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non indurrebbe gli uomini a inserire questo amore nel calcolo dei pro­
pri conti, non prendendo più sul serio la santità di Dio. 1 Che è proprio
quello che le vergini stolte hanno fatto."" ·

2.6. LA PARABOLA DEI TALENTI ( 2 5 , 14-30)


L. Bogaert, Geld (Geldwirtschaft) B . I . I .c, i n RA C IX, 1 976, 847-849; j.D.M. Der­
rett, Law in the New Testament. The Parable of the Talents and Two Logia: ZNW
56 ( 1 965) 1 84- 195; M. Didier, La parabole des talents et des mines, in l. de la Pot­
terie, De Jésus aux Evangiles (Fs J. Coppens) (BEThL 2 5 ), 1967, 248-27 1; C. Dietz­
felbinger, Das Gleichnis von den anvertrauten Geldern: BThZ 6 ( 1989) 222-23 3;
E. Drewermann, Tiefenpsychologie und Exegese n , Olten 1985, 746-7 53; J. Du­
pont, La parabole des talents ou des mines (Mt. ZJ,q-J o; Le. 19,I2-27), in Idem,
Etudes, 744-760; K. Erlemann, Das Bi/d Gottes in den synoptischen Gleichnissen
(BWANT 1 26), 1 9 8 8, 1 9 6-22 1 ; P. Fiedler, Die ubergebenen Talente: BiLe I I
( 1970) 259-273; W. Foerster, Das Gleichnis von den anvertrauten Pfunden, in Id.
(ed. ), Verbum Dei manet in aeternum (Fs O. Schmitz), Witten 1 9 5 3 , 37-56; C. Kah­
ler, Jesu Gleichnisse als Poesie und Therapie (WUNT 78), 1995, 1 64-190; E. Kam­
lah, Kritik und Interpretation der Parabel von den anvertrauten Geldern: KuD 14
( 1968) 28-3 8; E. Klingenberg, Das israe/itische Zinsverbot in Torah, Mischnah und
Talmud (AAWLM.G 1977 nr. 7), 1 977; I.ambrecht, Treasure, 21 7-244; E. Lovestam,
Logia-Studien: StTh 4 ( 19 5 1 - 1 9 5 2 ) 1 2.9-1 6 5 (per il v. 29); F. Manns, La parabole
des talents. Wirkungsgeschichte et racines juives: RevSR 65 ( 199 1 ) 343-3 62; L.
McGaughy , The Fear of Yahweh and the Mission of Judaism. A Postexilic Maxim
and Its Early Christian Expansion in the Parable of the Talents: JBL 94 ( 1 975)
23 5-245; M. Miegge, I talenti messi a profitto. L'interpretazione della parabola dei
denari affidati ai servi dalla Chiesa antica a Calvino, Urbino 1969; A. Orbe, Parabo­
las Evangélicas en San Ireneo (BAC 3 3 2) n, 1 972, 3 -84; A. Puig y Tàrrech, La pa­
rabole des talents (Mt. 2J, L4-3 0) ou des mines (Le. 19, 1 1-28), in A cause de l'Evan­
gile (Fs j. Dupont) (LD 1 23 ), 1 9 8 5 , 1 6 5 - 1 9 3 ; R.W. ResenhOfft, Jesu Gleichnis von
den Talenten, erganzt durch die Lukas-Fassung: NTS 26 ( 1979- 198o) 3 1 8-3 3 1; C.
Riniker, Die Gerichtsverkundigung Jesu, diss., Bern 199 1 , 272-287; R.L. Rohr­
baugh, A Peasant Reading of the Parable of the Talents/Pounds. A Text of Terror:
BTB 23 ( 1993 ) 3 2-39; Scott, Hear, 2 1 7-23 5; A. Weiser, Die Knechtsgleichnisse der
synoptischen Evangelien (StANT 29), 197 1 , 226-272; M. Zerwick, Die Parabel vom
Thronanwarter: Bib. 40 ( 1 959) 654-674.
Altra bibliografia ( b) nella sezione su Mt. 24,3 -25,46 (sopra, p. 499).

14 Poiché (è) come un uomo che, preparandosi a partire per un viaggio, chia­
mò i suoi schiavi e affidò loro i propri beni. 1 5 E a uno diede cinque talen­
ti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e poi
partì. Subito 3 1 6 quello che aveva ricevuto i cinque talenti si mise in mo-
r Cf. sotto, pp. 678 s.
2 Nella sacra rappresentazione delle Dieci Vergini di Eisenach (v. sopra, p. 593 n. 2),
versione A, 93-9 5 , la seconda vergine stolta dice: «Divertiamoci ancora per trent'anni, l
poi facciamoci tagliare i capelli l e ritiriamoci in un monastero ".
3 Nella tradizione testuale occidentale ( Vulgata compresa ) e in 'lJl tÙ19€ox; è riferito a
6o6 LA PARABOLA DEI TALENTI
to, trafficò con essi e guadagnò altri cinque (talenti) . ' 17 Parimenti anche 1
quello con i due ne guadagnò altri due. 1 8 Ma quello che ne aveva ricevuto
uno, uscì, scavò la terra e nascose il denaro del suo padrone.
19 Dopo molto tempo arriva, però, il padrone di quegli schiavi e regola
i conti con loro. 20 E si fece avanti quello che aveva ricevuto i cinque talen­
ti, portò altri cinque talenti e disse: 'Padrone, mi hai affidato cinque talen­
ti: guarda, ho guadagnato altri cinque talenti !'. 21 Il suo padrone gli disse:
'Ben fatto, schiavo bravo e fidato! Ti sei dimostrato fidato in poca cosa, ti af­
fiderò responsabilità su molto! Entra nella gioia del tuo padrone!'.
22 Allora si fece avanti, però,3 anche quello con i due talenti e disse: 'Pa­
drone, due talenti mi hai affidato: guarda, ne ho guadagnati altri due!'. 23 Il
padrone gli disse: 'Ben fatto, schiavo bravo e fidato! Ti sei dimostrato fida­
to nel poco, ti affiderò responsabilità su molto! Entra nella gioia del tuo pa­
drone!'.
24 Allora si fece avanti anche quello che aveva un talento e disse: 'Padro­
ne, io ho capito che sei un uomo duro, mieti dove non hai seminato e rac­
cogli dove 4 non hai sparso. 2 5 Perciò sono uscito pieno di paura e ho na­
scosto il tuo talento nella terra: guarda, eccoti qua il tuo!'. 2.6 Ma il suo
padrone rispose e gli disse: 'Schiavo cattivo e pusillanime! Sapevi che mie­
to dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso? s 27 Ma allora
avresti dovuto versare il mio denaro ai banchieri 6 e al mio ritorno avrei ri­
cevuto il mio con gli interessi'. 28 Toglietegli, dunque, il talento e datelo a
quello che ha i dieci talenti !
29 Poiché a chi ha verrà dato e ne avrà in sovrabbondanza.
Ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha!
30 E scaraventate nelle tenebre di fuori quello schiavo inutile: lì sarà pianto
e stridore di denti.
r. Struttura. Mediante wa7tefl la nuova parabola si collega all'avvertimento
del v. 1 3 senza soluzione di continuità. Per le sue formulazioni essa ricorda
àm��(.l.lJaEV. Data la mancanza di segni d'interpunzione, nella maggior parte dei mano­
scritti greci la questione non è risolvibile. A favore del punto fermo dopo e:Ù<8Éble;, pun­
teggiatura sostenuta talora (ad es. da Fritzsche, 737) sin dal 1 800 e poi accettata total­
mente dalle edizioni critiche moderne del N.T., si adduce: 1 . che altrove Matteo pone
EÙ<8Éwç sempre prima del verbo; 2.. che solo così l'avverbio ha un senso: il primo schiavo
ubbidisce senza por tempo in mezw.
1 'raì..ana manca nell'edizione Nestle-Aland16, ma è ben attestato da �. D, W, f'·'', ']l e

altri, e potrebbe essere originario.


:1. xa.l è attestato da B, D, f'·'', ']l, it, sy, sa, mae, boP' e altri, la sua assenza è documen­

tata quasi unicamente da �. 8, vg e alcune traduzioni boairiche (e da Nestle-Aland'6!).


3 �É manca in �·, B, sa.
4 Attrazione dell'avv. di luogo. In realtà si dovrebbe leggere Éxe:i&v oò (BDR, S 4 37,2.).
5 Il v. 26b va sicuramente letto come interrogativa e non come dichiarativa con senso
concessivo; altrimenti al v. 27 ci si dovrebbe aspettare 8É invece di ol.lv.
6 (jciì..ì.w
= . xa'r�Ì..Ì..w, cf. LSJ, s. v. (jciì..ì..w, n.6.d.
607
ai lettori altre storie narrate precedentemente da Gesù, per la precisione
quella del debitore spietato in I 8,23-3 5 (termini in comune: 't'tXÀtXnov, auv­
oc lpw Myov) e, soprattutto, quella del servo nominato amministratore in 24,

45-5I (termini in comune: ma't'Ò<; òouÀoc;, xtX.Sta't'lJI'L €1tl, o xt)pwc; 't'ou òouÀou
Èxetvou, ÈxEi Éa't'tXt o xÀtX�Òc; XtXt o �puyj!Òc; 't'wv òòov't'wv). Per l'interpretazio­
ne della nostra parabola i lettori utilizzeranno automaticamente l'ultima sto­
ria, letta o ascoltata da non molto. Anche nei due versetti finali del nostro
testo i lettori coglieranno espressioni già note (v. 29: cf. I 3 , I 2; v. 30: cf. 8,
12; 22,I3; 24,p).
La parabola stessa è formata da una breve esposizione, con la scena del­
l'affidamento delle varie somme ai vari schiavi compiuto dal padrone pri­
ma di intraprendere il viaggio (vv. I4 s.), alla quale seguono una rapida de­
scrizione degli avvenimenti nel periodo compreso tra la partenza e il ritor­
no del padrone (vv. I6-I8) e, infine, la lunga scena finale con la resa dei conti
fra il padrone e i tre schiavi (vv. I9-30). In questa scena salta agli occhi la
diversa lunghezza del tempo dedicato ai tre schiavi: dopo i due brevi dialo­
ghi del padrone con i primi due (vv. 20 s.22 s.), lo spazio maggiore è occu­
pato dal dialogo del padrone con il terzo (vv. 24-30): in pratica circa due
quinti dell'intera parabola. Come in altre parabole, 1 anche nella nostra la
conclusione è tutta un lunghissimo discorso del padrone (vv. 26-30). L'inte­
resse principale riguarda quindi il terzo schiavo e ciò che il padrone gli dice.
La narrazione è decisamente stereotipata e contiene numerose ripetizioni
e corrispondenze. Così le due scene dei conti fatti con i due schiavi «pro­
duttivi» (vv. 20 s.22 s.) sono identiche quasi alla lettera. Che essi abbiano ot­
tenuto un profitto rispettivamente di cinque e due talenti viene ripetuto pro­
lissamente nei dialoghi col padrone (vv. I 6 s.20.22). Lo stesso dicasi del ta­
lento sepolto sotto terra dal terzo schiavo (vv. I8.2 5 ). Nel dialogo tra padro­
ne e terzo schiavo la caratterizzazione di tipo proverbiale .SEp t"'wv o1tou oùx
E0'1tELptXc; XIXt auvaywv o.SEv où ÒtEaxOp1ttO'tX<; viene ripetuta dal padrone ( vv. 24.
26). Le ripetizioni sono conformi allo stile narrativo popolare e allo stile
matteano. 1 Il narratore le inserisce sempre con grande abilità stilistica, co­
me si può notare soprattutto nella scena intermedia (vv. I 6-I8): qui i letto­
ri si accorgono che tutto dipende dal profitto; qui fanno attenzione al terzo
schiavo, il cui comportamento è diverso da quello degli altri due e non pro­
duce alcun guadagno. Arrivati al v. I 8 essi sono già in grado di porre la
domanda decisiva per la parabola: ma il padrone, come giudicherà tale com­
portamento? 3 Segue ora il racconto, prolisso e ripetitivo, dei conti fatti con i
primi due servi (vv. 20-23 ), la cui funzione stilistica è quella di ritardare
l'azione, facendo così crescere l'attesa dei lettori: che il padrone lodi i due
schiavi produttivi non è una sorpresa; i lettori vogliono, invece, sapere che
fine farà il terzo schiavo. Allo stesso tempo queste due scene svolgono una
1 Cf. 1 3 ,2.9 s.; 2.0, 1 3 - 1 5 ; Le. 14,2.3 s.; 1 6,8- 1 3 .
:tS'incontrano ripetizioni simili i n 1 8,2.3-3 5 ; 2.0,1-1 5 e 2.5,3 1-46.
3 j.D. Crossan, In Parables, New York et al. 1 973, 101.
6o8 LA PARABOLA DEI TALEN TI

funzione importante perché attirano, per la prima volta, l'attenzione dei let­
tori sulla dimensione metaforica della parabola: «Entra nella gioia del tuo
padrone» . Dal v. 24 inizia il punto saliente della parabola. Qui i lettori co­
glieranno immediatamente la caratterizzazione del padrone: un elemento
che certo non avevano previsto. Dato che il padrone la ripeterà puntigliosa­
mente (v. 26), essa resterà loro impressa nella mente. A questo punto i letto­
ri avranno cominciato a elaborare la propria interpretazione.

