Niccolò Rossi (1589, 59). Sulla ‘canonizzazione’ dell’Edipo re
nel Cinquecento cf. Javitch 2001.
81
 Cf. ad es. Denores 1586, 19-20: «[…] quelle favole con le quali è ritesciuta la rivolu-
zion di fortuna con la peripezia e con l’agnizione, sono riputate più maravigliose di tutte
le altre, che hanno solamente la rivoluzione di fortuna, e perciò è stimata da Aristotele
perfettissima la favola di Edippo tiranno, nella quale e l’una e l’altra e l’altra sono con
mirabile artificio unite e concatenate».
82
 Lurje 2004, soprattutto 92-117.
162 G. Guastella

in moto il meccanismo tragico nei drammi dell’epoca; dall’altro la colpa


del protagonista inconsapevole non aveva un peso capace di giustificare
pienamente l’enormità della punizione finale.
Nel Cinquecento le cause della caduta di Edipo restavano dunque
ambiguamente sospese fra sventura e colpevolezza. Più avanti nel tem-
po, e solo dopo un lungo processo critico, gli studiosi di poetica (ben più
degli autori di teatro) sarebbero riusciti nel tentativo di sciogliere il nodo
drammaturgico del rapporto fra la sventura del figlio di Laio e la sua
colpa: soprattutto cercando di delineare con sempre maggiore chiarezza
i contorni della sua responsabilità (anche al di là della sua inconsapevo-
lezza). Prima di allora, chi si era confrontato con il dramma sofocleo, o
per tradurlo o per portarlo in scena, si era trovato di fronte a una trage-
dia priva di quell’impatto emotivo garantito dalle più spettacolari mo-
struosità messe in scena da Seneca o dai suoi epigoni moderni (come Gi-
raldi Cinzio o Dolce). A prevalere, nella presentazione di questa vicenda,
era perciò più che altro la linea interpretativa che vedeva in Edipo una fi-
gura esemplare dei casus virorum illustrium: quella figura che, all’inter-
no della tragedia, viene messa in rilevo soprattutto in alcuni passi degli
interventi corali, come il quarto stasimo (vv. 1186 ss.) e la problematica
chiusa che i manoscritti assegnano al coro (vv. 1524-1530).
Può essere utile, in conclusione, considerare il modo in cui proprio
quest’ultimo brano è stato reso dai due principali volgarizzatori della
tragedia sofoclea. La massima soloniana con cui il coro invita i Tebani
a considerare la vicenda del loro re solo nella prospettiva finale di una
vita inizialmente fortunata e poi sprofondata nella sventura83, si prestava
a un trattamento analogo a quello che abbiamo in precedenza visto nei
versi conclusivi della Giocasta di Dolce. Non è un caso che in quel passo il
tragediografo veneziano stesse rielaborando proprio il finale delle Phoe­
nissae euripidee, che com’è noto presenta delle strettissime somiglianze
con quello dell’Edipo re84.
83
 Vv. 1524-1530: [Χο.] Ὦ πάτρας Θήβης ἔνοικοι, λεύσσετ᾽, Οἰδίπους ὅδε, / ὃς τὰ κλεί­
ν᾽αἰ­νίγματ᾽ ᾔδει καὶ κράτιστος ἦν ἀνήρ, / οὗ τίς οὐ ζήλῳ πολιτῶν τύχαις ἐπέβλε­
πεν, / εἰς ὅσον κλύδωνα δεινῆς συμφορᾶς ἐλήλυθεν. / Ὥστε θνητὸν ὄντ᾽ ἐκείνην τὴν
τε­λευταίαν ἔδει / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου
περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών.
84
 Sulla strategia retorica scelta per la conclusione della tragedia sofoclea cf. anche (in
una prospettiva comparativa) Halter 1998, 142-151. L’intera parte finale dell’Edipo re è
stata sospettata di interpolazione (una ricostruzione complessiva del dibattito critico in
«Come cangia fortuna ordine et stile» 163

Partiamo dalla versione latina di Gabia:


O patriae Thebes incolae aspicite: Oedipus hic,
Qui inclyta aenigmata sciebat, et optimus erat vir,
Qui non zelo civium et calamitatibus inspiciens,
In quantam tempestatem gravis calamitatis venit?
Ut mortalis existens illam ultimam videre
Diem consyderans neminem beatum putet, priusquam
Finem vitae peregerit, nihil acerbum passus85.

Alessandro Pazzi affidava senza problemi il finale della tragedia alla


battuta gnomica del coro:
Cho. Urbis o Cadmi incolae spectetis Oedipum modo
Gnarus enigma arduum qui solvit, optimus sua,
Civium non sorte, sed virtute praeclarissima,
In quot est prolapsus erumnas miserrimus graves.
Quippe non mortalium quenquam beatum quis putet
Antequam diem supremam viderit probe illius
Cladis expertemque totum noverit vitae ambitum. [f. 72r]
Cho. O della bella patria popol Thebano
Considera hora
Edipo, il qual disciolse il nodo insolubile
Sopra alli altri optimo
Per zel del Regno, et per sanar città,
In che fortuna
In che greve tempesta sia scorso? L’ove
Nessun mortale
Chiamar si dè beato, se di sua vita
Pria l’ultima hora
Suta vista non è senza caso adverso
Esser passata. [f. 135r]

Finglass 2009, in part. 55-59). Per quanto riguarda i versi 1524-1530, il più deciso soste-
nitore della necessità di considerarli spurii, fra gli editori più recenti, è stato Dawe 1973,
266-273. Sull’analogo problema relativo all’autenticità dei vv. 1758-1763 delle Phoenissae
(citati supra, n. 45), cf. Mastronarde 1994, 642-643.
85
 La versione di Bernardo Segni (131) in questo caso non sembra particolarmente vicina
al testo del Gabia: «Di Tebe o cari e degni cittadini, / Mirate un po’ quest’infelice Edippo,
/ Quel che fe’ chiari a noi gli oscuri dubbi, / E che infra gli altri fu tenuto uom saggio; / Lo
qual poggiando all’alto regno nostro / Non per setta civil, né per fortuna, / Or è venuto a sì
misera sorte. / Onde nessun mortal giammai beato / Sé faccia, o chiami altrui; se pria non
vede / Finiti i giorni suoi fuor d’ogni doglia». La conclusione di Anguillara (62v-63r) ci
propone invece una diversa lezione moralistica: «Quindi si può veder, che ’l sommo Dio /
Non solo dispon, che i volontarii eccessi / Condannin l’huomo al debito castigo: / Ma quei
peccati anchor, ch’alcun commette / Per ignoranza, e contra il suo volere, / Vuol, che con-
dannin l’huomo a penitenza; / E la debita pena ne riporti. / Sì che preghiam la maiestà di-
vina, / Ch’apra talmente a noi l’interno lume, / Che non ne siano i nostri eccessi ascosi».
164 G. Guastella

Nella versione di Giustiniani (46r) il lessico potrebbe segnalare se non


altro qualche suggestione esercitata dalla traduzione latina del Gabia:
O di questa mia patria incliti, e degni
Cittadini, hor vedete. Questo Edipo
Che scioglier seppe gl’intricati enimmi
De l’irritata Sfinge; huom d’eccellente
Virtù; che mai non declinò dal dritto
Sentier; né per favor di Cittadini,
Né per fortuna prospera, e seconda;
Vedete in quanti tempestosi flutti
Di profonda miseria or giace immerso?
Però tu, che mortal sei nato, ogn’hora
L’ultimo dì riguarda; e alcun beato
Non giudicar giamai, se pria no’l vedi,
Senza percossa di fortuna adversa,
Giunto de la sua vita al fine estremo.

Il desolato congedo del coro86 non indicava agli spettatori vicen-


tini un re potente e colpevole ma un giusto piombato nell’infelicità. Il
κράτιστος ἀνήρ di Sofocle (v. 1525), già diventato un optimus vir tanto
in Gabia quanto in Pazzi, si trasforma addirittura in un «huom d’eccel-
lente virtù» per Giustiniani. In questo modo veniva messo in fortissimo
risalto il contrasto fra il comportamento irreprensibile che aveva caratte-
rizzato tutto il corso del regno di Edipo e la sventura in cui alla fine egli
piomba per la «percossa di fortuna adversa».

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 Che appunto per il suo carattere mesto veniva recitato senza l’accompagnamento del-
la musica, come testimonia lo stesso «chorago» dello spettacolo, Angelo Ingegneri, nel
suo trattato DELLA POESIA / rappresentativa / & del modo di rappresentare / le favole
sceniche. / […] In Ferrara, / Per Vittorio Baldini, Stampatore Camerale. MDXCVIII, p. 83
«[…] l’ultime parole, che chiudono la favola […] ordinariamente si sogliano dire dal solo
capo del choro alla distesa, con voce tuttavia un poco alta, & rimbombante. Et la ragione,
onde queste non si cantano, si è, che in quel punto le cose sono ridotte à tanta miseria,
ch’è venuto meno il canto, & il pianto, & ogni altra dimostratione delle passioni altrui».
Sull’abitudine di non musicare il commento del coro con cui si chiudevano le tragedie
cf. anche Pirrotta 1987, 45 e 49.

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