2. Fonte. In Le. 1 9, 1 2-27 si è conservata una variante della nostra storia:


la parabola delle mine. Si tratta di un testo di Q? Tutto sommato gli elemen­
ti contrari superano a mio parere quelli a favore. • Le coincidenze verbali
nelle scene del dialogo, compreso il discorso diretto, sono molto scarse, e an­
che laddove esistono si registrano divergenze difficilmente spiegabili con in­
terventi redazionali. 1 Risulta vistosa soltanto la coincidenza, relativamente
estesa, del v. 29 =Le. 1 9,26.3 Né in Matteo né in Luca la nostra parabola
compare in un contesto di materiali provenienti da Q. n suo posto in Q
dovrebbe essere dopo il discorso escatologico di Q 1 7, ma lì non ci sono as­
solutamente più testi sicuramente provenienti da Q. Inoltre il nostro testo è
singolare già per il genere letterario: solitamente Q non contiene parabole
lunghe. Ritengo, dunque, che il testo provenga dal materiale proprio di Mat­
teo e che Le. 19,1 2-27 sia una variante tramandata indipendentemente. Co­
me nel caso di altre parabole estese, i matteismi,4 molto fitti e distribuiti uni-
• Oggi sembra affermarsi sempre più la tesi che non esista un testo Q. Cf. ad es. Weiser•,

227-258; Sato, Q, 22 s.; Agbanoub , 1 57-167; Riniker", 277; Jacobson, Gospel, 244; di
parere diverso, ad es., Liihrmann, Redaktion, 7 1 ; Schulz, Q, :z.88-2.93 .
1 Ad esempio la diversa successione negli elementi della risposta dello schiavo pusillani­

me ai vv. 2.4 s./ Le. 19,20 s.; i due hapax òxvTjp(x;./a.Ùtrn)p(x;. al v. 26/ Le. 19,21 s.; la va­
riazione auv!iyw &8e:v où Òte:axop7ttaa. e a.ipwv o oùx �-871xa. diversamente collocati ai vv. 24.
:z.6/ Le. 19,21 s.
3 A differenza di Mc. 4,2.5 parr. il logion inizia con un dativo introduttivo +participio e
7ta.v-.L È redazione matteana xa.lmptaae:u-8�ana.t (come 1 3 , 1 2.).
4 Secondo vol. 1, introduzione, 4.2., sono chiari matteismi: al v . 14: W0"7tf:P y!ip, iòtoç; al
v. I J: 11-Év, ÒÉ (circa 1 9x correlativo a 1-'Év, in Marco circa 2x), a:Ù19Éw.;; al v. 16: 7tope:u&tç,

Àa.pwv; al v. 17: waa.!Ytw.; (cf. :z.o,5; 2I,JO.J 6); al v. IB: ÒÉ, Àa.pwv, IÌ7tEÀ-8wv; al v. 19:
Èxe:ivo.; (cf. spec. 1 8,2.7; 2.4,50), auva.ipw Myov IlE"!% (cf. 1 8,:z.3 ); al v. 20: 71:poae:À-8wv, Àa.­
[3cdv, 71:poaq!Épw, ÀÉywv; al v. 21:: q!Tjllt + dativo +soggetto; ai vv. 22 s. : cf. vv. :z.o s.; al v.
24: 71:poae:À-8wv ÒÉ; al v. 25: àmÀ-8wv; al v. 26: IÌ"ll:oxpt.Se:l.; ÒÉ +soggetto; al v. 27: o�v, ap­
ytipta. (pl.); al v. 28: o�v; al v. 29: y!ip, xa.l "li:Eptaae:u-8�ana.t (cf. 1 3 , 1 2.); per il v. 30 cf. 8,
n; 2.2, 1 3 . Potrebbero essere redazione matteana: al v. 1:4: IÌ7toÒTji-'Éw (cf. 2.1,33 e Mc.
13,34), "ll:a.pa.ò(òwllt, -.!i im!ipxona. (cf. 19,2.1; 2.4,47); al v. IJ: -.aÀa.v-.ov (cf. 1 8,:z.4), éxli­
O"'t(jl XrJ.'ttX (cf. 1 6,2.7); al V. I6: 'ttXÀa.nov, ÈpyaJ:O!la.l, liÀÀoç +cifra (cf. 4,2 1 ); al V. 1:7: aÀ­
Àoç +cifra; al v. 1:8: xpu"ll:-.w, xtiptoç con genitivo possessivo (Matteo 1 9x, Marco 4x, Lu­
ca 8x, SOprattuttO nelle parabole); al V. 20: aÀÀoç +cifra, TtXÀrJ.VTOV, 7ta.pa.ÒtÒW!lt; al V. 21:
xtip10ç con genitivo possessivo, daipxolla.t (cf. i detti della (haiÀELa.), mo--.6.; (cf. 24,45),
xa.-8tO""Tj!ll È"ll:t (cf. 2.4,4 5·47); ai VV. 22 S.: cf. VV. 2.0 s.; al V. 24: TtXÀa.VTOV, auvayw/axoprct­
J:w (cf. 1 2.,30); al v. 25: cpofXolla.t, xpu"ll:-.w, TtXÀa.nov; al v. 27: É&:t dell'irrealtà (cf. 1 8,33);
formemente in tutto il testo, suggeriscono, con la formulazione attentamen­
te studiata e unitaria, che Matteo sia stato il primo a mettere per iscritto que­
sta parabola. In pratica si lascia isolare come sicuramente redazionale sol­
tanto il versetto conclusivo (v. 30). Le coincidenze, relativamente numerose,
con Le. 19,1 2-27 nei dialoghi mostrano però che già nella tradizione orale il
testo della storia era relativamente stabile.

3 . Storia della tradizione e origine. La base per operare criticamente se­


condo il metodo della storia della tradizione è data dalla comparazione con
la variante di Le. 1 9, 1 2-27. Negli studi si è arrivati a convenire che nessu­
na delle due varianti, la matteana e la lucana, è chiaramente più antica del­
l'altra; ma entrambe hanno conservato tratti antichi.'
In Luca sono sicuramente secondari tutti quei tratti legati al motivo del
pretendente al trono che si reca in un paese lontano (Roma) per ricevere l'in­
vestitura ufficiale, contro le proteste dei suoi propri sudditi :l - come era suc­
cesso realmente nel caso di Archelao, uno dei figli di Erode.3 Rientrano tra
questi elementi Le. 1 9, 1 2. 14. 1 5a.27 + vv. 1 7 e 1 9 (gli schiavi «produttivi»
vengono premiati con la nomina a governatori) e, forse, anche il numero
degli schiavi (dieci) al v. 1 3 .4 Non esiste, però, alcun indizio che sia stato
Luca per primo a introdurre la figura del pretendente al trono. In Luca è pro­
babilmente secondario il particolare che il terzo schiavo abbia conservato
la mina nel fazzoletto, abbia, cioè, agito con grave trascuratezza.s Il partico­
lare corrisponde a una tendenza che si può notare anche in una variante
successiva contenuta nel Vangelo dei Nazarei, dove il terzo schiavo sperpera
il denaro del padrone con meretrici e suonatrici di flauto: 6 chi è condan-
al v. 28: 't'aÀav't'ov. Sono hapax: e:?.i, axÀlJpOç, òxv�, 't'pa7te:l;l't'l)<;, xoJ:Lil;w, tÌ'X,PEio.;. Per al­
tri motivi sono decisamente non matteani: òpooaw yi]v, lipy.Jptov (sing.), J:LE't'a rr.oÀÙv "/.P6-
•••

vov, i8e: (d. vol. I, introduzione, 4.3 ), e:ÌÀlJ<pwc; (part. perf. ).


' Ancora Sc:hmid, 349 s., riteneva la versione lucana chiaramente più antica, perché non
conteneva tratti allegorici; egli però non tiene conto della sua natura eterogenea. Gundry,
502-5 10, ritiene che Mt. 25,14-30 sia una storia composta redazionalmente da Matteo
sulla base di Mc. 1 3 ,34 e della versione base di Le. 19,1 2-27.
2. La tesi di una parabola indipendente del pretendente al trono è sostenuta soprattutto

da Zerwicka, la cui parabola viene poi a somigliare quasi esattamente all'allegoria del
padrone che parte per un viaggio. Risulta, però, impossibile ricostruire una parabola in­
dipendente di un pretendente al trono. Perciò è più corretto parlare con Weder, Gleich­
nisse, 194 s., di «elementi legati all'immagine di un pretendente al trono�.
3 Ios. Ant. 1 7,300-3 16. 4 Anche in Luca si parla poi solo di tre schiavi.
5 In Luca il terzo schiavo è colpevole di disubbidienza all'ordine esplicito del padrone
(v. 1 3 ). Perciò quanto dice al suo padrone suona ironico e irrispettoso: il fazzoletto non
va d'accordo con la paura di un padrone tanto severo. Un argomento contro questa tesi
è che un talento è troppo grande e pesante (26-3 5 kg) per poterlo custodire in un fazzo­
letto. Perciò quando Matteo è passato dalle mine ai talenti ha dovuto necessariamente
omettere il fazzoletto (ragionano così, ad es., Sc:hmid, 349; Gnilka, II, 3 5 8).
6 Ev. Naz. fr. 1 8, testo in Schneemelcher, s1, 1 3 5 .
6IO LA PARABOLA D E I TALENTI

nato da Dio deve aver agito immoralmente. Anche l'ordine esplicito dato dal
padrone agli schiavi di far fruttare il denaro (Le. 19,13) è probabilmente
secondario. Non c'è nessuna ragione, infatti, perché Matteo, che dà tanta
importanza all'attività degli schiavi, avrebbe dovuto ometterlo. Infine, è pro­
babilmente secondario anche Le. 1 9,25, che sicuramente è stato inserito co­
me versetto di raccordo dopo l'aggiunta del logion di Mt. 2 5,29 (cf. sotto).
Molto più probabilmente secondaria è la sostituzione in Matteo delle mi­
ne con i talenti. Matteo ha una passione per somme di denaro così alte 1 e
si rimane un poco interdetti quando poi si dice che gli schiavi si sarebbero
dimostrati fidati •con così poco» (vv. 2 1 e 33). Viceversa le mine di Luca
dovrebbero appartenere alla tradizione antica perché non sono più adatte
alle possibilità finanziarie di un pretendente al trono ... Parimenti seconda­
rie sono le due promesse escatologiche (vv. 2 1 e 23) fatte ai due schiavi più
abili di «entrare nella gioia del loro padrone» . Queste promesse raddop­
piano il premio e sono conformi alla natura escatologica del v. 30. Come
questo versetto, possono essere benissimo redazionali anche quelle promes­
se. Infine è probabilmente secondario il particolare che gli schiavi ricevano
capitali iniziali diversi: tale diversità corrisponde alla loro lòlcx òuvcxtJ.tc; (v.
1 5 ) ed è, presumibilmente, un riferimento allegorico alla diversità dei talenti
umani.3 Resta, invece, del tutto incerta la decisione relativa alla «scena in­
termedia •• di Matteo (vv. 16-18). Nella storia essa ha una funzione impor­
tante,4 ma non si riesce a spiegarne la mancanza in Luca. Spesso l'espressio­
ne matteana fJ.E'tl17toÌ..Ùv "JPOVOV (v. 19) viene interpretata come riferimento
al ritardo della parusia e, perciò, ritenuta secondaria. Non è affatto certo,
poiché i due schiavi che durante l'assenza del padrone riescono, secondo Lu­
ca, a moltiplicare uno per dieci e l'altro per cinque il capitale iniziale (Le. 19,
16.18), in realtà hanno bisogno di «molto tempo» . S Inoltre resta molto in­
certo l'ordine di successione degli elementi del dialogo nella risposta del ter­
zo schiavo (Mt. 25,24 s./ Le. 19,20 s.).
1 Cf. I 8,24. I talento corrisponde a 6o mine; I mina a Ioo denari; I denaro alla paga

giornaliera di un lavoratore. La sostituzione delle mine con i talenti può essere opera re­
dazionale, ma non lo è necessariamente.
2. Cf. la descrizione quasi grottesca della scena dei vv. 24 s., dove lo schiavo che è diven­
tato governatore di una decapoli riceve in dono ancora una mina con gli astanti che re­
clamano: �Ma ha già dieci mine ! » . Come se al confronto di dieci città questa fosse una
gran donazione.
3 Controtesi in Lambrecht, Treasure, 225 s.: Luca avrebbe una predilezione per il nume­
ro dieci. Oppure anche Luca ha pensato in chiave allegorica che le persone sfruttano i
propri doni in misura diversa (cf. Mc. 4,20 parr.)? Non liquet.
4 Cf. sopra, intr. a 25,I4-30, nr. 1 .
s Anche nella parabola giudaica del re che affida i propri beni a quelli d i casa sua (Pesiq.
[K] 14,5 [Thoma-Lauer, Gleichnisse I, 2 I 7] ), il re sta via �un po' di tempo» . Nella para­
bola della donna che aspetta restando fedele (Pesiq. [K] I9,4 [Thoma-Lauer, op. cit.,
24 5 ]) il re sta lontano dal paese «molti anni» . Nella parabola dei due ministri Ualqut
Shim'oni 267a [Erlemanna, 216]) il re è assente • molto tempo» dal suo regno.
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Inoltre è parere della maggioranza degli esegeti che il logion conclusivo
(Mt. 25,29 / Le. I9,26), tramandato quasi identico in Matteo e Luca, sia se­
condario. La ragione principale di questa supposizione, a mio parere pro­
babile, è che il logion viene tramandato più volte come logion isolato. • Si
tratta di un logion di commento che spiega perché lo schiavo pusillanime
venga punito, senza però schiudere veramente il senso della parabola.� In­
fatti il punto saliente della parabola non è che viene tolto il suo a chi poco
ha, bensì a chi poco fa. La parabola originaria ha quindi incluso il nucleo
fondamentale di Mt. 25,14-28.3
La parabola può benissimo risalire a Gesù: 4 lo rendono probabile i nu­
merosi paralleli giudaici. Infatti, nella tradizione giudaica sono molto fre­
quenti le parabole con un re o un padrone che, prima di un viaggio, affida
ai suoi servitori o schiavi propri beni.s Molto affini alla nostra sono la pa­
rabola dei due ministri 6 e la parabola del re che dona ai suoi amici grano
e lana; 7 inoltre si possono ricordare anche tutte le numerose parabole che
parlano di un deposito di denaro che si deve custodire fedelmente. 8 Nella
storia di Gesù, però, le cose stanno diversamente: gli schiavi devono mette­
re a profitto il capitale affidato loro e non custodirlo gelosamente. Potrebbe
r Mt. 1 3 , 1 2. =Mc. 4,2.5; Ev. Thom. log. 4 1 .

�Così, a ragione, Riniker", 2.75, contro Foerster", 50; Agbanouh, 165, e Weder, Gleich­
nisse, 2.00 s., che considerano il logion l'applicazione originaria della parabola.
3 Il v. 2.8 non è secondario (come pensa Kamlaha, 33 s.): per contrasto con il conferimento
di una responsabilità maggiore agli schiavi che hanno avuto successo, la storia deve con­
cludersi per lo schiavo pavido con la sottrazione del capitale che gli era stato affidato.
4 Pensano, invece, a una creazione della comunità Schulz, Q, 2.93 s. 2.98; con dubbi Gras­
ser, Problem, 1 14 (a morivo del ritardo della parusia); più convinto Fiedlera, 2.71 s. (per­
ché non trova per la parabola alcun contesto convincente nella vita di Gesù).
5 Oltre a Pesiq. (K) 14,5 (v. sopra, p. 610 n. 5 ), cf. anche la parabola dei due governa­
tori in Mek. Ba�odesh 5 (tr. Winter-Wiinsche, 2.08) (un re istituisce un sovrintendente
alla sua paglia e uno al suo oro. Il primo si appropria indebitamente della paglia e non
può quindi diventare sovrintendente all'oro) e Semahot 3,3 (Fiusser, Gleichnisse, 2.4) (un
re affida alla sua servitù oro e argento perché commercino con esso. Il seguito della storia
è però diverso; cf. sopra, p. 569 n. 3 a 2.4,4 5-p).
6 Jalqut Shim'oni 2.67a (Erlemanna, 2.1 6): un re parte per un viaggio all'estero; uno dei
suoi ministri lo ama, l'altro lo teme: lo dimentica durante la sua assenza e trascura i pro­
pri doveri. Al ritorno il re gli chiederà conto del suo operato.
7 Tana debe Elia 5 3 (Erlemanna, 2.16 s.): prima di partire un padrone dona a due suoi
amici grano e lana. Il primo li usa per fare un pane e uno scialle, il secondo li conserva
così. Al ritorno il padrone loda il primo amico.
8 Tra le parabole di questo tipo ci sono Lev. r. 1 8 ( 1 17d) (Bill., I, 2.05 s. ) (il sacerdote
�aber consegna a un 'am hii'are� un pane puro- s'intende l'anima); Ab. R.N. 14 (Bill.,
I, 971 ) (il deposito del re- s'intende il figlio di Johanan ben Zakkai); Shab. 1 5 2.b (Bill.,

tv, 104 5 ) (il re distribuisce vesti - s'intende l'anima); Pesiq. (K) 19,4 (Thoma-Lauer,

Gleichnisse I, 2.4 5 ) (il re assente lascia alla sua amata promesse e atto di matrimonio­
s'intende che Dio lascia a Israele la torà).
612 LA PARABOLA DEI TALENTI

adattarsi a Gesù anche la natura immorale del soggetto della storia: il capi­
talista e i suoi schiavi che fanno affari col suo capitale. Infatti, anche nella
parabola dell'amministratore astuto (Le. 1 6, 1 - 8 ) Gesù giudica positivamen­
te un tipo scaltro che, trovandosi in una situazione scabrosa, riesce, andan­
do oltre la legalità, a fare ciò che è buono per sé. Anche nella parabola del
giudice ingiusto (Le. 1 8,2.-8a) il cadì gentile, che rappresenta Dio, non è cer­
to un personaggio simpatico.' Anche nella parabola del tesoro sepolto nel
campo (Mt. 1 3 ,34) lo scopritore agisce con accortezza, ma con dubbia le­
galità e moralità. 2.

Storia degli effetti. Oggi la parabola dei talenti solleva una duplice
protesta: una per la storia in sé, una perché essa viene applicata a Dio.
Giustifica forse lo sfruttamento e il profitto collegandovi anche Dio?
Nella parte finale del Romanzo da tre soldi Bertolt Brecht racconta di
una predica funebre tenuta da un vescovo dopo l'affondamento di una
nave da guerra. La nave era affondata con persone e cose, perché i suoi
proprietari, che pensavano solo al profitto, avevano fatto varare la na­
ve prima che fosse in grado di reggere il mare. Il testo della predica era
Mt. 2.5, 1 4-30. Il succo del sermone era, in poche parole, il seguente: « Sì,
amici miei, . . . Dio è un padrone severo e pretende i suoi interessi. Ma,
amici miei, è anche un padrone giusto: non reclama da ogni schiavo gli
stessi interessi . . . Egli prende ciò che gli danno. Egli non accetta solo il
nulla assoluto del terzo schiavo, di quel servo pigro, pignolo e inaffidabi­
le . . . Il senso profondo di questa parabola . . . consiste nel principio sor­
prendente: a ciascuno secondo le sue capacità » ) Assistono alla funzio­
ne, indisturbati, i proprietari della nave che hanno ottenuto il proprio
profitto «ciascuno secondo le sue capacità » . Il conto del profitto lo ave­
vano pagato i marinai annegati. La parabola diventa qui la giustificazio­
ne di qualsiasi tipo di profitto e sfruttamento.4 La protesta di Brecht con­
tro questa lettura della parabola 5 è comprensibile. Se l'avidità di pro-
r Un esempio giudaico paragonabile è la parabola dei briganti in carcere di Pesiq. (K)

app. IIIB (Thoma-Lauer, Gleichnisse 1, 3 26 s.) (il re giudica positivamente la fuga dei
briganti evasi dal carcere). 2. Cf. vol. n, pp. 443 s.
3 B. Brecht, Dreigroschenroman, in Id., Gesammelte Werke XIII, Frankfurt 1967, 1 1 42 s.
4 Da qui la protesta di Rohrbaugha, 3 5 , contro la parabola che porterebbe a considerare
questo padrone onorevole, e sostiene •una lettura contadina » (titolo del suo articolo) del­
la parabola. Esegeticamente la sua impresa risulta un fallimento.
5 Cf. anche la sua Ballata del talento nelle Canzoni infantili del 1934, in B. Brecht, Ge­
sammelte Werken IX, Frankfurt 1967, 507: « Quando nostro Signore sulla terra l si di·
lungava in proverbi, l ci ordinava di non sottovalutare Ilo strozzino. Il Egli consigliava a
tutti i visitatori, che riceveva presso di sé, l di ricavare profitto dal proprio capitale l cia­
scuno più che poteva. . . . Qui in terra non si vede forse ogni ora l e in ogni luogo l che
Dio non perdona l chi non pratica sistematicamente l'usura ? Il Ma che possono fare, al-
613
fitto di un capitalista e i metodi, presumibilmente poco piacevoli, dei
suoi agenti per ottenere un profitto del soo% o del 1 ooo% diventano
una similitudine adatta al regno di Dio, la logica conseguenza non può
che essere che questi metodi e l'idea del profitto che li genera vengano
minimizzati e giustificati visto che, tutto sommato, essi non sono che
un'immagine del modo di operare di Dio. In questo modo Dio diventa
un Dio dei ricchi e dei capaci poiché egli agisce proprio come loro.
Di seguito alla scena della funzione funebre, Brecht narra un sogno
del povero soldato Fewcoombey, che, giudice supremo, celebra il proces­
so al piccolo borghese Gesù di Nazaret, imputandogli di «aver inventa­
to una parabola che da duemila anni era stata utilizzata da pulpiti di ogni
colore » e che, ai suoi occhi, «rappresentava un particolare crimine >> .
Egli celebra questo processo in veste di avvocato dei poveri, che con i
loro talenti non possono produrre profitto perché non hanno capitali e
perché non sono dei furfanti. La domanda di fondo che il soldato giu­
dice pone all'imputato Gesù è questa: perché alcuni moltiplicano i pro­
pri talenti e altri solo la propria miseria ? Egli accusa Gesù di aver diffu­
so il falso. « L'imputato (Gesù) contesta agitato una tale accusa: è assolu­
tamente possibile trarre da un talento cinque o dieci talenti; basta darsi
molto da fare e avere un'adeguata gestione. Alla domanda: ma quale ge­
stione ? l'imputato sa solo ripetersi e risponde: 'Una gestione adeguata,
un'amministrazione normale'. Incalzato dal giudice supremo alla fine
confessa di non avere il minimo interesse in questioni economiche spe­
cifiche>> . La conclusione che Fewcoombey trae dal processo è questa: in
realtà «l'uomo è il talento dell'uomo. Chi non ha un altro da sfruttare,
sfrutta se stesso >> . Condanna poi l'imputato Gesù per complicità: «Poi­
ché hai dato in mano alla tua gente questa parabola, che è anch'essa un
talento: con il quale si ottiene un profitto » . 1
In primo luogo si dovrà esaminare la parabola, poi la sua applicazio­
ne; infine si potrà emettere un giudizio. Il primo passo è accertare il si­
gnificato originario della parabola quando è stata raccontata da Gesù.

Gesù (v. 14). La parabola racconta come un ricco capitalista in pro­


cinto di partire per l'estero chiami tre dei suoi schiavi e consegni loro la
piccola somma di dieci mine affinché la gestiscano in maniera da farla
fruttare. In questo caso gli ascoltatori di Gesù non avranno certo pensato
!ora, l quelli che non hanno nemmeno un briciolo di talento ? » . Nella poesia La canzone
del vostro talento e del nostro l'ecclesiastico trae profitto dall'evangelo, il capitalista
dalla forza lavoro dei suoi dipendenti, il medico dai corpi malati, lo statale dai paragrafi
-e « noi» dai pugni (op. cit., 590 s.).
1 Brecht (v. sopra, p. 612 n. 3 ), 1 1 5 3 . 1 1 54. 1 1 65.
LA PARABO LA DEI TALENT I

alla possibilità, abituale in Oriente, di commerciare con capitale altrui, 1


poiché soltanto a uomini liberi era consentito esercitare tale attività,
mentre qui si tratta esplicitamente di schiavi. :t Si tratta, invece, della
consuetudine di affidare agli schiavi, tra le altre mansioni, di fare affari
col denaro del padrone: ovviamente sia il capitale sia il profitto apparte­
nevano, come gli schiavi stessi, al loro padrone.3 Il diritto romano defi­
niva peculium il denaro affidato agli schiavi per tale scopo.4 Decuplica­
re o quintuplicare il capitale iniziale è una enormità anche se la parabo­
la non dice in quanto tempo ciò sia avvenuto. Per spiegare tale enorme
profitto non è il caso di ricordare i presunti alti tassi d'interesse dell'an­
tichità: a partire dall'età ellenistica essi non erano, generalmente, altis­
simi, prescindendo da periodi di crisi e casi di chiaro sfruttamento. 5 A
tal proposito, gli ascoltatori non avranno affatto pensato ad affari le­
gati a un tasso d'interesse. Quando nell'antichità si voleva moltiplicare
rapidamente il capitale i sistemi migliori erano il commercio o la specu­
lazione fondiaria.6 Il v. 27 fa capire chiaramente che non si tratta di in­
teressi poiché si parla di interessi bancari quale possibilità alternativa
che garantiva almeno un minimo profitto. Davanti a quell'enorme mar­
gine di guadagno (certo esagerato per esigenze narrative) ad alcuni ascol­
tatori sarà sicuramente venuta l'idea della mancanza di scrupoli e dello
strozzinaggio. A ogni modo questi schiavi avevano avuto successo.

x Derrett4, 1 87-190, legge il testo alla luce dell'istituto della 'isqii' (affare, ossia parteci­

pazione commerciale); in merito si confronti come testo principale B.M. 104b; inoltre
Klingenberg4, 87-98.
2. Contro la tesi di Derrett4 depone anche il fatto che la parabola non parla mai di un gua­
dagno dei 8ouÀot, ma solo di una loro maggiore responsabilità. Anche il v. 28 non dice
che il primo schiavo riceva per sé le mine dell'ultimo.
3 Qidd. 23b: lo schiavo guadagna solo per il suo padrone, non per sé. Ulteriori testimo­
nianze giudaiche in Bill., 1, 971 .
4 Cf. M . Finley, Die Sklaverei in der Antike, Miinchen 198 1 , 1 22 s . Inoltre, nel diritto ro­
mano anche il peculium restava sempre parte del patrimonio padronale, anche se lo schia­
vo poteva disporne in larga misura (M. Kaser, Das romische Privatrecht [HAW x/3,1]1,
'1971, 287 s.).
5 Le informazioni che si leggono solitamente nei commenti sono diverse. Cf. però la do­
cumentazione in M. Finley, Die antike Wirtschaft, Miinchen 1 977, 1 3 7 (1v sec. a.C.:
u%); 54 (al tempo di Cicerone: 6%); 140 (inizi del H sec. d.C.: 9%). Cicerone fa scen­
dere al 1 2% il giovane Bruto che a Cipro pretendeva interessi del 48% (op. cit., 5 5 ). Il
2.0% di cui si parla in Muraba'at, nr. 18 (DJD 11, 1 0 1 ) non riguarda interessi normali, ma
interessi di mora. I tassi d'interesse si alzano solo nel m secolo a causa dell'inflazione. Se­
condo Kaser (v. nota precedente), 497, dalla fine della repubblica in poi il tasso d'inte­
resse massimo si stabilizzò sul 1 2%. Tassi maggiori sono documentati per l'Egitto (Mit­
teis-Wilcken, Grundziige 11, 1 9 1 2, 1 1 8), ma anche qui non si tratta del tasso normale.
6 R. McMullen, Roman Social Relations, New Haven 1974, 48-5 2.
(v. 18). Il terzo schiavo si comporta diversamente. Egli considera la
somma di denaro un deposito congelato che gli è stato affidato. ' Lo cu­
stodisce accuratamente: nelle fonti rabbiniche seppellire il denaro è espli­
citamente vantato quale sistema accurato di custodia, al contrario del
sistema rozzo di custodire il denaro in un panno. 1 Gli ascoltatori sono
ora ansiosi di sapere che cosa succederà a questo schiavo che ha eviden­
temente interpretato il compito affidatogli in maniera diversa dagli altri
due conservi. Come lo giudicherà il padrone ?
(vv. 19-2.3). Il padrone degli schiavi ritorna dopo lungo tempo e rego­
la i conti con i suoi schiavi. Loda i due che hanno concluso con succes­
so i loro affari e affida loro responsabilità maggiori. Probabilmente affi­
da loro somme maggiori con cui trafficare, visto che hanno superato la
prova. Che essi si siano dimostrati affidabili «in poca cosa » potrebbe
richiamare alla mente degli ascoltatori gli esempi di Mosè e David, ai
quali Dio aveva affidato mandrie prima di assegnare loro mansioni mag­
giori.3 Ma, giunta qui, la narrazione non aggiunge altri particolari, af­
frettandosi, invece, a trattare il rendiconto del terzo schiavo.
(vv. 2.4-2.8). Questi si avvicina e restituisce al padrone le sue mine. Il
breve discorso con il quale egli accompagna la restituzione del deposito
fa tendere l'orecchio agli ascoltatori: egli definisce il proprio padrone
«duro » 4 o «severo » (Luca) . Le affermazioni metaforiche proverbiali
«mieti dove non hai seminato » e « raccogli dove non hai sparso» pote­
vano essere senz'altro riferite dagli ascoltatori (almeno nella formula­
zione greca del testo) ad affari finanziari.s Il padrone appartiene, dun­
que, a quel tipo di persone che fanno profitti ingiustificati. Perciò lo si

r In B.M. 3,II i rabbi distinguono il denaro affidato che è •annodato• (�nir), cioè un

«deposito congelato», da quello «sciolto» (m'tar), cioè un «deposito svincolato». Nel


primo caso il custode non può disporre del deposito, ma non deve neanche alcun risarci­
mento se, nonostante una custodia corretta, esso va perso. Nel secondo caso il custode
ha il potere di disporre del deposito, ma deve risarcire il danno in caso di perdita.
:z. Cf. B.M. 4:z.a (Bill., I, 971 s.); B.M. 3,10 stabilisce che in caso di perdita si debba risar­

cire il denaro affidato che il custode portava in spalla dentro un telo, facendolo pendere
sulla schiena oppure che non teneva fuori della portata dei bambini.
3 Cf. le attestazioni in Bill., I, 972..
4 axì.l)p<).; richiama le seguenti associazioni: spietato (cf. I Sam. 2.5,3 LXX), despota in­
sensibile (cf. Is. 14,3; 19,4); empio (/s. 48,4; in greco: y1vroaxw iyw o�1 axÀlJ{IÒ.; e:l).
s Agg. 1,6: ane:lpw per esborsi di denaro; Plut. Mor. 2.,182.a: -8Epi'Cw indica il saccheggio
di una provincia; Giob. 2.0,15: auvayw usato a proposito di denaro; 2 Cor. 9,9 = Sal.
I I I ,9 LXX: axopni'Cw «distribuire denaro» . Per sentenze metaforiche proverbiali con la
coppia di opposti «seminare - mietere, raccogliere» cf. Bauer, Wb6, s.v. ane:lpw, r .b, e s.v.
8e:pi'Cw, 2.; LSJ, s.v. anelpw, I. I . Inoltre Gv. 4,37; Mt. 13,3-9·2.4-30. Un proverbio greco
analogo recita: ii !I.'ÌJ xa�Éo/Jou, !I.'ÌJ civÉÀlJ (documentazione in Derretta, 191 n. 30).
616 LA PARABO LA DEI TALENT I

deve temere e perciò lo schiavo ha custodito il denaro nella maniera più


sicura. << Guarda, ecco qua ciò che ti appartiene ('t'Ò aov)» 1 suona arro­
gante; il pensiero sottinteso è «ma niente più di questo » . Il discorso del­
lo schiavo manca di equilibrio: oscilla tra arroganza, protesta e timore;
non si sa bene come classificarlo. Il padrone lo rimprovera chiamandolo
malvagio e «pusillanime » , ma non « pigro » : 1 «Per paura di fallire non ha
nemmeno tentato di avere successo »}
Il padrone ripete, senza protestare, la definizione che di lui ha dato lo
schiavo: che cosa egli ne pensi e come egli sia realmente resta incerto.
Ma un risultato è certo: con tagliente ironia smaschera il comportamento
dello schiavo: se mi avessi considerato davvero un tipo avido di profitto
e realmente temuto, avresti dovuto depositare il mio denaro in banca do­
ve quanto effettivamente mi appartiene ('t'Ò È!Joov) avrebbe almeno reso
un po' d'interessi. Gli ascoltatori riterranno che il padrone sia un genti­
le, visto che parla d'interessi bancari.4 Ma il fatto non ha niente di ecce­
zionale: proprio in quel periodo, in Palestina la classe dominante, l'alta
finanza e i latifondisti erano spesso gentili, e perciò essi compaiono ta­
lora in tale contesto nelle parabole del giudaismo e di Gesù. s Se egli sia
realmente una «sanguisuga » e uno « strozzino misantropo» 6 che con la
sua risposta conferma semplicemente l'immagine che lo schiavo ha di
lui 7 oppure se questa immagine sia sbagliata è lasciato nel dubbio an­
che dalla proposizione ipotetica dell'irrealtà (v. 27): gli ascoltatori pos­
sono pensare ciò che vogliono. Le cose stanno, invece, diversamente per
quel che riguarda la loro immagine del terzo schiavo: la loro prima im­
pressione di una persona affidabile, anche se timorosa, non sta più in
piedi. Evidentemente il tipo è ambiguo nelle sue motivazioni e la paura
del suo padrone, che egli ha addotto per giustificare la propria azione,

1 Derrett", 1 9 1 n. 1 3 1 , fa notare l'espressione sprezzante bari selka i•fanéka ricorrente

in Mishna e Talmud quando qualcuno vuole liberarsi di un bene altrui indesiderato.


1 òxvljpOç non significa «infingardo, pigro» (come viene ancora tradotto spesso, ad es. in

Didiera, 255; Hill, 3 29, e altri che seguono la tradizione esegetica occidentale influenza­
ta dalla traduzione latina di oxvljpOç con piger), bensì «titubante», «pauroso» . Cf. Poli.

Onom. 1,179 (a proposito di un cattivo generale); 5,12.4 (sinonimo di cpo�). Docu-


mentazione in F. Hauck, 6xvl)p6�, in ThWNT v, 1 67,28 ss. 3 J. Meier, 300.
4 Nel giudaismo del tempo veniva generalmente osservato il comandamento che vietava
gli interessi sui prestiti (Kahler•, 176 s.). l rabbi precisarono in senso restrittivo il divieto
biblico degli interessi (Klingenberga, 57-63). Per l'interpretazione di Kahlera la questione
degli interessi è centrale, cf. 168 s. Ma perché poi? Il capitalista vorrà interessi tutt'al
più in caso di emergenza.
5 Cf. sopra, a 18,24-27, e I. Ziegler, Die Konigsgleichnisse des Midrasch, Breslau 1 903,
246-249 (a proposito dell'imperatore).
6 Kahlera, 1 72. 1 8 3 . 7 Come crede Kahlecd, 1 7 3 .
6!7

potrebbe essere soltanto un pretesto. A ogni modo, almeno per le que­


stioni finanziarie, questo schiavo è « inutilizzabile» : perciò il padrone gli
toglie le mine e le affida al primo schiavo perché le impieghi con profitto.
(v. 29). Le parabole richiedono dagli ascoltatori il consenso con esse
e l'applicazione nella loro vita di tale consenso. Ci sono due indizi che
mostrano che la parabola dei talenti non ha incontrato il consenso in­
discusso degli ascoltatori. Forse il logion proverbiale erratico del v. 29,
inserito nella parabola già molto presto e che constata come, appunto,
i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, I è sta­
to, in origine - prima della sua reinterpretazione in senso escatologico 1
- una protesta rassegnata degli ascoltatori che simpatizzavano con il ter­
zo schiavo. In ogni caso, proprio questo è successo con l'inserimento,
un po' più tardi, di Le. 19,25: «Padrone, ma quello ha già dieci mine! » .
In questa obiezione s i percepisce i n trasparenza qualcosa d i una pro­
spettiva di lettura « dal basso » . L'obiezione mostra che la parabola di
Gesù non è stata formulata dalla prospettiva dei poveri e che questo è
stato notato non solo in epoca moderna. Certamente Gesù non voleva
presentare come modello un affarista privo di scrupoli, ma l'accusa che
egli prenda le mosse dalla «maniera corrente di condurre gli affari >> , sen­
za metterla in discussione, e che egli «non abbia alcun interesse per que­
stioni economiche>> 3 è senz'altro pertinente. Quest'accusa andrebbe tut­
tavia rivolta anche a molte parabole rabbiniche che presuppongono, dan­
dole assolutamente per scontate, le gerarchie sociali terrene e parlano,
per esempio, senza criticarli minimamente, di «re in carne e ossa >> . In
un'ottica sociale le parabole dei rabbi e di Gesù non sono manifesti sov­
versivi.
Che cosa voleva dire Gesù con questa parabola ? Le proposte degli
interpreti sono molteplici e sono d'accordo soltanto su un punto: che
essa si riferisca al rapporto degli uomini con Dio. Le metafore conven­
zionali << padrone >> e « schiavo » non permettono alcuna diversa interpre­
tazione. Tolto questo punto, quasi tutto il resto viene giudicato diver­
samente. Gli interrogativi fondamentali sono i seguenti.
I. Il << regolamento dei conti » è una metafora stereotipata che indica
il giudizio finale o è solo un elemento della narrazione che vuole rende-

I Cf. vol. n, p. 396 n. 2.


1 Il v. 29 venne sicuramente già molto presto riferito al giudizio finale, trasformando la
parabola in «un insegnamento sulla maniera in cui Dio avrebbe ripagato» Ueremias,
Gleichnisse, 6o). Dodd, Parables, I Io, interpreta diversamente: «Chi ha una capacità spi­
rituale la amplierà ulteriormente con l'esperienza» . L'interpretazione di Dodd è confor­
me a quella della chiesa, che non ha mai riferito questo versetto al giudizio finale.
3 B. Brecht (v. sopra, p. 6 1 2 n. 3 ), 1 1 54·
LA PARABO LA DEI TALENTI

re perspicua l'importanza della pretesa della parabola ? Nel secondo ca­


so gli interpreti propendono per un'interpretazione umana generale del­
la parabola; nel primo la parabola viene classificata tra le parabole di
giudizio.
2.. La figura saliente è solo quella del terzo schiavo o anche gli altri due
sono importanti quali modelli positivi d'identificazione ? In base a ciò si
interpreta la parabola in senso polemico o in senso parenetico.
3· Il momento significativo è soltanto quello finale del regolamento
dei conti oppure anche quello iniziale dell'affidamento del denaro ? A
seconda della risposta la parabola diventa una pura parabola di giudi­
zio oppure una parabola dell'efficacia del regno di Dio.
E infine, 4· qual è il rapporto di questa parabola con l'opera di Gesù?
Ad I. Jiilicher è un classico sostenitore dell'interpretazione umana generale.
Egli pone l'accento sull'etica, cioè <<sulla fedeltà in tutto ciò che Dio ci ha af­
fidato» . 1 Un altro sostenitore di questa impostazione è Via: nella sua avvin­
cente analisi esistenziale letteraria, il terzo schiavo è il tipo della persona che
si rifiuta di assumersi responsabilità, scaricando la colpa sugli altri." Nel­
l'interpretazione psicologica di Drewermann il perno della storia è la pau­
ra del terzo schiavo: egli appartiene a quel genere di persone che nella loro
«ricerca paradossale di certezza » dettata dalla paura di fare qualcosa di sba­
gliato, alla fine non fanno assolutamente niente. A Gesù interessa infrangere
«questa onnipotenza della paura » .3 Se, invece, s'intende il «regolamento dei
conti» come metafora corrente del giudizio finale, la parabola verrà interpre­
tata come «parabola della crisi•• .4 Essa si indirizzerà, allora, a persone che
stanno davanti al tribunale di Dio esortandole a prendere una decisione in
vista del giudizio. A mio parere, alla luce dei paralleli giudaici, considerare
il «regolamento dei conti» una metafora del giudizio e, quindi, la parabola
una parabola del giudizio, sarebbe più che naturale.s
Ad 2. L'interpretazione polemica vede spesso nel terzo schiavo, che inter­
ra il denaro, gli scribi, i quali egoisticamente nascondono la parola di Dio
affidata loro, oppure i farisei che innalzano una siepe attorno alla torà per
proteggerla, invece di !asciarla operare efficacemente. 6 Occasionalmente si

1 Gleichnisreden n, 4 8 I . Per Jiilicher l'idea del giudizio passa in secondo piano, senza pe­

rò scomparire del tutto.


2. D. Via, Die Gleichnisse ]esu (BEvTh 57), I970, I I 6 s. 3 Drewermanna, 748. 753·
4 Jeremias, Gleichnisse, I 66; oggi, con una lettura pregnante, Rinikeca, 2.8 3 s.
s Cf. sopra, p. 96 n. I, a I 8,2.3-3 5·
6 Dodd, Para h/es, I I 2.; Jeremias, Gleichnisse, 59; similmente, ad es., Dupont", 7 57; Kam­
laha, 34 s.; Lambrecht, Treasure, 2.34; Scott, Hear, 2.34. Inoltre le immagini dei farisei e
degli scribi che si aggirano come spettri nelle pubblicazioni sono talora paurose. Eccone
un esempio, scelto a caso, da un articolo del I989: «Con le vostre (se. degli scribi di os­
servanza farisaica) azioni e le vostre dottrine vi tirate indietro dal rischio della vita con-
pensa anche alla gente di Qumran che si ritira nel deserto, invece di operare
in Israele. 1 Ma agli occhi degli uomini di quel tempo ciò che il terzo schia­
vo fa non sembra affatto chiaramente negativo, proprio come non appaiono
misere scuse i motivi addotti dagli ospiti che disdicono l'invito (Le. I 4,I5-
24) né risulta loro incomprensibile la reazione dei primi operai della vigna
(Mt. 20,I-I 5 ) o quella del figlio maggiore (Le. I 5,n-3 I ). Ciò suggerisce che
la parabola è intesa più a conquistare uomini che a polemizzare contro di
loro. Ma nella parabola questi uomini non sono né i farisei né i loro scribi.
L'immagine dello schiavo pusillanime che sotterra le mine si adatta a loro,
che operavano nel paese d'Israele, che si sentivano responsabili dell'intero
popolo d'Israele e collegavano la torà con la realtà quotidiana, come un pu­
gno nell'occhio. Così dietro al terzo schiavo si deve intravedere piuttosto il
tipo della persona pusillanime che bada alla sicurezza, un tipo che non sarà
mancato tra i discepoli di Gesù come non sarà mancato nella folla dei suoi
ascoltatori. Gesù vuole conquistare questi uomini, non combatterli. 1
Ad 3. Ci sono poi interpreti che vogliono dar peso all'inizio della parabo­
la che diventa, allora, la storia del «dono di Dio», che non può «mai esse­
re una rendita passiva » ) Per H. Weder le mine stesse «avanzano una prete­
sa . . . che va assolutamente soddisfatta >>; la parabola non mira al comporta­
mento degli schiavi, bensì al «loro atteggiamento verso il denaro>> .4 Per lui
l'argomento in questione è il regno di Dio, un ((dono>> che al medesimo tem­
po avanza una «pretesa » . Personalmente ritengo difficile mettere in primo
piano esclusivamente la potenza del dono, separandola dal comportamento
degli schiavi. Di per sé il denaro è «muto>> : lo si può considerare tanto un
deposito congelato e sotterrarlo quanto un deposito svincolato e farlo lavo­
rare con profitto. Nella nostra parabola, dunque, tutto verte, evidentemen­
te, sul comportamento degli schiavi, che non può essere separato dal loro
atteggiamento. Ma quel che è certo è che tale comportamento non può es­
sere separato dal loro atteggiamento verso il padrone che ha messo a loro di­
sposizione il capitale: qui si confrontano un timoroso bisogno di sicurezza
e un'azione intraprendente, dinamica, con tutti i rischi che essa comporta.S
Come nel caso di Le. I 6,I-8 anche qui la parabola vuole conquistare gli
ascoltatori perché agiscano con coraggio e senza paura in vista del giudizio
imminente.
Ad 4· Purtroppo nella storia stessa non si trova alcuna analogia diretta
con l'opera di Gesù. Gesù, il predicatore del regno di Dio itinerante e nul-

cessa da Dio, dalla realtà del genuino culto di Dio, dal rischio del rapporto col prossi­
mo. Rendendo la torà . . . il tesoro di una religiosità meticolosa che dev'essere custodito
rigorosamente, voi soffocate dò che vi è stato affidato . . . In questo modo diventate voi
stessi sterili» (Dietzfelbingera, 2.30 s.).
x Grundmann, 52.1. 2 Così, a ragione, Puig y Tàrrecha, 1 82.-1 8 8.

3 Schniewind, 2.52.; simile la lettura di Schweizer, 308.


4 Weder, Gleichnisse, 2.05; cf. anche Weisera, 2.64; Kamlaha, 36.
5 Puig y Tàrrecha, 1 87: •sicurezza sterile>> e «guadagno con rischio» .
620 LA PARABO LA DEI TALENT I

latenente e il padrone con la sua servitù e i suoi schiavi affaristi appartengo­


no a mondi diversi. Ciononostante non è mai mancato chi cercasse di col­
legare la parabola con la particolare etica del regno di Dio annunciata da
Gesù o con le pretese del suo discepolato. In questa lettura la parabola non
è diretta, allora, ad ascoltatori estranei, bensì, in primo luogo, ai discepoli.
La parabola non è interessata, quindi, a un determinato modo di agire, ben­
sì a come si dovrebbe vivere nella sequela: attivamente, pronti a correre ri­
schi, senza paura. Un siffatto atteggiamento di fondo era certamente richie­
sto ai seguaci, senza casa né patria, di Gesù. 1 Tutto ciò sembra plausibile,
ma non è, purtroppo, esegeticamente dimostrabile. Deve, quindi, restare in­
certo se si possa collegare in questa maniera con la sequela quel coraggio di
correre un rischio nei confronti di Dio che la parabola vuole instillare.
Prendere sul serio la volontà di Dio significa orientarsi, con coraggio,
verso le possibilità aperte del suo futuro e non con angoscia, verso la re­
altà esistente del presente. Ciò corrisponde alla dinamica del regno di
Dio, che è minuscolo come un granello di senape e sarà grande come un
albero. Dupont ha, a questo proposito, una formulazione felice: << L'amo­
re non ha paura del rischio » . 1 Ma, allo stesso tempo, questa formulazio­
ne lascia trasparire qualcosa della debolezza della parabola: tra l'amore
e il modo di agire determinato e rischioso dei piccoli capitalisti esistono
tante differenze che il punto di contatto tra figura e vita è solo formale:
il coraggio, la disponibilità a correre un rischio, la prospettiva di un gua­
dagno possibile. Questa è la prima debolezza della nostra parabola. Es­
sa inoltre non spiega perché l'amore non debba avere alcuna paura. Per
Gesù il coraggio dell'amore si fonda sul fatto che l'amore non ha biso­
gno di aver paura di Dio e sa di essere da lui sostenuto proprio anche al
momento della resa dei conti nel giudizio a venire. Ma la parabola lascia
irrisolto il problema dell'immagine di Dio; lascia, in fondo, senza rispo­
sta l'interrogativo se Dio non sia davvero avido di profitto e duro come
pensa il terzo schiavo. Questa è la sua seconda debolezza. Certo, per gli
ascoltatori di Gesù questo non rappresentava un problema, perché co­
noscevano nel complesso la proclamazione del regno di Dio fatta da
Gesù e perché essi sperimentavano concretamente nella persona di Ge­
sù la cura amorevole di Dio per l'uomo. Per loro il narratore Gesù era lui
stesso, in maniera affatto naturale, commento e chiave della parabola.
In questo modo essi erano in grado di inquadrare nella maniera giusta

1 Secondo Didiera, 269, Gesù vuole esortare i discepoli all'attività in vista della passione

che si avvicina. Puig y Tàrrecha, r83-I93, collega il «guadagno con rischio» alla rinun­
cia a ogni sicurezza richiesta dalla sequela di Gesù. Per Riniker", 286, si tratta di supe­
rare le difficoltà del discepolato cui si allude, ad es., in Le. 14,28-3 2 o Mc. ro,1 7-22.
1 Duponta, 759·
621
quel punto della parabola che li riguardava. Se si prende invece la para­
bola in sé, essa risulta ambigua. Resta dunque in sospeso se Dio non sia
davvero il giudice «duro » . 1

Matteo. Nell'interpretazione matteana della parabola .. viene elimina­


ta proprio questa ambiguità. Qui la parabola viene interpretata allego­
ricamente: il padrone del quale si parla è il Gesù Cristo assente che ri­
tornerà; quindi essa non è vera in generale, ma solo in quanto storia di
Gesù Cristo. Deve essere dunque letta alla luce di Gesù Cristo, che è il
segno anteposto alla parabola. La comunità la interpreta in base al segno
che la precede: spiega ciò che dice, integra ciò che non dice, raddrizza ciò
che in essa è storto. La comunità legge la storia quale espressione della
propria fede in Gesù Cristo. Per essa è la parte concreta che decodifica la
parte figurata, non più viceversa. Ciò che nella parte figurata poteva es­
sere storto viene, per così dire, « battezzato » alla luce della parte concre­
ta. È quanto si andrà ora a vedere nei particolari.

I4 s. La parabola è strettamente congiunta al testo precedente da wcr-


7tEp. La prima proposizione è un anacoluto. Senza che sia indicata una
precisa applicazione, i lettori sanno che anche qui si tratterà del ritorno
di Gesù, del giudizio e, soprattutto, della vita della comunità sotto il se­
gno di questo futuro. Nel proseguimento della parabola essi scopriranno
rapidamente negli schiavi, come già avvenuto in 24,4 5 - 5 1 , le possibilità
della propria esistenza. Il significato dei talenti che i tre schiavi ricevono
è più vago: i lettori devono pensare a «talenti » nel senso moderno del ter­
mine,3 cioè la dote o inclinazione naturale di una persona, oppure nel
senso della interpretazione più antica della chiesa, alla parola di Dio? 4
Contro la seconda interpretazione depone la diversità delle somme affi­
date agli schiavi; contro la prima, che le diverse capacità umane sono for­
I Peccato che la parabola non parli di un quarto schiavo, che cominciò a trafficare col

suo capitale, ma gli andò male e fallì. Il padrone lo avrebbe invitato a «entrare nella sua
gioia »? Speriamo di sì.
2. Per semplicità non tratto la tradizione prematteana della comunità. L'analisi redazio­
nale ha mostrato come Matteo si sia basato in larga misura su quella tradizione e, pre­
sumibilmente, si sia limitato ad accentuarla in modo più chiaro, senza modificarla radi­
calmente.
3 In tedesco il termine Talent («talento, dote naturale, inclinazione » ) non proviene diret­
tamente dalla parabola. Presumibilmente per influenza della Vulgata che traduce -raÀ.ctv­
-rov con talentum, il termine è entrato dapprima nelle lingue romanze e solo nel xn seco­
lo è passato dal francese in tedesco. Cf. T. Zahn, Bibelwort im Volksmund, Niirnberg
1 893, 3 5, e DWb XI/I / I ( 1 93 5 ) 96 s. Lutero e Zwingli traducono con Centner. In inglese
talent è usato sin dal XVI secolo nell'accezione di «talento, dono naturale» (The Oxford
English Dictionary xvii, '1 989, 5 80). 4 Cf. sotto, p. 627 e n. 2.
622 LA PARABOLA DEI TALEN T I

se già e meglio indicate dalla frase xa'tà ""�" lò(av òuvap.tv. Forse la para­
bola vuole indirizzare i pensieri in direzione dei diversi carismi nel sen­
so di I Cor. 1 2, così da far pensare ai doni di guarigione, profezia, inse­
gnamento, ecc. Si adatta bene alla visione paolina anche l'inquadramen­
to dei talenti nel rapporto << padrone - schiavo » : essi non sono proprietà
degli schiavi stessi, ma sono doni prestati o, meglio, « incarichi concessi
in prestito» dal Signore, che la comunità ha ricevuto (cf. I Cor. 4,7 ) . La
grande unità monetaria << talento » indica che i membri della comunità
hanno ricevuto da Cristo qualcosa di molto grande. I lettori avranno in­
teso la frase «a ciascuno secondo le sue capacità » I come riferimento al­
la misericordia del loro maestro: egli li manda per il lungo cammino
della giustizia, ma non sovraccaricherà nessuno poiché il suo «carico è
leggero » ( n ,3 o).1 Ciò che qui conta non è, come in Brecht, il fatto che
nel giudizio il padrone severo ricompenserà « ciascuno secondo le sue ca­
pacità »,3 bensì la maniera in cui il misericordioso Signore della comu­
nità distribuisce i compiti ai suoi discepoli.

16-18. I due primi schiavi cominciano immediatamente a «lavorare>>


con 4 i loro talenti. Si manifesta così la loro ubbidienza: si deve essere
pronti per il Signore sempre, dal primo istante in poi. In greco èpya:"çe­
a19at può avere la sfumatura di «guadagnare (denaro ) » ,s ma il verbo fa­
rà ricordare ai lettori del vangelo anche il lavoro per Cristo (cf. 9,3 7 s.;
ro,ro) e le « buone opere >> ( 5 , 1 6) che i cristiani devono fare. Per Mat­
teo è talmente ovvio che il «lavoro>> lo fanno gli schiavi e non i talenti (in
Le. 1 9, 1 6. 1 8 sono invece le mine che lavorano), che qui non si registra
alcun accento particolare. 6 Il terzo schiavo sotterra il suo talento, che
egli considera un deposito congelato. Memori di precedenti insegnamen­
ti di Gesù, i lettori sanno già che nella vita con il maestro ciò che conta
sono i frutti ( 7, 1 5 -20; I J , I 8-23 ) e che la luce dei discepoli si identifica
con le buone opere, che portano il mondo a lodare il Padre ( 5 , 14-1 6).
Essi intuiscono, quindi, che in questa storia il terzo schiavo sosterrà il
ruolo negativo. Si sono forse immaginati anche qualcosa di particolare
visto che si tratta proprio di quello che ha ricevuto la somma minore?
Niente affatto: avranno semplicemente pensato che si tratti delle nor­
mali variazioni narrative.
I Cf. l'espressione «ciascuno secondo le sue capacità » di Brecht (v. sopra, p. 6 1 2 n. 3 ),

1 1 43. 2. Cf. Bengel, 149: <<Nemo urgetur ultra quam potest».


3 Brecht (v. sopra, p. 6 1 2 n. 3 ), 1 14 3 .
4 ! v dovrebbe essere uso semitizzante pe r analogia con l'ebraico b•.
5 Cf. Bauer, Wb6, s.v. , e; LSJ, s.v., 11.4. !py�ai� può significare «guadagno di denaro•
(Atti I6,16. 1 9; 19,2.4). 6 Come fa Weder, Gleichnisse, 2.08 s.
1 9. « Dopo molto tempo » il padrone ritorna. Ai giorni di Matteo i
membri della comunità aspettano già da molto tempo la parusia; essi
sanno anche che il Signore verrà entro breve tempo (cf. 2.4,2.9) e che il
presto o tardi della parusia non dovrà influire minimamente sulla loro
ubbidienza e sulla loro vigilanza.

2.o-2.3 . Arrivati alla « resa dei conti » i lettori pensano al giudizio uni­
versale (cf. r 8 ,2.3 s.). Gli schiavi che hanno lavorato compaiono davan­
ti al giudice Cristo, loro Signore. Gli presentano i frutti del loro lavoro,
dunque le opere buone. I Come lo schiavo affidabile di 2.4,4 5-4 7 e nel
senso di un logion cristiano che più tardi sarebbe diventato molto diffu­
so (cf. Le. r 6, r o; 2 Clem. 8 , 5 s.), essi si sono dimostrati «fidati in poca
cosa » e vengono ricompensati. Per entrambi gli schiavi la promessa è la
medesima e non dipende dall'ammontare della somma che sono riusciti
a guadagnare. A questo punto i lettori pensano alla medesima paga di
19,2.8-2.0, 1 6. La «gioia » ha forse richiamato alla loro mente, soprattut­
to dopo 2. 5 , 1 0, un convito festoso ... Il verbo daÉp'X.t:a-8a.& li induce a pen­
sare al regno dei cieli nel quale anche loro « entreranno» . Su questo pun­
to Matteo è avaro di particolari: le gioie celesti o il potere celeste dei giu­
sti quale compensazione delle sofferenze terrene non vengono descritti;
le parole «molto » e «gioia » devono bastare. Non sarà così con il desti­
no del condannato: la parabola ne parlerà subito dopo.

2.4-2.7. Ora è la volta del terzo schiavo che si avvicina e depone ai pie­
di del padrone il suo talento inutilizzato. Ai lettori delle comunità mat­
teane il discorso che egli rivolge al padrone suona arrogante e ingiusto.
Essi sanno già, per propria esperienza di fede, che il loro Signore non è
un «padrone severo» interessato solo al proprio profitto,3 bensì è «gen­
tile» , il suo «giogo è soave» ( r r , 2.9 s.) ed egli, il loro Emmanuele, li sal­
va quando stanno per affogare ( r 4,2.8-3 r ) . Per loro, con il suo discorso
blasfemo lo schiavo dimostra di essere un ipocrita.4 Per la comprensio-
I L'idea dei successi missionari (cf. Luck, 2.7 1 ) non è certo l'aspetto principale, anche se

non la si può escludere, poiché per Matteo la missione si fa anche e soprattutto con le
opere ( 5 , 1 6; 1o,8 s.).
:1. iim�ii può significare «festa» ; cf. Dalman, Worte, 96; Bill., 1, 972. s.

3 Cf. Brecht (v. sopra, p. 612. n. 3 ), 1 142..


4 Nella storia dell'interpretazione il terzo schiavo è considerato spesso un ipocrita, ad es.
in Bullinger, 2.2.08. Bengel, 149, ha una felice formulazione per questa lettura nel qua­
dro della conoscenza che la comunità attinge dalla fede: «Non novit qui durum putat.
Deus est amor». La stessa concezione viene espressa efficacemente anche neii'Opus Im­
perfectum 5 3 (PL 56, 937): • Come raccoglie egli ciò che non ha seminato per quel che
riguarda te, che egli ha arato con la parola della sua croce come aratro spirituale? » .
LA PARABOLA DEI TALEN TI

ne matteana del giudizio l'immagine del terzo schiavo fornisce un con­


tributo non trascurabile: la paura al cospetto del giudice supremo è evi­
dentemente una pessima consigliera; la paura non libera per un'azione
diretta in avanti, ma porta a un atteggiamento difensivo infruttuoso.

28-30. Il provvedimento preso dal padrone degli schiavi nei confronti


del servo inutile (v. 28), al quale la parabola di Gesù aveva accennato so­
lo brevemente, viene ampliato diffusamente nella tradizione premattea­
na (v. 29 ) e da Matteo stesso (v. 30). Nel vangelo di Matteo la scena non
è più, per così dire, parte della parabola e al v. 30 non è più neanche me­
taforica, bensì è un discorso diretto sul giudizio universale. Il giudizio
non prende di sorpresa i lettori, come avvenuto in 2 5 , 10- 1 2, poiché do­
po i vv. 21 e 23 essi si aspettano il rovescio negativo della medaglia. Il lo­
gion di coloro che hanno e riceveranno ancora di più (v. 29) viene usa­
to da Matteo in maniera diversa da 1 3 , 1 2. ' Mentre in questo passo si
trattava della capacità d'intendere di Israele e di quella dei discepoli,
nella nostra parabola si tratta delle opere degli uomini e della loro re­
tribuzione in sede di giudizio. Matteo aggiunge le parole «e ne avrà in
sovrabbondanza » per far capire che il compenso che si riceverà al giu­
dizio universale sarà un dono di molto superiore a quanto gli uomini si
sono meritati per ciò che hanno fatto.2 Se si bada puramente alla logica,
nessuna delle due parti del logion si adatta alla parabola: la vita eterna
non è semplicemente un'aggiunta alle opere, ma qualcosa di diverso; il
terzo schiavo, al contrario, non è che abbia proprio niente: ha, se non al­
tro, il talento che gli viene tolto. Ma il senso è comunque chiaro e i let­
tori avranno capito ciò che Matteo vuoi dire con quel logion ancor pri­
ma di scoprirne l'incongruenza. Il v. 30 parla poi fuori metafora, con le
parole già familiari di 8 , 1 2; 1 3 ,42. 5 0; 22, 1 3 , delle tenebre e dei tremen­
di dolori dell'infemo.3 Una volta di più si vede come Matteo, che si espri­
me in maniera tanto allusiva e figurata quando si tratta di descrivere la
gioia celeste, diventi drastico quando tratta molto più minutamente del­
l'inferno. Proprio lui che ha appena narrato come la paura, vera o simu­
lata, del terzo schiavo davanti al padrone sia stata una pessima consi­
gliera, non si perita, evidentemente, di spaventare i propri lettori. Ci si
dovrà occupare ancora di queste contraddizioni nella visione del giudi­
zio e nella cristologia di Matteo.

z Matteo è capace di riportare con un senso diverso logia affatto uguali o simili: cf. ad es.

7,1 5-1 7 e 1 2,33-3 5; 10,17-22 e 24,9 - 14; per i racconti cf. 1 4, 1 3 -21 e 1 5,32-39.
2. Cf. 10,42: un compenso celeste per un solo bicchiere d'acqua! 3 Cf. vol. n, p. 32·
Matteo ha reinterpretato la parabola tradizionale utilizzando lo stru­
mento ermeneutico dell'allegoria. ' In questo caso, rispetto alla parabola
originaria di Gesù l'allegorizzazione comporta una reale innovazione:
essa ha cambiato la più importante delle sue metafore, quella del padro­
ne, riferendola non più a Dio, ma a Gesù. Soltanto Gesù, il narratore e
«commento » originario alla parabola, il quale ora era assente, poteva
proteggerla dall'equivoco di parlare di un Dio «duro » che pretende «pro­
duttività » . L'allegorizzazione cristologica fece dunque qualcosa che, con­
siderando la parabola originaria di Gesù, era assolutamente necessario.,.
L'allegorizzazione matteana mette in evidenza tre dimensioni di signi­
ficato della parabola. La più importante è la sua dimensione cristologi­
ca. Mediante questa lettura l'evangelista evita che le affermazioni della
parabola assumano un valore generale riguardo a Dio e agli uomini:
adesso esse sono vere soltanto in Cristo. Essa evita che il padrone degli
schiavi della parabola sia un affarista spietato e privo di scrupoli e ap­
paia, invece, un Signore degno di fiducia.3 La parabola parla del totus
Christus che fu presente (v. q), che è assente (vv. 1 6- 1 8 ) e che ritorne­
rà (vv. 19-30), e incoraggia a leggere tutto in questa prospettiva. La se­
conda dimensione fondamentale è la dimensione escatologica. La fede e
la prassi della comunità si collocano nell'orizzonte del giudizio univer­
sale celebrato dal figlio dell'uomo Gesù, giudizio nel quale esse devono
dare buona prova di sé. Se il riferimento al giudizio, che anche la comu­
nità dovrà affrontare, risulterà un incoraggiamento a « lavorare» e non
avrà un effetto paralizzante dovuto alla paura, dipenderà da ciò che l'in­
tero vangelo di Matteo dice circa il « Signore » Gesù. I lettori interpreta­
no la parabola secondo l'analogia dell'amore che essi stessi, nella loro fe­
de, hanno imparato da Cristo. Se, invece, la parabola viene letta come te­
sto isolato, staccato da quella esperienza e dal macrotesto del vangelo,
allora essa «non funziona » . Infine è importante riconoscere che in que­
sta parabola tutto quanto è narrato in funzione della sua dimensione pa­
renetica. Nel discorso sul giudizio futuro si parla del presente. Il presen­
te «non è il periodo vuoto segnato dall'assenza del Signore» 4 bensì l'op­
portunità di mettere il lume sullo staio e far risplendere le opere a lode
del Padre ( 5 , 1 5 s.); significa l'occasione per rischiare non solo i propri be­
ni (cf. 1 9 , 1 6-27 ), ma persino la propria vita (cf. 10,3 9; 1 6,25 ). Ma tut-

1 Cf. vol. n, excursus <<L'interpretazione matteana delle parabole», pp. 462-465 .


:tCf. i n merito vol. n, excursus « L'interpretazione matteana delle parabole», pp. 467 s.
3 Marguerat, ]ugement, 54 5, intitola il passo intero «la fiducia del Signore» . Per la com­
prensione della storia è più importante la fiducia nel Signore. Questa fiducia è il vantag­
gio che i lettori hanno acquisito in virtù della loro esperienza di fede e della lettura di tut-
to il vangelo di Matteo. 4 Barth, KD m/2, 6 r o.
LA PARABO LA DEI TALENTI

to ciò non può certo cancellare il fatto che la parabola parli del giudi­
zio venturo e termini con una nota fosca. Cristo non è soltanto un Signo­
re fedele e degno di fiducia, ma è anche un minaccioso giudice univer­
sale. L'orizzonte escatologico della parabola non dona alla comunità
soltanto il coraggio di rischiare, ma le incute, forse, anche paura. Se i let­
tori cominciano a « lavorare» può essere anche per il pungolo della pau­
ra che incute loro il «pianto e stridore di denti » . Il finale che Matteo ha
dato alla parabola (v. 30) non mette a tacere il dubbio che il Signore pos­
sa effettivamente essere un « uomo duro » e che la paura del terzo schia­
vo possa non essere del tutto infondata. In questa parabola matteana ri­
mane un fondo di ambiguità che si ritrova anche, in generale, nella con­
cezione matteana del giudizio. I

Storia degli effeui. La parabola dei talenti è un esempio classico che


mostra come l'interpretazione allegorica della chiesa approfondisca il
senso del testo matteano e lo estenda ad altri campi di applicazione, sen­
za modificarlo sostanzialmente. La continuità tra il testo matteano e la
successiva interpretazione della chiesa è veramente notevole. Neanche
la Riforma ha proposto spunti interpretativi veramente nuovi. Si posso­
no dunque leggere le interpretazioni degli autori ecclesiastici in larga mi­
sura come sviluppi, nuove sottolineature, puntualizzazioni ed estensioni
dell'abbondanza di significati potenziali del testo di Matteo. Le interpre­
tazioni degli esegeti del passato possono fornire validi stimoli alla nostra
applicazione del testo.
r . Per tutti gli interpreti il padrone è Cristo, che all'ascensione ha lasciato

la comunità e farà ritorno soltanto dopo lungo tempo, alla parusia. Ma an­
che per la chiesa che verrà Cristo non è soltanto assente. Ciò che Matteo
ha espresso con la sua cristologia dell'Emmanuele, senza però collegarlo
direttamente con questa parabola, gli interpreti successivi lo hanno detto,
seguendo Origene, ricorrendo alla dottrina delle due nature: Cristo è lonta­
no soltanto secondo la sua natura umana, «ma secondo la natura della di­
vinità » è «ovunque» . .. Anche se il Signore è assente, la comunità non vive
nell'oscurità della lontananza di Dio.
2. Gli schiavi sono gli apostoli, i maestri, i dottori o i dignitari della chie­
sa, cioè vescovi, sacerdoti, diaconi, prelati, predicatori, ecc.J Perlopiù si fa
I Cf. sotto, pp. 678-686. :. Orig. In Mt. ser. 65 (GCS 1 1 , 1 5 2. s.; cit. a 1 5 3 ) .
3 Hier. In Mt. 2 3 9 e l a tradizione d a lui dipendente pensano agli apostoli. Chrys. In Mt.
78,3 (PG 58, 714); Eutimio Zigabeno, 63 3 e altri pensano ai responsabili della parola e
della dotttina; Teofilatto, 425, pensa a vescovi, preti e diaconi. Dionigi il Certosino, 273,
ai prelati in quanto successori degli apostoli. Bullinger, 219B, e Melantone, 205, ai pre­
dicatori. I banchieri del v. 27 sono o i maestri o tutti i cristiani; cf. la storia dell'interpre­
tazione in Bogaert".
una distinzione tra la parabola dei talenti e quella precedente delle vergini
che si riferiva a tutti i cristiani. È interessante notare come proprio le in­
terpretazioni figlie della Riforma si siano spesso attenute a questa lettura,
mentre nell'esegesi cattolica del XVI e xvn secolo si può notare una tenden­
za maggiore a vedere negli schiavi tutti i cristiani. La giustificazione esege­
tica per tale lettura è che anche allora, nel momento in cui Gesù aveva rac­
contato la parabola, tutti l'avevano ascoltata. Il principio esegetico appli­
cato suonava: «Senza argomenti cogenti non si può limitare il senso della
Scrittura » . 1 Qui abbiamo, quindi, esegeti cattolici che sottolineano il sa­
cerdozio universale!
3· I talenti vennero interpretati nelle maniere più svariate. L'interpretazio­
ne più antica li riferiva alla parola di Dio.1 Per Origene i cinque, i due e l'uni­
co talento rappresentano i vari gradi di comprensione della Scrittura: a co­
loro che hanno cinque talenti è data una comprensione spirituale della Scrit­
tura, quelli con due talenti si sono elevati un po' al di sopra del senso lette­
rale della Bibbia, quelli con un solo talento sono quanti sono rimasti fermi
alla lettera che hanno ricevuto all'inizio) Già nella chiesa antica i talenti
vengono letti alla luce di I Cor. I l., I l. ss. e riferiti ai carismi ovvero, nella ter­
minologia scolastica, alla gratia gratis data. 4 Per Gerolamo e i suoi discepo­
li i due talenti sono l'intelligenza e le opere, l'unico talento del terzo schiavo
la ragione.S Il numero cinque dei talenti del primo schiavo suggerì di rife­
rirli ai cinque sensi naturali.6 Questa lettura aprì la porta anche a conside­
rare tra i talenti anche le doti naturali che una persona possiede per natu­
ra. 7 Infine, vennero annoverati fra i talenti anche beni esteriori: posizione
sociale, ricchezza, influenza, ecc. 8 Un bel pensiero è quello che s'incontra
in Bengel: il tempo che si ha va considerato un talento donato.9 Dopo il
medioevo, nell'esegesi predomina la tendenza a vedere nei talenti tutto ciò
che l'uomo è e ha, poiché, tutto sommato, non esiste nulla che l'uomo non
abbia ricevuto da Dio. 10 Ma, a questo punto, risultava difficile tracciare una
1 Maldonado, 494: �Non est sine necessariis argumentis Scripturae sententia restringen­

da » . Cf. Lapide, 4 5 8 .
1 Clem. Al . Strom. I ,:Z.,I -4,2 (BKV n/I ?, 1 2 s.; Ps.-Ciem. Hom. 3 , 6 1 ; Orig. In Mt. ser. 66

(GCS I I , 1 54 s.) (la Bibbia ); Tenullian. Praescr. Haer. 26,1 (BKV r/24, 3 3 3 ), ecc.
3 Orig. In Mt. ser. 66 (GCS I I , 1 54); fr. 506 (GCS 1 2, 208 s.).
4 Così, ad es., Cyr. Al. In Mt. fr. 283 (Reuss, 2 5 3 ) (X�ICrJJ- a 7tVEUflo1X'tlxov); Hier. In Mt.
239 (diversae gratiae); Dionigi il Certosino, 274; Faber Stapulensis, 105.
s Hier. In Mt. 239.
6 Hier. In Mt. 2.39 s.; anche Ambr. In Le. 8,92 (BKV r/2. 1 , 5 1 5 ); Greg. Magn. In Evang.
9, 1 (PL 76, 1 106); nel medioevo quasi tutta l'esegesi occidentale.
7 Così, ad es., Dionigi il Certosino, 274. La maggioranza degli interpreti considera i bo­
na naturalia tra le virtutes che l'uomo già possiede e in proporzione alle quali riceve poi
i talenti; cf. Tommaso, Lectura, nr. 2040.
8 Lapide, 4 5 8 ; Brenz, 7 3 3 · 9 Bengel, 149 (al v. 14).
1 0 Maldonado, 494 ( �naturalis ratio, offida ecclesiastica, sensus, verbum Dei » ); Lapide,
628 LA PARABOLA DEI TALEN TI

distinzione fra i talenti e la !òia òUvatJ.tc; o, secondo la traduzione della Vul­


gata, fra i talenta e la propria virtus dell'uomo. Propria virtus vennero con­
siderate allora le qualità naturali o la fede. Il cattolico Maldonado rifiuta
l'interpretazione tradizionale della propria virtus come fede, ritenendola pe­
ricolosa, poiché, infatti, nessuno «ha la fede da se stesso » .1
4· La moltiplicazione dei talenti venne spiegata variamente secondo il si­
gnificato attribuito ai talenti. Essa poteva, quindi, indicare una più profon­
da intelligenza della Scrittura, una maggiore erudizione teologica, l'ascesi,
la prassi della parola, le opere buone o, costantemente, l'amore. 1 Sotterra­
re il talento poteva, viceversa, significare, ad esempio, che una persona non
pecca, ma non compie neanche opere giuste; che pensa solo a sé e non agli
altri o che ha paura della giustizia radicale dei consilia evangelica) Ma
nella maggior parte dei casi qui si moraleggia ampiamente: superbia e ne­
gligentia,4 ozio e indolenza 5 caratterizzano il terzo schiavo.
5 . Sebbene la parabola dei talenti tratti della grazia e delle opere, essa fu
trascinata solo marginalmente nel vortice della polemica confessionale del
XVI secolo. Calvino polemizza di sfuggita contro l'opinione ridicola dei pa­
pisti che, basandosi sulla frase xa'tà 't�v lòiav òuvatJ.tV, sostenevano che «Dio
assegnerebbe a ciascuno i propri doni secondo la misura dei suoi meriti>> . 6 Il
riformatore ginevrino potrebbe aver avuto in mente un'interpretazione co­
me quella di Nicola di Lira, che suona: Si homo facit quod in se est, deus
infundit sibi gratiam per quam potest predictum opus exercere. 7 Lapide pro­
testa, non a torto, contro questa «calumnia >> di Calvino 8 poiché già Tom­
maso d'Aquino commenta, a proposito di M t. 2 5 ,24, che il buon Dio nihil
requirit ab homine nisi bonum quod ipse in nobis seminavit.'J Le accuse del­
lo schiavo pigro sarebbero dunque, rispetto a Dio, sostanzialmente false. 1 0
Nel complesso è stupefacente il grado di unanimità raggiunto nell'interpre­
tazione di questa parabola. protestanti e cattolici sapevano entrambi che la
fede è un dono, ma deve diventare attiva e che una persona che ha sì rice­
vuto la grazia, ma «non la utilizza, perde totalmente la grazia stessa >> . I I
6 . Gli interpreti si sono spesso occupati, soprattutto nelle prediche, del

458 ( «quaelibet dona Dei » , cioè <<gratia gratum faciens, gratiae gratis datae [i carismi],
bona externa [come, ad esempio, le cariche, gli onori secolari ed ecclesiastici] »).
I Maldonado, 4 9 5 . Egli propone di considerare questa espressione non parte del signifi­

cato della parabola, ma solo un suo ornamento retorico.


1 Efficace in Valdés, 443 : per lui il senso della parabola è questo: abbandona la strada

del timore e cammina per la strada dell'amore.


3 Opus lmperfectum 53 (PL 5 6, 9 3 5 ); Teofilatto, 4:z.5; Maldonado, 496.
4 Hier. In Mt. :z.4 1 e, dopo di lui, spesso. 5 Calvino, n, r68 s.
6 Calvino, 11, 1 67. 7 Nicola di Lira al v. :z.4 (pagine non numerate).
8 Lapide, 459· 9 Tommaso, Summa :z./n qu. 6:z. art. 4 ad 3·
I O Cf. Dionigi il Certosino, :z.75, al v. :z.4: lo schiavo cattivo accusa ingiustamente Dio di

pretendere dagli uomini opera meritoria che non potrebbero produrre e x naturalibus.
I I Bullinger, :z.:z.rA.
differente numero dei talenti che, secondo Matteo, i tre schiavi hanno rice­
vuto. Forse proprio la circostanza che lo schiavo che ha ricevuto di meno di­
venti la figura negativa spiega perché gli interpreti si preoccupino tanto dei
«piccoli >> . «Anche con un solo talento puoi fare del bene», dice Giovanni
Crisostomo; <<tu non sei certamente più povero di quella vedova [di Mc. 1 2,
41-44] né meno istruito di Pietro e Giovanni >> . 1 Nelle prediche si ripete co­
stantemente che Dio non premia la grandezza dell'opera, bensì la buona vo­
lontà: perciò il primo e il secondo schiavo ricevono la medesima ricompen­
sa e perciò un diacono non è migliore di un laico zelante.� Con la sua fede
Paolo ha ammaestrato pubblicamente l'intera chiesa; un piccolo contadino
guida, tra le sue quattro mura, la famiglia alla pietà: la ricompensa è la me­
desima e ognuno deve essere contento della sua vocazione) Nessuno ha
tutti i doni, ma anche nessuno ne è completamente privo. La povertà può
essere un dono più grande della ricchezza, la malattia uno più grande della
salute. Paolo o Francesco d'Assisi possono aiutare a capire perché.4
7. Solo nel caso di certe interpretazioni in chiave di storia della salvezza
non parlerei tanto di sviluppo di significati potenziali del testo, quanto piut­
tosto di loro alterazione. L'esempio migliore lo offre Ilario, a detta del qua­
le lo schiavo con i cinque talenti rappresenta quegli israeliti che adempiono
i comandamenti dei cinque libri di Mosè alla luce dell'evangelo, per la gra­
zia della giustificazione. Lo schiavo con i due talenti rappresenta i gentili
che hanno soltanto la fede e la confessione di fede e le fanno fruttare. Infine,
lo schiavo con un solo talento rappresenta i giudei che ritengono sufficien­
te la legge di Mosè e nascondono la gloria dell'evangelo.s Questa interpre­
tazione basata sullo schema della storia della salvezza è stata adottata solo
sporadicamente. 6 Essa è molto lontana dalla direttrice del testo matteano in
quanto con essa la chiesa proietta su Israele quel giudizio che Dio le ha riser­
vato come possibilità.
Quanto alle interpretazioni della parabola prodotte dalla Riforma, è
in Calvino che si trova, nella forma più chiara, un nuovo accento che di­
venne importante per il futuro. Secondo Calvino i talenti (Zentner) ven­
nero distribuiti affinché, per loro tramite, venisse promosso «il traffico
reciproco tra gli uomini » e «l'utile comune >> . Noi produciamo «per Dio
stesso frutto e profitto . . . se risultiamo utili il più possibile ai nostri fra­
telli>> .7 Il luogo dove ciò avviene è lo stato cristiano, per esempio la Re­
pubblica di Ginevra. « Calvino libera quindi l'illimitata molteplicità dei
doni . . . da ogni subordinazione delle opere secolari a quelle spirituali,
dei laici al clero >> . 8 Anche lo sguardo di altri riformatori va oltre le mu-
I Chrys. In Mt. 78,J (PG 58, 714).
� Così, ad es., Opus Imperfectum 5 3 (PL 5 6, 936).
3 Brenz, 73 5 s. 4 Lapide, 4 5 8 . 5 Hil. Pict. In Mt. 2.7,7-10 (SC 2.58, 2.10-2. 1 5 ).
6 Ad es. da Pascasio Radberto, 8 5 1 s. 8 5 6. 7 Calvino, n, 1 68. 8 Mieggea, 1 1 1.
LA PARABO LA DEI TALENT I

ra della chiesa: non solo i servitori della parola, ma anche «gli altri mor­
tali nei doveri della vita che essi devono adempiere » I possono essere pa­
ragonati agli schiavi che hanno ricevuto i talenti. Nell'ottica della con­
cezione protestante del mondo quale luogo in cui lodare Dio, questa
posizione è assolutamente coerente. 1 Probabilmente sono state gettate
qui le basi di uno sviluppo moderno, che avrebbe sciolto gradualmente
il legame della parabola con Cristo, con il compito che egli aveva dato
ai suoi discepoli e con la chiesa quale luogo della sua attuazione.
Non è questa la sede per illustrare nei particolari questo sviluppo che proce·
de di pari passo con la crescente laicizzazione, individualizzazione, privatiz­
zazione e, infine, secolarizzazione della società. Bastino un paio di esempi
presi dal XIX secolo. In questo secolo la parabola diventa il paradigma per
l'impegno personale del cittadino cristiano nel mondo. Per Ewald nel giu­
dizio universale la posta in gioco è questa: «Che ognuno con la sua capacità
. . . faccia qualcosa di utile nel mondo, ne tragga un profitto corrispondente,
del quale poi, alla fine, renda conto» ) Per Jiilicher la parabola dice: «Co­
lui che fa qualcosa viene stimato grandemente, ma chi, non importa quali
siano le scuse che adduce, lascia passare inutilmente un lungo lasso di tem­
po, deve pagare per questa sua pigrizia e stoltezza » .4 Applicato al rappor­
to con Dio ciò significa «che l'uomo deve essere fedele e attivo . . . che deve
riuscire a combinare qualcosa . . . che deve usare, nel modo voluto da Dio, i
beni affidatigli, la vita e la salute, il talento e l'opportunità. Ma chi, per pi­
grizia, non svolge il compito affidatogli, sicuramente non acquisirà la sod­
disfazione divina » . s In Inghilterra ci si esprimerà così: « La parabola predi­
ca il dovere della fedeltà e dell'opera attiva in favore della società . . . Perché
ciò che aiuta la società rende anche colui che aiuta migliore e più ricco».6
Oppure in termini ancora più individualistici e privi di criteri etici: « L'ina­
zione significa perdita. Chi non va avanti va indietro » . 7 A chi ha iniziativa
(e pochi scrupoli) il successo sorride. In questa veste individualistica e seco·
larizzata la parabola dei talenti permette di essere applicata a tutto. Il mondo
degli affari può entrare nel mondo delle parabole. Ma quale sarà il suo re·
ferente? In un'ottica di storia della lingua si può leggere questo sviluppo pro­
prio nelle due espressioni comuni «sfruttare il proprio talento» e «seppellì·
re il proprio talento» : chi impiega capacità, possibilità e strumenti di pote­
re e con essi si afferma «sfrutta » il proprio talento; chi invece rimane nel·
l'anonimato e non sfrutta le proprie capacità «sotterra » il proprio talento.

I Bullinger, 2.19B. Brenz, 733, parla dei «denari• differenti di re, principi, contadini, ar­

tigiani.
2. MieggeQ, 12.6, parla giustamente, riferendosi a Calvino, di un passo in direzione della
secolarizzazione, fatto, però, per ragioni teologiche.
3 Ewald, 339· 4 jiilicher, Gleichnisreden n, 483. 480.
s J. Weiss, 3 8 5 . 6 Montefiore, n, 3 1 9· 7 Montefiore, loc. cit.
Che cosa si faccia in un caso o non si faccia nell'altro è assolutamente irri­
levante. La parabola dei talenti permette di essere usata quale autolegitti­
mazione spirituale da furfanti e affaristi - proprio come pensa B. Brecht.
L'esegesi e la storia degli effetti hanno chiarito dove si trovi la radice
di tale abuso della parabola: la parabola in sé è equivoca. Se Gesù, con
tutto il suo messaggio e il suo Dio, diventa il segno che precede e la pa­
rentesi che racchiude il contenuto della parabola, tale abuso non può ve­
rificarsi. Dove Gesù non era tutto questo, l'abuso fu inevitabile. La pa­
rabola dei talenti è vera, in senso teologico, solo quando parla del Dio
di Gesù Cristo, che ama tanto gli uomini al punto che essi gli devono ogni
cosa, ciò che sono e ciò che possono fare. Essa è vera in senso teologico
soltanto se parla del suo incarico di amare e dei doni che vengono impie­
gati a tale scopo e non per qualsivoglia altra attività umana . Essa è ve­
ra in senso teologico soltanto se viene riferita alla comunione dell'amo­
re che Gesù voleva. Se essa non parla in questa maniera, allora è diven­
tata e diventa un mero contenitore linguistico, con il quale qualsiasi at­
tività umana può essere legittimata.

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